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Il bastardo. Capitolo nove

Il bastardo

Iannozzi Giuseppe

Ogni riferimento a persone esistenti
o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Capitolo nove

Un’ombra. E’ da quando sono uscito dall’appartamento che mi tallona. Mi volto giusto un secondo. E’ un tipo che potrebbe passare inosservato: insignificante, segaligno, ben rasato, occhiali da vista. Non avrà più di venticinque anni. Per chiunque altro sarebbe soltanto un ragazzo, uno sfigato. Non per me. Non l’ho mai visto prima, di sicuro gli è stato ordinato di starmi alle costole. Chi sia il mandante non lo so. Non mi piace. Dovrei farlo fuori senza pensarci su un minuto, girarmi di scatto, prenderlo alla sprovvista e regalargli un ricamino sotto la gola con il tagliacarte che tengo in tasca, e poi proseguire per la mia strada facendo finta di niente. Sarebbe la cosa migliore, voglio però vedere fino a che punto sarà capace di tirare avanti con questa recita di quart’ordine.

L’aeroporto di Caselle è pieno di poliziotti. Sono costretto a tenere lo sguardo basso.
Non sarà facile imbarcarmi, passare il metal detector con la Beretta. Da quando i terroristi dell’Isis hanno cominciato a seminare il panico a destra e a manca, non passa più uno spillo. L’ho cacciata nello scheletro d’un vecchio trapano, la Beretta. Per non destare sospetti, il trapano con la pistola dentro è ammucchiato insieme ad altri attrezzi da carpentiere. Ho una sola possibilità di farcela, una sola.
Passo attraverso il metal detector. Comincia a suonare.
Mi fermano.
Mi chiedono di vuotare le tasche.
Tiro fuori tutto o quasi: monete, accendino, chiavi. E, alla fine, sfilo dai pantaloni la cintura con la fibbia in acciaio.
Mi fanno passare di nuovo attraverso il metal detector.
Suona di nuovo.
Nell’intanto la mia valigia passa sul nastro, senza esser degnata di uno sguardo.
“Che ha in tasca?”
Gli agenti mi squadrano male. Sospettano. Sorrido a trentadue denti.
Faccio il finto tonto, poi caccio fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni il tagliacarte.
“Me n’ero dimenticato!”, dico con aria innocente, “un tagliacarte, un regalo di mia figlia, un portafortuna… lo porto sempre con me che quasi mi dimentico di averlo addosso.”
“Lo dimentica, eh!”
Metto su un’aria contrita, addolorata: “La leucemia se l’è portata via.”
Il poliziotto non capisce.
“Lei amava scrivere lettere, agli amici. Scriveva lettere, già!, a tutti quegli amici che non ha mai incontrato”, spiego con voce bassa.
La storia che gli rifilo è così stupida e lacrimevole che il poliziotto non dubita che sia proprio così.
Mi mordo la lingua tanto è il dolore al petto. Gli occhi mi lacrimano.
Il poliziotto è imbarazzato.
“Non può…”. Non finisce la frase, solo mi fa segno di squagliarmi.
Raccolgo la valigia dal nastro trasportatore.
Ringrazio con un cenno del capo e tiro lungo.
E’ andata. Non so bene come e perché, ma è andata.

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