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Da dietro uno spiraglio di prigione

Da dietro uno spiraglio di prigione

ANTOLOGIA VOL. 182

Iannozzi Giuseppe

ECCETERA ECCETERA

Il vino, la bicicletta nuova e lucente
e il vento fra gli eccetera eccetera
E noi nel buio cimitero
a cercare di capire
il senso della vita, toccando
con mani tremanti,
per indefiniti momenti,
angeli di freddo marmo
E pensiamo, pensiamo
che il momento resta e resta
sul momento un bel niente,
un bel niente senza spiegazione
E iniziare le frasi con una “e”,
con un “ma” o un “però”;
Ci perdiamo così,
per una congiunzione
fra vita e morte, sole e luna,
poesia e distrazione

Bigi i colori,
la pazzia sulla tavolozza,
e Van Gogh ancora
senza cognizione di sé
E noi qui
ci siamo dimenticati
di sistemare
il testo in testa all’attore,
all’insignificante commediante
che tiene la lingua longa,
cadendo però, chissà perché,
solo e sempre
su Aida, mia dolce Aida

I.

… talvolta la frenesia
di non voler più nulla scrivere
ché il bello e il brutto
persino dal vento commentati,
in maniera conveniente o no;
prende talvolta la noia
come dentro a un obitorio
tra cadaveri e ossa da segare.

II.

Eran ieri i libri la rivoluzione,
forse solo l’illusione d’un buffone
che domani il domani
sarebbe finalmente stato.

Giorni perduti,
riavuti indietro mai,
così ancor oggi dalla bocca mia,
veloce o piano,
si diparte il raglio,
quello che ben sai,
quello che in eredità lascio.

III.

Si ama la poesia come si suona il jazz,
ubriacandosi di lacrime e whisky,
scoprendo al mattino, non troppo presto,
che fa capolino in mezzo alla fronte
un dolore di ghiaccio.

IV.

Tiranno l’amore, inganno per ciechi e gechi
in un cielo di troppo freddo sole seppelliti.

DULCINEA

Vieni a trovarmi, Dulcinea
Nel mulino a vento mi troverai
in compagnia d’un cuore
e d’un’armatura che addosso
più non s’aggiusta

Vieni all’alba o al tramonto
La prima volta che t’incontrai
temevo avresti ucciso la pazzia
che in piedi mi reggeva;
e oggi che di acqua sotto i ponti
ne è passata davvero tanta
comprendo che non ero sbagliato,
che non era sbagliata la paura

Vieni a trovarmi
Vieni a trovarmi dove ora io sto
nella ruggine dei giorni

Non un gigante o un burattino
nella terra della Mancia oramai
Ronzinante e Sancho Panza piango:
la profondità della solitudine mia
li ha consumati già, così io penso,
dolcissima Dulcinea del Toboso

ERA IERI

Al dolore ci accompagniamo,
talvolta cercando compagnia
nel rosso d’una bottiglia,
altre ancora in quella
d’una combriccola
che da tempo i contatti ha perso
con quella scuola
dove tutti s’era compagni, banco
dopo banco, fianco a fianco, copiando
più per la felicità di sfidare il dolore
d’una rampogna
che per sentita necessità

I MIEI MITI

I miei miti così diversi
e le tue abitudini sempre uguali
a certi versi

E un poeta muore
e un uomo nasce
fra il tanfo della miseria,
nel cuore del rumore
che vomita insulsa poesia

I miei miti così
e la tua bellezza sempre
a condannare
chi fa il mestiere,
chi beve fino a tarda sera
perché sia la dimenticanza di sé
la compagna più sincera

I miei miti così e così
E tu, tu che gli occhi chiudi
sempre alla solita ora,
mentr’io scarabocchio
e subito lo scritto straccio
pensandomi già marinaio
imbarcato verso il domani

UN RE

Un Re
Levata dalla testa
la corona di ferro
disse adesso basta,
basta alla testa
che gira, all’ebrietà
che fa il passo incerto
Non tacque però la Corte
di saggi e giullari raccolti
intorno al vecchio stanco

DEA DI VENDETTA

Uccidimi, uccidimi adesso
Non ho niente da perdere
Il sangue e la croce fra i tuoi seni
non fanno più paura all’alma mia
pizzicata fra realtà e delirio

I morti risorgono
con su maschere
che fan ridere;
e i carabinieri giocano
gli occhi su tre bussolotti
senza star fermi mai

Non c’è che questa specie di sogno
che mi regge ancora in piedi;
per quale ragione
non dovresti farmi fuori
adesso che ogni cosa
si sta perdendo nella confusione?
La stupidità sta tappezzando
da cima a fondo
questa città infestata dal Peccato?

Uccidimi adesso, adesso
che le vene sono più pallide
di quel Cristo in croce
in solitaria compagnia
di tanti uguali a lui persi
nel tempo e nello spazio

Uccidimi adesso
Non era forse questo
che aspettavi da una vita intera,
mia Dea?

MIA GIOVANE FIAMMA

Ti ho incontrata ieri
Sorridevi al vuoto
che ti si parava davanti
Non mi hai riconosciuto
Gli anni han fatto scempio
di ricordi e lettere mai spedite

Sorridevi e la tentazione
sempre quella, rubarti un bacio
per un ceffone in piena faccia

Ti ho incontrata triste
ma sorridevi senza un perché
Sotto la pioggia a capo scoperto
affondavi in ogni pozzanghera
Sarebbe stato facile raggiungerti,
offrirti un riparo sotto l’ombrello
e una sigaretta dal pacchetto nuovo

Tu, vecchia ancor giovane fiamma,
unico mio peccato mai appagato,
dove e quando abbiamo sbagliato
nemmeno una preghiera a mani giunte
al Tempio del Tempo ce lo spiegherà

IL NOME DEI MORTI

Dimentichiamo, dimentichiamo
tutto questo, siamo già al giorno
senza fiori,
e tu ti chiedi
se le mani nude,
se i guanti o gli schiaffi
La farina, la spiga, la polisemia
Il cammello non passa ancora
per la cruna dell’ago;
e ancora la luna forgia l’argento

E ancora si tinge di te
questa notte che i morti
chiama per nome

IL GOBBO FAVOLOSO

Come vampiri sul limite resistiamo
Si sciolgono i ghiacciai, i nevai, i viavai
Rimane quel che rimane,
e non lo sappiamo mai bene cosa
Ma questa cosa, questa cosa
tu non la chiamare primavera, radice, face
I granchi camminano all’indietro
Dovremmo farlo anche noi
invece di cercar fortuna in un ferro di cavallo,
di battere il ferro, di far d’Efesto il mestiere

Come vampiri sul limite ci affacciamo
per un momento soltanto;
e ciao ciao al gioco, testa o croce,
addio alla tradizione, alla ginestra

Come vampiri lasciamo la bellezza
Come l’inganno che in fronte ci baciò
lasciamo il suicida libero di volar via
La bruttezza al gobbo Leopardi, perché no!
Favoloso e di più, con o senza di noi
si sciolgono i ghiacciai, i nevai, i giammai

NON MI SONO FATTO NIENTE

a Cinzia Paltenghi,
sempre e per sempre Mamma Lupa

Non mi sono fatto niente
Sono caduto
e non ho sentito niente
Il muro di Berlino resiste
e a Ovest il sole è ben nascosto
dietro montagne di neve bianca

Non mi sono fatto niente
Sono caduto e i numeri della Cabala
sono ancora al loro posto
I giorni sul calendario però
sembra non passino mai
dove ora io sto
Fantasmi mi menano pacche sulle spalle
rassicurandomi che passerà,
che non è poi così difficile far volare il tempo
con una buona educazione siberiana

Sono caduto
e non ho visto anima viva
Ripasso a memoria Gogol’
e di notte sogno un camino,
larghe spire di fumo
che affumicano parole

Non mi sono fatto niente
Sono caduto
e adesso sono freddo e nudo,
e spio il mondo di fuori
da dietro uno spiraglio,
da dietro uno spiraglio di prigione

SIGFRIDO

Se mi ami
di tutti i pensieri
spogliati
La sottoveste
lascia scivolare
fin sotto alle caviglie,
e mostrami
com’è bella
una donna
che ama e ama me,
un Sigfrido destinato
a morire prima
d’aver consumato
tutto l’amore

IL MIO PIANTO

Piango delle stelle la luce
Il sangue mio l’hai già bevuto
Altro non ho da offrirti

WERTHER

Tu non m’ami più
Senza te nel traffico delle strade
il mattino i suoi occhi chiude su me
Non servono i semafori a fermare
la frana dell’anima mia

Sta un poeta a un tavolo
seduto a mirar il cielo
quasi fra le nuvole potesse scorger
della Creazione il mistero:
s’inebria per ogni pecorella
che il vento commuove,
lo prende poi in fronte
un debole raggio di sole,
abbassa allora lo sguardo
sul caffè ormai freddo,
sospira, e sotto i baffi se la ride

E pensare a tutti quei versi
E pensare a tutte quelle gioie
sì piccole, eppur in un tempo
neanche poi troppo lontano
importanti
E adesso,
che è rimasto di tutto questo?
L’alito freddo del verno
che le giunture dell’alma scardina
mentre tutto le gira attorno
– folletti di vetro fanno a gara
per la risata più alta e stonata
che al muro costringa l’infelice

Sull’acceleratore il piede
Il resto del corpo da tempo è via
Non si cura lo sguardo di sapere
che cosa c’è al di là
del parabrezza, della nebbia
che le lacrime han donato agli occhi

Muore un uomo cadendo
nella tromba delle scale,
si diffonde l’eco dell’inumano urlo
insieme all’ululato dell’ambulanza
Si taglia il pittore l’orecchio,
nel sangue intinge il pennello
per iscrivere il nome suo
nel registro degli indagati

Legge il Werther la fanciulla
davanti alle lingue d’un fuoco;
un po’ ride, un po’ s’annoia
Fuori però è il regno del freddo,
così resiste con lo sguardo posato
sugli scarafaggi delle parole
infilzate l’una dopo l’altra
Lei non sa che Napoleone amò
e amò Goethe sino a Sant’Elena

Tu non m’ami più
Sol questo conta e il piede paralizzato,
congelato sulla folle velocità
cui unica verità è in fondo…

è in fondo null’altro
che l’ultimo atto di disperato coraggio,
di strapparsi gli occhi dalle orbite
e non pensarci più all’amor donato
e a quello creduto,
per un momento soltanto domato

DONNA MIA, SON CYRANO!

Donna mia, fresca rosa
di rossa passione,
a ben guardare son io
solamente un poeta, uno dei tanti
che la Corte della tua Bellezza infestano
Ogni dì sotto al tuo balcone
trovo assiepate bande di sbandati,
di cantanti stonati alle prime armi,
ma tutti di me più belli assai;
con occhio arcigno li guardo
e quelli non una piega:
chi rutta e chi sbadiglia,
manco s’accorgono di me
che al puzzo loro mi mischio
per incontrare,
col favore dell’alba,
il fresco tuo saluto
Spintonato,
gittato di peso
nelle pozzanghere e nel fango,
calpestato dalla calca,
le lodi di tutti quegli altri odo, mentr’io
– che il cor mio per te darei –
è già tanto quando riesco
a levar per un momento gli occhi
al cielo e incontrar così la luce
che è nei tuoi

Pesto, malconcio,
con le pupille di pianto gravide,
in una taverna cerco rifugio
e insieme agli avvinazzati canto,
canto un canto stonato
a volte empio, colmo di rabbia
più che di poesia; e tutto questo
perché t’amo, t’amo più di quanto
sia mai riuscito a farti capire

Che resta, cosa mai resta
a chi ama con sì tanta forza
e la voglia non se la può levare
se non nell’ebrietà d’un vinello da poco?
Oddio sì, ammetto d’aver di tanto in tanto
pizzicato il culetto a qualche chellerina
e d’aver fatto anche
due o tre ubriachi complimenti all’ostessa;
quando poi però s’è trattato d’andar al sodo,
per chissà quale strano caso del destino
sempre mi son ritrovato con le braghe calate
e il sedere gonfio di legnate

Ah, se sol natura m’avesse fatto bello!
E invece son cavaliere malfatto,
grande di cuore e di naso, abile
a metter le rime ai sentimenti,
coraggioso tanto assai con la fantasia,
ma quando s’accorgono le donzelle
di quanto lungo e duro è il naso mio,
tosto sbuffano, ed è così
che sempre mi vedo costretto
a ripiegar sulle meno belle
che di muliebre hanno un bel niente

Triste destino quello del Poeta
eletto tale dal ghigno popolare,
triste assai davvero! Non bello,
dotato di cuore e di naso,
alle belle non piaccio, Donna mia
Per questo a te mi confesso,
a te che di me mai nulla saprai
se non per interposta persona

Se sol potessi amare il naso mio
così come ami la mia poesia!
Ma nel sogno ho già sconfinato
d’una misura di troppo,
e allor taccio, taccio per non soffrire
più di quanto sia disposto il core
a sopportare



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