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Quanti lutti, Maria Maddalena!

Quanti lutti, Maria Maddalena!

ANTOLOGIA VOL. 94

Iannozzi Giuseppe

CICISBEO INNAMORATO

Tutti l’abbiamo abbandonata
Tale e quale era a una campana stonata
a sé stessa arresa
Tutte le donne che ho amato
mi hanno dato via
per un amore nuovo – celestiale!
Così ora credo di non esser nel torto
se dico che il bianco, che va in sposa,
nel letto prende sicura dose di stupore
Così ora credo di non essere il peggiore
se dico che l’azzurro che al cielo punta,
fra le nuvole,
apparecchia ombre di tempesta

Tutti noi l’abbiamo suonata
Era la nostra sorellina, per un niente felice
Amava inciampare nella terrena passione
Tutte le donne che di lacrime ho bagnato,
prima o poi, mi hanno deriso
per un vecchio cuore di denaro e di fama pieno

Tutti noi l’abbiamo abbandonata
E tutti, allo stesso modo, l’abbiamo suonata
quando le notti in solitudine
ci davano per spacciati
Tutti noi fra le nuvole abbiamo perso la testa,
mettendo radici in una nuda promessa
che sapevamo mai sarebbe arrivata

Tutti – ma proprio tutti –
alla nostra tromba abbiamo dato fiato,
leggendo l’epitaffio inciso sulla nuda pietra,
nuda e fredda come le nostre mani
a raccogliere vento e morte foglie

Come allora squilla il telefono
E non hanno smesso le campane
di suonare a festa, o a morto,
ma sempre arrese al suono loro
perché, davvero, nessuno di noi
l’ha mai dimenticata
Perché nessuno di noi
ha dimenticato il biancore suo nudo
e i profondi suoi occhi,
tutta la bellezza dell’Infinito

LOLITA

Non mi hai ancor tu detta la verità
In sogno lo sguardo tuo lo dipingo,
nella curva del tuo petto l’affondo

Mi assicuri che sei tenera,
che ancor sei lolita,
che non ti posso sfiorare
con un dito o un bacio
E la colpa è tua,
non mi hai detto l’età

Non sai tu quanti giorni
a pesarmi fra le mani la testa
Non sai tu quante notti
a sognar di te
per un affondo infinito
Di colori ti vesti,
in un’impossibile malinconia
d’amori sognati ti svesti
Mi lasci poi da solo
coi pensieri miei
E non so davvero che fare io
ché, dentro di me, comincio
a capir che troppo tenera sei,
che ancor inviolata lolita sei
Fuggo così io via
fra cieli al tramonto,
fra sogni che piovono
Fra papaveri in fiore fuggo io
per subito imitare
di Van Gogh la follia

Non mi hai ancor tu detto
quanto mi ami
e quanto detesti l’argento
che le tempie mi avvolge
Non mi hai tu detto se vero è
che di rosso si tinge l’alba
quando gli occhi tuoi
nella sua nascita affondano

Resto così io ad aspettare,
carezzando piumaggi di pazzia
Fuggo così io via
fra cieli al tramonto,
fra sogni che piovono
Fra papaveri in fiore
fuggo lo sguardo tuo,
ma sempre lo dipingo
e nella curva del tuo petto
l’affondo
Quello che è il tuo dispetto,
lo sogno o no?

TRA L’ARNO E IL PO

Ricordo ogni giorno
anche se son stati due soltanto,
uguali a gabbiani prigionieri
dei riflessi su l’Arno

Di sassi le tasche piene
Difficile il cammino
e ogni giorno un’accusa
o solo una scusa
col sole in faccia
e l’angoscia a spremer la faccia
d’angoscia e altre sciocchezze
simili, quasi uguali a carezze
che nessuno vorrebbe su sé

Ricordo ogni giorno
E sì, oggi comprendo
che sbagliavo:
Florence, un giglio
e una strada strappata,
di ciottoli fra le mani
come grani d’un rosario
sparsi
– fastidiosi

Ricordo sì, ogni giorno
e un dormire di poche ore
su una branda vicino all’abbaino,
il tetto spiovente e la luna puttana
a contarmi le età sulla faccia
di salse lacrime piovute
per chissà quale futile distrazione

Ricordo un giorno
a camminare sotto il primo crepuscolo
con gli occhi di cispe e la bocca di nicotina
Muti i pochi volti mi passavano accanto
mentre allungavo il passo e accorciavo
tiro dopo tiro la cicca fra le labbra

Troppi grilli in testa;
e però quando ce li hai dentro
a cantarti amore, non lo capisci
che stai perdendo la bussola
oltre alla dignità d’esser uomo,
o solo un più comune stronzo

Perché tutti, prima
o poi, sogniamo quel che sogniamo:
una disperazione
e una fine con occhi acerbi
– crudeli, uguali a noi pensati
innamorati
Tutti pensiamo
a quella morte che si dice
avrà occhi ciechi tra le pagine di Leucò

Poi ti svegli una mattina
scoprendo che l’urlo non c’è,
che finito è il tormento
così com’era iniziato
quasi per amore, quasi per scherzo
E scopri d’aver un sogghigno cinico
che ti rende attraente
a quel mondo sì tanto insofferente

Ti dici che è stato un tempo sì,
ma giusto appunto un frammento
E poi nulla più

E prendi una nuova strada
– che conosci da sempre –
con l’occhio buttato
su i riflessi che sul Po
sconfinano…
col fiato buono
lasciandoti indietro
sassi cenere e macerie,
cicche: le apparenze d’una gioia
che fu di due giorni appena

KING LEAR

I sudditi miei – ah, me tapino! -,
li dovrei tutti fustigare,
e metter poi a pane e acqua
così che possano sentire
pure loro il morso feroce
che m’è dentro allo stomaco
Un morso sì forte
che non lo si può domare
con carezze o preghiere,
con magie di streghe e diavoli
Ché un Re, come me Pazzo,
soltanto ha sudditi che mettono
avanti a sé l’inchino
e in bocca il ghigno più feroce,
illudendosi di nasconderlo
al vuoto mio sguardo
Come se fossi da sempre orbo,
i miei sudditi così illusi sono!

Se sol sapessero
tutto quello che io ho visto,
al mio cospetto allora tremerebbero
e non oserebbero mostrar i denti
col favore delle ombre e dei ventagli
Se solo sapessero, i miei sudditi!
Se solo… Ma niente sanno
Solo da vicino conoscono
la solita oppiacea nebbia
che li porta di campo in campo
a inseguirsi senza mai toccare
alcunché

Se solo… allora sì che la fronte
gli cadrebbe a toccar il freddo
pavimento di pietra millenaria
E come me tacerebbero
E come me il morso allo stomaco
lo morderebbero cogli occhi loro

SULL’ACQUA

Sull’acqua
suona il mio nome
perché si diffonda
per un momento
in cerchi evanescenti
simili a punture di pioggia
sulla pacifica superficie

Suona il nero e il nero
e il bianco e il bianco
Suona sempre,
se vuoi che un nome
io, imperfetto, abbia
a ripetersi sull’acqua

TU ERI

Eri tu
che compravi le mie notti
Eri tu
che vendevi i miei sogni
E ora
che la polvere copre
lenzuola e fantasmi,
mi rimane il tempo
di guardarmi intorno
Mi rimane ancora
da capire l’errore
che ci ha fatto allontanare
schiacciati
dal nostro stesso fiato

Eri tu
che gridavi
non è finita
finché non finisce

Eri tu
che ti tagliavi
le vene nel silenzio gocciolante
d’una vasca di sangue
respirando lentamente
il ritmo d’un rubinetto
spanato

Eri tu
Eri soltanto tu
a respirare la vita mia
per buttarla via
in mezzo alla polvere
dei ricordi

Tu eri, tu eri
Ma mi rimane il tempo
di guardarmi intorno
per finirmi per sempre
in altro uguale inganno

FIABA DI LAGUNA

Zingarella sei, certo che sì
Scappi adesso in Laguna,
e da solo mi lasci
a sognare fredde lucertole sotto i sassi
Mi lasci con i miei soli passi accanto,
e le calze di seta sul letto disfatto

Non mi dà la sveglia il caffè:
c’è ancora il tuo amore
a profumare la casa,
c’è il tuo sapore su ogni dettaglio
fra la mezzanotte e il mezzogiorno

Non sono servite le carezze
né i baci miei più teneri a tenerti
Sei scappata un’altra volta
per star dietro al tuo dovere,
a quella smania che ti consuma
là dove trema e freme Fiaba di Laguna

Ma ti amo così, per come sei

DESIO DI ROSA

Vorrei esser
della Rosa
un piccolo petalo,
sul tuo seno
dolcemente scivolare
senza che possa tu
accorgertene

Vorrei esser
tenero brandello
d’un sogno,
d’un segreto
che a nessuno
hai rivelato mai,
e dentro te restare
per raccontarti
storie di aurore,
di arcobaleni
che s’incontrano
nel Regno
dell’Impossibile

Vorrei esser vivo
per darti vita
da condividere
oltre il gelo
che la notte porta

Vorrei in te essere
E nessun altro desio

LA MIA VITA È SABBIA

Le mie ore sono briciole, davvero,
davvero le sparpaglio nel pagliaio
e poi le cerco come aghi, ferendomi
le dita pure.

La vita mia è sabbia… è un altro Egitto,
un Cammello in miniatura
nascosto in un Presepe di avelli e croci.

Il nostro amore è così, imprevisto:
un rumore assordante e un silenzio
uguale.

Il nostro vivere è così, scritto:
è quello dei Dieci Comandamenti
infranti.

VINCENT

Girasoli al sole giallo
e la notte nell’anima
costretta;
un taglio e via
via l’orecchio
per non sentire
più le grida di dentro
e quelle tra i campi
E tutti i colori
e tutte le pianure
dove cresceva il verde
per far posto
a nuova stagione
di soli di cieli stellati
Ma spengeva la mente
un affanno troppo greve
perché non mi fosse
tanto grave la morte
in bella pazzia
senza dalla vita
aver avuto mai
un soldo di gioia
Così al sole
come teso girasole
dal vento commosso
rimango,
giusto una pennellata
di giallo in un posto
sbagliato

NOTTE STELLATA

Muto m’accompagnavo a una marchetta
per un po’ di vita e una barchetta di carta:
a me accanto stava la novella mia sposa
Avevo in corpo la forza di mille neri caffè
e nel cuore la notte stellata di Van Gogh

Lei mi sorrideva strano
e si reggeva a me stretta stretta
Io non avevo quasi coraggio
di baciarle le vuote orbite
La gente ci scivolava accanto
come se non esistessimo
Il boulevard era tutto un inferno
di scassate botteghe, e la Luna
spandeva su di noi pallido lucore
d’amore, di dolore

“Allora è vero che mi ami!
Allora è così il tuo amore…?”
Io solo continuai a tirare diritto,
lasciando
che il suo abbraccio fosse il mio

Avevo in corpo la forza di mille neri caffè,
la notte stellata di Van Gogh nel cuore
e la compagnia di anni e anni tutti uguali

Alla fine,
con fredda distratta mano,
appuntai il fiore,
che lei m’aveva regalato
davanti all’altare,
sul nero del vestito migliore,
e finalmente la baciai sugli occhi
E mi spensi insieme a lei,
insieme a lei

NESSUNA PAURA

Nessuna paura mai
per la nera morte
Sogni, sogni soltanto
dall’alba e dal tramonto
accarezzati:
questo siamo,
con una data di scadenza

TI PENSO CATTIVA

Ti penso cattiva
perché gli uomini
– che analfabeti sono –
lettere d’amore
ne scrivono tante assai
Poi le donne
le ritagliano,
ne fanno coriandoli
per carnevale,
per un capriccio di vento
E però, più spesso,
accade che le parole
diventino epitaffio
– una caduta da cavallo
che proprio non si pensava
Ma il collo torto e ritorto
– senza vita – lascia il capo
perché cada sul petto finalmente
– quasi una lacrima
che ha già preso sembianze
d’inumano teschio

IL NOME DEI MORTI

Dimentichiamo, dimentichiamo
tutto questo, siamo già al giorno
senza ieri
e tu ti chiedi
se le mani nude,
se i guanti o gli schiaffi
La farina, la spiga, la polisemia
Il cammello non passa ancora
per la cruna dell’ago;
e ancora la luna forgia l’argento

E ancora si tinge di te
questa notte che i morti
chiama per nome

ROGO DI IDEE

Caldo, dannato caldo
Carbonio e idrogeno,
perenne rogo
che sfida degli Dèi la sfida
Caldo, fuoco fuochino
E poi sempre è
un buco nell’acqua
Ma le strade di Roma
tutte portano altrove
E semafori gialli rossi verdi
Chi ci capisce
ci capisce più niente

Le pinze per l’esse blesa
e chiodi per meglio fissare
in testa puntini e puntini
di sospensione

Ti chiedi ancora
a che ora è la fine del mondo;
i bambini fanno il girotondo,
le streghe giocano invece coi desideri
per dolcetti e scherzetti
E giù in fondo alla strada
parenti serpenti piangono
il morto ancor caldo nella bara
sudando sette camicie
e invocando Gesù Cristo,
in bocche sdrucite masticando
le Sette piaghe d’Egitto

Ma considera Ade,
la fotografia sgranata
delle anime dannate
Considera la tromba delle scale,
la caduta, il collo rotto
e l’immaginazione delle portinaie,
la psoriasi che non passa
sotto le ascelle e più giù ancora

Considera il caldo che fa male,
quel delitto irrisolto di Simenon
E bicchierini di limoncello
per annebbiare meglio il cervello
E le calze a rete sempre su,
le gambe mai spogliate;
e allora di nascosto spiare
da sotto la cattedra la soluzione
nei puntini di sospensione
ben nascosta

IL GOBBO FAVOLOSO

Come vampiri sul limite resistiamo
Si sciolgono i ghiacciai, i nevai, i viavai
Rimane quel che rimane,
e non lo sappiamo mai bene cosa
Ma questa cosa, questa cosa
tu non la chiamare primavera, radice, face
I granchi camminano all’indietro
Dovremmo farlo anche noi
invece di cercar fortuna in un ferro di cavallo,
di battere il ferro, di far d’Efesto il mestiere

Come vampiri sul limite ci affacciamo
per un momento soltanto;
e ciao ciao al gioco, testa o croce,
addio alla tradizione, alla ginestra

Come vampiri lasciamo la bellezza
Come l’inganno che in fronte ci baciò
lasciamo il suicida libero di volar via
La bruttezza al gobbo Leopardi, perché no!
Favoloso e di più, con o senza di noi
si sciolgono i ghiacciai, i nevai, i giammai

SUI RAMI DELLA VITA

Dai rami ghiacciati della vita
attendo che primavera torni
a portare il suo amore su me
Da questi rami sotto il peso
della neve, resto in bilico
per te, pigolando tenere poesie
come molliche di nutrimento
dalla bocca mia alla tua
Perché sì, sei tu la più bella
utopia che nel fragile petto
incessantemente mi presta vita

IN UNA POESIA DI MAJAKOVSKIJ
(seconda versione)

Nessuna attitudine,
nemmeno quella di celare
nella fondina della pistola
un profilattico d’avanzo,
come una pallottola spuntata
sulla poesia di Majakovskij

Punti dritto al cuore
affinché non abbia io più voce
ma solo un filo di rabbia,
inespressa e fumante

CROCIFISSIONE

Le tue
sì tanto crude parole
mi strappano
dal petto il cuore
In ginocchio
mi buttano
Mi tramortiscono,
mi fanno cristo
con croce
sulle spalle legata

Chiodi son le parole
che dalla tua bocca
sulla mia per cucirla
– per trafiggerla in inferno
che non merito

Sì grave il dolore
che provochi

E già i miei occhi
piangono in silenzio
la perdita non della vita
ma di Te, mio Amore

Quando sarò morto
più non udrai di me
né il balsamo né il rantolo,
ma solo la vuota eco
del silenzio

per rammentarti
che un tempo ero vivo
e la vita mia in Te sola
tutta l’avevo rimessa

BELLISSIMI PERDENTI

Guarda! Ho preso un bicchiere di cristallo. E una coppa di legno. Ho bevuto il sangue di Cristo. Per essere immortale. E quello di Lucifero. Per essere accanto a Te. Guarda, guarda l’Amore. E’ Fragile. Un bere fino in fondo l’ultima goccia. Di Sangue. Di Malattia. Un danzare a piedi nudi per sussurrarti all’orecchio “le bugie hanno le gambe corte!”, ma spogliandoci sempre in un Tango quando gli occhi dentro agli occhi. C’è verità nello Sguardo. Non si frena il disco. La clessidra e Suzanne – bellissimi perdenti -, una musica così triste, così bella. E noi zingari in un altro Tango scivoliamo.

Siempre te recordaré, mi Carmencita.

TUMORE

“Che cos’è l’amore?”, urlò il vento con somma freddezza.
“Un vuoto da riempire”, disse uno.
“Una fossa troppo piena”, disse il secondo.
Il terzo crollò il capo, e più volte sputò catarro in terra e no, e se ne andò poi via, lasciando filosofo e prete a lucidare un tumorale suo sputo non per caso caduto sulla pesante negra bara.



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