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Al di là della mia testa vuota

Al di là della mia testa vuota

ANTOLOGIA VOL. 176

Iannozzi Giuseppe

LEI È MIA

Lei è mia,
non lo sai ma lei è mia
come l’alba e il tramonto
che si squagliano nei miei
e nei suoi occhi innamorati

Lei l’amore lo sa,
lei lo fa con me
Al centro della sua anima
batte quel batticuore
che tu non le hai saputo dare
se non con la forza della paura…
legandola all’ombra di sé

NON AVREMMO DOVUTO

Con l’antico vestito nero
venne in un giorno di sole
che non sembrava possibile
Con freddezza
raccolse la mano infantile
Dietro di sé
lasciò vaghe tracce di sgomento,
fece poi in fretta la nebbia
a piombare su tutto l’intorno

Il palloncino giallo, gonfio di elio,
impiccato ai cavi elettrici
ancora oscura il disco del sole,
quasi a ricordarci
che c’è stata innocenza
e tanta incoscienza

Mai avremmo dovuto lasciarla andare
Mai avremmo dovuto lasciarla sola

ANGELI DI COMPASSIONE

Mai hai compreso
degli angeli la compassione,
mai hai compreso
che ha un suo senso la Notte
soltanto quando
nell’orgia di me e di te
affonda

Del Libro Sacro scontenta,
hai dimenticato
che a capo chino,
sotto il pallore della Luna,
si semina l’argento
sfidando
del vuoto eterno
la malizia

Pensi solo a te,
al gesso scolpito male
sul modello delle tue ossa,
e trovi che è abbastanza,
fin troppo da sopportare:
non sei ancora capace
di restaurare dalle macerie
lo splendore dell’amore,
perde così valore
ogni antico valore
e niente è mai qualcosa,
niente è mai una costola di Dio

DIALOGO COI MORTI

In tanti hanno cantato
di cuori infranti
con facce da clown
per andare avanti con lo show

Dimmi ora
come prosegue
il Dialogo coi Morti
iniziato e mai terminato

Quando ci siamo conosciuti
avevo meno di te;
mi ritrovi oggi uguale
con meno ancora
e un teschio in mano,
come Amleto;
sai tu forse dirmi
come è potuto accadere?

Ho un’idea bizzarra
che mi stampa un sorriso
da orecchio a orecchio,
ma non riesco ancora a capire

Le rose nel roseto sacro,
che ieri coltivai con tanta cura
donando loro il letame migliore,
son venute su gravide di spine;
e a ogni nuova stagione
ne partoriscono in quantità maggiore

Ho dimenticato di pregare,
e non sono stato il solo
Ho interrogato troppo a lungo
il volto ossuto che domani
di certo anch’io avrò,
e non sono stato perdonato

Sai tu forse dirmi
quando terminerà
il Dialogo coi Morti?

NON NE SONO STATO CAPACE

Terrò vivo il silenzio
Ogni tenerezza ha visto il centro
dell’Occhio del Grande Cinico,
e le suole bucate non aiutano in questo

I tesori raccolti ieri
giacciono adesso in fondo al mare
coi fantasmi che m’hanno conosciuto

Troppo per stupirmi ancora,
per cercare un altro porto
e un’altra donna da amare,
per un’ora almeno

A menadito conoscono i morti il futuro,
a chiare lettere è vergato nel Libro del Giudizio
E lungo le strade non uno che parli chiaro,
e tutti lo sanno di non avere scampo,
tutti lo sanno e tacciono

Sarei dovuto andarci cauto
E non ne sono stato capace

Alle Idi di Marzo ogni cosa avrà compimento
Se qualcuno può trarsi fuori da questo impiccio
lo faccia ora e non si guardi alle spalle
In fondo, in fondo lo sapevamo dall’inizio
che Dio avrebbe baciato l’anello di Lucifero
Aveva visto giusto il vecchio Charlie
anche se aveva un bordello in testa
e nemmeno una nota di coraggio
per gli Scarafaggi

Ma ancora canta il Fantasma dell’Opera
Non è cambiata la sua voce
nel corso dei secoli, noi però
non siamo più qui

Sarei dovuto andarci cauto
coi movimenti di Marte
Sarei dovuto andarci cauto
E non ne sono stato capace,
non ne sono stato capace

FRA LE TUE GAMBE POETA

In un giorno di freddo qualunque,
in mezzo alla nebbia della mezza,
sognante e piangente,
mi chiedesti d’esser il tuo poeta
Ti dissi che di spine si nutre la bellezza
e che mai han saputo le mie mani
raccogliere delle rose la finezza spinata
senza violarle

Per questo, per tutto questo hai benedetto l’uomo
e mandato al diavolo la scimmia della mia cultura

Non sei cambiata da allora,
sogni ancora a occhi aperti
come un’ape d’oro in cerca
della primavera

In un giorno qualunque
vuoto di luce, vuoto di buio,
rimproverasti alla mia anima
di non conoscere
le profonde conseguenze
delle verità taciute

Per questo, per tutto questo ho amato
la saggezza nella scollatura del tuo petto,
continuando ad adorare maniaco
le tue labbra rosse rosse

Per tutto questo, per tutto questo
mai ho avuto il coraggio di confessarti
che il sole mai di me si sarebbe preso gioco

Per questo, per tutto questo hai benedetto l’uomo
e mandato al diavolo la scimmia della mia cultura

In un giorno qualunque, né caldo né freddo,
all’ombra della chiesa dei sacri tuoi avi,
rossa di rabbia, sicura di te come una dea,
sulla mia fronte della volgarità scorgesti il segno
Da quel momento non ci fu più spazio
fra le tue gambe per la tristezza d’un poeta

Per questo, per tutto questo ancor vago
di landa in landa in cerca d’uno spiraglio di luce
in tutta fretta fuggito da una porta aperta

NON HAI…

No,
non l’hai
capito
mai
che
ti amo;
che
di te
non posso
fare
a meno

Ma
tant’è!

Così
torno
indietro,
restando
fermo
al solito
posto
per morire
ancora,
una punta
appena,
anche se
non l’hai
capito
mai
che
significa

TUTTO IL ROSSO

Fa presto il rosso
a fluir via
tutto dalle pallide vene
Perché solo il freddo
morde l’anima mia?
perché questo silenzio
d’attorno, così innaturale?
Pace, terribile pace
che profuma di dolciastro
Che sa il sapore della Morte
Eppure non volevo arrivare
all’Estremo

Bianche nuvole passeggiano
al di là della mia testa vuota,
che si riempie dell’aria dolce
della morte
Presto sarò un corpo morto
– vuoto di battiti di calore
Ma resterà la poesia del dolore
a incidere delle ossa il bianco,
fino a consumarle

PASSI NELLA NEVE

Quando qui nevica, nevica come dio comanda:
la sciarpa te la leghi al collo per strozzarti
e sopravvivere così alla tormenta che ti taglia
la faccia. C’è poco da fare. I piedi affondano
ben bene nella neve, e il ritorno è sempre
un po’ più difficile: quella che era vergine
non lo è più dopo poche ore, è invece mota
che fa un rumore cattivo, come di carapaci,
di scarafaggi schiacciati. La neve è grigia,
è sporca, e quando la notte inesorabile cade
neanche te ne accorgi che le strade
non sono le solite, di catrame. Le lattine
e le cicche riposano sepolte, e ogni tanto le pesti,
però non te ne accorgi mica. Non credi in dio
e le campane – lontane – hanno il suono
che sai, quello di sempre, quello di quand’eri
ancora un bambino timido timido, quasi simile
a un angelo. L’intorno è quasi vuoto: scivolano
accanto a te ombre, bianche; ti danno un saluto
breve, e veloci vanno via verso il suono
che è di bronzo. Qualcuno ti avvicina,
imbarazzato e infreddolito, chiede:
“Hai d’accendere?”; e tu scuoti il capo,
lui ti sorride e pensa chissà che cosa,
poi ti saluta con la mano alta e aperta,
sussurrando alla notte: “Dio sia con te, stronzo!”
Passi oltre, e i passi che ti sei lasciato dietro
sono già stati calpestati da un cane randagio
che t’abbaia manco fossi tu il peggior iscariota
mai apparso su questa terra così, un po’ complicata
e nulla affatto divertente. Con l’alito pesante,
con l’ossigeno sporco e freddo nei polmoni,
chiudi la giornata e apri la porta di casa
con la vecchia chiave arrugginita da cent’anni
di solitudine: accendi la lampadina da venti candele
appesa a un filo di suicidata speranza, leggi gli occhi
fissi del crocifisso – che era di tua madre morta
proprio in quella stanza –, prendi poi a spogliarti,
a slegarti la sciarpa. Sul tavolo un pezzo di pane
e uno di formaggio, come sempre non mancano mai.
Sfogli le lenzuola vuote, tristemente bianche:
non ce l’hai la forza per una sega, da tanti anni ormai,
e il sonno fatica ad arrivare. Aspetti che finisca la notte
e che il giorno sia ancora, come sempre. Come sempre.

UN VECCHIO SCRITTORE

Quella fu una giornata di gala davvero strana:
le donne ballavano e gli uomini le accompagnavano
con il sorriso in mezzo ai denti, e l’orchestra suonava
vecchi valzer e qualche nota di rock a stonare
– a mischiarsi con le risate di gola, di nervosismi
neurovegetativi. Tacchi alti per le dame e stivali
per tutti gli altri, anche per i nani e i giganti
decisi a scavare trincee fra le nuvolette azzurre
dei sigari cubani accesi, uguali a autodafé d’altri tempi.
Ad un certo punto tutto cessò e si fece il silenzio,
ordinato, apparecchiato sulle labbra di dio:
un vecchio corvo prese in bocca il microfono
e invitò tutti gl’invitati a prestargli ascolto.
Era brutto e vecchio, calvo, grossi baffi staliniani
e una dentiera bianca che parlava meglio di lui.
Si raschiò la gola, e quasi tirò le cuoia nell’atto
infame: “Siamo qui, per…” Nessuno sorrideva più.
Lo stettero ad ascoltare, l’applauso poi scrosciò,
e il vecchio scrittore, fingendo imbarazzo, per poco
non sputò la dentiera insieme alle cateratte
che gli lacrimavano dentro al bicchiere d’acqua tonica.
Un po’ di moccio gli s’appiccicò ai baffi ormai bianchi:
nessuno glielo fece notare quello sbaffo. All’uscita
tutti si misero le mani sulla chiappa destra là dove tenevano
nutriti portafogli; raccolsero fra le mani una copia almeno
del libro e pagarono il triplo del prezzo di copertina,
e le donne lasciarono sorrisi a trentadue denti per mancia,
stando bene attente a non perdere d’occhio i loro cavalieri.
Quando tutti se ne furono andati, il vecchio corvo era lì
a contare i danari raccolti; l’avvicinai per due domande,
ma quello era già al di là dei suoi pensieri. Si trascinò via
uguale a un vecchio buddha perverso, lasciandosi alle spalle
l’odore violento d’una bomba a gas troppo a lungo rattenuta
nell’intestino. Restai in piedi con il bloc-notes in mano
aperto su pagine bianche; me lo cacciai, dopo due minuti
di pensieri fra me e me, in una tasca della giacca, e feci
per squagliarmi anch’io. All’uscita c’era una copia abbandonata
del libro scritto dal vecchio scrittore: la presi in mano la copia,
lessi il titolo, “Lo sbaffo”. Lessi la prima pagina
con attenzione sufficiente a farmi sbadigliare;
quella copia la conoscevo, era da quarant’anni almeno
che circolava, sotto titoli diversi per ogni ristampa. Sorrisi.
Fuori nevicava. Arrivai fino a una cabina telefonica
e feci una chiamata. Dopo dieci minuti
una macchina mi raccolse: “Com’è stata la serata?”
La mia donna era annoiata ma non scontrosa.
Le risposi con piena sincerità: “Come avevo previsto.”
Lei allora mi baciò sulle labbra, felice: “Non sbagli un colpo.”
La tenni fra le mie labbra per un minuto almeno,
poi ci staccammo: “Dovresti imparare a guidare.”
Non era un rimprovero; le dissi di divertito
con un cenno della testa, e lei premette sull’acceleratore,
lasciando dietro di noi, sulla neve, larghi sbaffi di neve,
di fango, delle cicatrici praticamente.

BLUES SOTTO NATALE 

la mia ultima ragazza mi ha lasciato
è stata più veloce di me
è una storia triste proprio sotto natale
tutti saranno felici come una pasqua
tranne io, tranne io…
è un brutto affare sul serio questa volta
non tornerà da me, l’ha promesso a sé stessa
è una storia che non auguro a nessuno
a nessuno, credetemi

è davvero un brutto colpo esser lasciati su due piedi
quando la festa bussa a tutte le porte ma non alla tua
la neve viene giù sempre più bianca e fa mucchio sull’uscio
non ho un motivo per aprire quella maledetta porta
non ci sono risate che possano farmi felice
né quelle delle donne né quelle dei bari di professione
giù al bar l’avranno saputo tutti a quest’ora
è sicuro che ridono alle mie spalle fumando sigari puzzolenti
il fatto è che lei mi ha lasciato
ce l’avranno sulla bocca tutti che è stata lei a lasciarmi e non io
è per questo che bevo tutto quello che trovo
è per questo che bevo fino a morire
è una storia, una gran brutta storia questa
proprio sotto natale quando ogni vecchio cesso torna vergine
è una storia da non credere, ma credetemi
perché è successo proprio così, mi ha mollato su due piedi
e io non ho potuto fare niente per salvarmi il culo e la faccia

hai una soluzione per questo blues sotto natale?
un regalo che possa mettere a nudo anch’io?
hai un’idea buona un minimo che non debba scartare?
hai una cerotto medicato per questo blues sotto natale?

tutti saranno felici, tutti saranno felici come pistole
appena caricate, tutti faranno i salti mortali
tranne io, tranne io…
è un brutto affare sul serio questa volta

lei è stata più veloce, è stata più veloce di me
lei è stata molto più veloce e balorda di me
è per questo che butto giù tutto quello che trovo
è per questo che bevo, è per questo che mi voglio rovinare
è una storia, una gran brutta storia questa
proprio sotto natale quando ogni criminale torna vergine

hai una soluzione per questo blues sotto natale?
un regalo che possa mettere a nudo anch’io?

L’AMORE CHE CREDEVI PERSO

L’amore che credevi perso
Il dolore che sapevi andato
Il volto che hai amato
Il volto che hai assassinato
Tutto torna,
come una superstizione tutto torna

L’odio che credevi eliminato
Il volto di Dio che hai amato
e la sua mano
che sul più bello ti ha tradito
Tutto torna ma non torna mai,
quando la notte s’alza oltre le onde del mare
Tutto torna ma non torna mai,
quando la notte s’alza oltre le onde del mare

Formulano le Erinni una maledizione,
io solo uno scongiuro in un passo di danza
come un indiano, come un indiano

Diana ha amato un principe,
io una principessa,
collassando in solitudine
come una candela a spiare il vento

Il cappello se lo porta via il vento
La risposta la sa il vento
L’eco la sa il Genio di Zappa
Tutto torna, tutto torna
quando passi sotto i pioli d’una scala
Tutto torna, tutto torna
quando cade l’ultimo sogno
del Quinto Stato
Tutto torna, tutto torna
quando le Anime Morte bruciano
nelle lacrime di Tolstoj

Perché questa stupidità
di crederci immortali?
Perché Re Lucertola
gli occhi sgrana al suo spettro?

E’ solo che troppo hai amato
e proprio non ti è riuscito
di dire “Basta!” al momento giusto
Così, ora siamo qui
a tendere la mano
in cerca d’un’altra Zingara
Così, ora siamo qui
a piangere un’elemosina
che sia finalmente per noi

Tutto torna e non torna mai
Ma è ancora l’amore che credevi perso
E’ ancora il dolore che sapevi andato

E il volto di Dio non smette mai
d’assistere all’umana disgrazia

NO CRISTI ZEN

Non seguendo le mode,
con il sacco in spalla
in giro per il mondo,
lontano da croci e cristi,
prodigo di sorrisi
per un frivolo piacere
che tu, chino
sul tramonto dell’Occidente,
non puoi concepire,
solletico la panza in divenire

UNA FAVOLA DA BAMBINI

Addossato a una pila di libri traballanti,
leggeva un nano una favola da bambini,
leggeva senza pace e con sguardo fisso;
lo si sarebbe detto partorito dalle pagine
d’una storia di coltelli, nebbia e sabbia

D’un tratto però rumore sordo lo rapì,
così che il capo chino fu costretto a tirar su
subito raccogliendo in core gran spavento,
incontrando proiettata l’ombra sua gigante
addosso a persone e cose d’attorno



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