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FAVOLE SU FAVOLE. Indicazioni per vivere felici e contenti

FAVOLE SU FAVOLE

Indicazioni per vivere felici e contenti

Iannozzi Giuseppe

VIOLA LA PASTORELLA E IL RE DEGLI ORSI

Là dove scorrono fiumi di latte e miele, dove c’è sempre il sole vive una bimba piccina. Vive in una casetta né piccola né grande, circondata da un mare di erba e di piante sempreverdi. Nella Sua casetta c’è tutto l’indispensabile, un letto soffice, una cucina con il tavolo in legno, una camera piena di giochi e di sogni disegnati sulle pareti, e c’è pure un pozzo d’acqua limpida e fresca.
Viola, così si chiama la bimba che fa la pastorella. Ogni mattina, di buon’ora si alza dal lettino e dopo aver fatto colazione con un bel bicchiere di latte, accompagnata dal suo amico a quattro zampe Halcol, porta le pecorelle e le caprette a pascolare. Passa il mattino a badare al gregge, che in verità non le dà mai troppo da fare: le pecorelle sono soffici e dolci come nuvole, le caprette di tanto in tanto si prodigano in qualche dispetto, ma basta l’abbaiare chiassoso del piccolo Halcol perché tornino calme.

Viola, che tra gli abitanti dei Monti di Panna è anche conosciuta con il nomignolo di Pastorella scalza, ha dunque molto tempo da dedicare ai suoi sogni e al sole. Si allunga sull’erba folta e col visetto rivolto al cielo rimane per delle ore a immaginare i disegni che le nuvole ordiscono.
Nelle ore serotine la piccola Viola prende un po’ di tempo per sé, in ginocchio di fronte a un robusto crocifisso di legno finemente lavorato rivolge le sue preghiere al Signore. Non chiede mai niente per sé e mai qualche cosa di sconveniente, solo prega perché gli affetti cui tiene con tutto il cuore le rimangano accanto fedeli. Dettate le preghiere serali, Viola prepara il desco, ma prima riempie la ciotola di Halcol che è ghiottissimo di pescetti. La pastorella li pesca nel pomeriggio al fiume. E mentre li pesca qualcuno finisce direttamente nella sua boccuccia; è difatti impossibile resistere ai pescetti che nuotano in copiose quantità nel Fiume di Latte, anche se a dire il vero non sono proprio dei pesci, assomigliano molto molto di più a dei biscotti.

La vita di Viola la pastorella scorre felice senza intoppo alcuno. Quando la Luna si piazza in cielo con il suo volto pallido, la bimba le oppone il suo faccino rubizzo. Ben presto fate e spiritelli le si fanno d’attorno, e lei prende a raccontar loro favole, il più delle volte inventate lì sul momento: la fantasia non le manca e di buon cuore abbonda. Ogni creatura del Bosco Fatato le è amica e anche i troll, che per loro natura son disposti a fare sgambetti, al cospetto della bimba si fanno placidi e per quanto non proprio belli i loro faccioni si colorano d’un’insperata bontà.
Per Viola si può dire che son rose e fiori ogni giorno, non fosse che…
Be’, forse è il caso di spiegare la cosa dall’inizio.
Un giorno la bella pastorella si spinge insieme al suo gregge di bianche pecorelle su un bel prato ricco e verde. Halcol le trotta al fianco e di tanto in tanto, più che altro per darsi un tono, abbaia, allora Viola lo prende per un momento in braccio, gli distribuisce carezze sul capo e poi lo rimette sul prato felice e scodinzolante.
Quando la cosa ha inizio è un giorno come tanti altri, il sole caldo al punto giusto, i Monti di Panna bianchi e illuminati sullo sfondo, la terra tiepida e morbida. Viola saltella felice tra le pecorelle e a tutte cerca di donare un abbraccio. Le caprette fanno a gara per portarla a dorso e la piccola pastorella, per farle contente tutte, resta un po’ in groppa a ognuna di loro. Ad un certo punto però, fra lazzi risate e scherzi, un’ombra si para davanti al gregge, che subito s’arresta. Un pastore con una gran barbaccia nera, grosso quanto un toro e non meno brutto, inzaccherato di fango e di chissà cos’altro, vestito come uno zampognaro, ferma il gregge di Viola. Gli è bastato mostrarsi alle pecorelle perché quelle si ritraessero spaventate. Halcol, dal canto suo, s’è lasciato andare, cioè se l’è fatta sotto, sull’erba e subito è andato a nascondersi dietro la sua padroncina.
Puntando i suoi occhi neri sulla piccola Viola, il pastore intima l’ALT e scuote il gran testone sbuffando come certi treni a carbone.
Viola s’imbroncia, un pochettino soltanto e con un filo di voce chiede di poter passare.
“Perché mai?”
“Per le mie pecorelle e per me anche, sul prato verde io guardo il cielo e sogno di galleggiare insieme alle nuvolette.”
La risposta fa sorridere il pastore.
La giovane non sa come interpretare quel sorriso: dentro di sé pensa che il pastore ha un sorriso bastardissimo. Gli sarebbe persino simpatico non fosse per il fatto che non vuole lasciarla passare.
“Di qui non si passa”, borbotta il pastore barbuto.
“Perché?”, vuol sapere la pastorella con voce che è un pigolio: “Ti ho forse fatto del male o pensi che te ne possa fare?”
Il pastore si sfila il berretto di lana che gli copre la testa e con una mano comincia a grattarsela. E’ in evidente stato d’imbarazzo, non sa che rispondere. Lui sa soltanto che dove ci sta lui non deve starci nessun altro.
Alla fine le risponde che è per via d’una questione politica che lei non può passare.
“E che cos’è la politica?”, vuole allora sapere Viola che la politica non sa davvero che cosa sia.
Il pastore comincia a sudar freddo. Grosse gocciole di sudore cominciano a scivolargli sulla fronte, che definire spaziosa sarebbe un complimento. Sbuffando e scaccolandosi cerca una risposta: “E’ l’arte di governare una città.”
Viola rimane sovrappensiero un paio di secondi e ribatte: “Siamo punto e daccapo. Non lo so mica che significa governare! Perché non parli in maniera più semplice così che tutti ti possano comprendere?”
Il pastore arrossisce, forse più imbarazzato che arrabbiato. La testa pelata gli si fa rossa al pari d’un pomodoro e balbettando spiega che governare è come reggere il timone d’una barca affinché questa solchi le onde e non affondi nelle acque altrimenti pericolose ed infide.
Sentita la spiegazione, la bimba rimane un po’ sulle sue. Lei è sempre andata sul fiume con la sua barchetta e basta. Non ha idea di cosa sia il timone, però arguisce che dev’essere uno strumento un po’ bizzarro.
“Io sul fiume vado con la mia barchetta e lascio che le onde mi guidino e non mi è mai capitato niente. Non ho mai avuto quel coso che tu chiami timone, e come puoi ben vedere sono qui. Il buon Gesù non permetterebbe mai che mi capitasse qualche cosa di brutto…”, spiega la pastorella al pastore testone. “Secondo me tu non vuoi che io e le mie pecorelle passiamo di qui, ecco tutto.”
A questo punto il pastore avanza d’un passo con aria minacciosa. Ma prima che abbia tempo di farsi dappresso alla piccola Viola, si trova suo malgrado faccia a faccia con la Stregaccia che, come suggerisce il nome, è una strega in tutto e per tutto. A differenza di tutte le altre streghe però non è cattiva, è soltanto brutta di natura. La Stregaccia punta il suo dito ossuto e unghiuto sul pastore, che non può fare a meno d’arretrare inciampando nei suoi propri passi e finendo così seduto per terra.
“Che vorresti fare a questa bimba piccina, brutto Re degli Orsi?”, sbraita la Stregaccia. “Non ti osare nemmeno pensarlo…”
Invano il Re degli Orsi – si chiama difatti così il pastore barbuto – tenta di difendersi: “Io non volevo farle nulla di male.”
“Ed allora perché l’hai fermata? A me non la dai a bere.”
“Le ho solo spiegato che di qui non si può passare.”
“Questa landa non è tua”.
“Ma il Creatore mi ha assegnato questo fazzoletto di terra e questa parte nella storia ed io devo obbedire. E’ la politica.”
“Se non la pianti di dire castronerie, ti spacco la testa col bastone.” E così dicendo la Stregaccia tira fuori da sotto il caffettano nero un grosso nodoso bastone di frassino.
La Stregaccia e il Re degli Orsi si fronteggiano. A Viola lo spettacolo di due adulti grandi e grossi che sputano paroloni non interessa affatto, così, senza colpo ferire, se li lascia alle spalle convinta che i due in un modo o nell’altro risolveranno le loro divergenze. Non teme che i due si possano far del male, non sul serio comunque: Gesù non lo permetterebbe mai e poi mai.

Il Re dei Orsi, dopo l’incontro con la bimba e la Stregaccia, rimane un po’ così, sulle sue. In poche parole si fa scorbutico, più del normale. Si lambicca il testone intorno al significato di politica e governo, ma senza mai venirne a capo. Quando gli sembra d’aver trovato la soluzione, in un baleno o quasi, capisce che si tratta soltanto d’un serpente che si morde la coda.
La piccola Viola dal canto suo non si dà pena, politica e governo non sono cose che la turbano, mentre il Re degli Orsi un po’ la interessa. Nei giorni successivi all’incontro pensa che il pastore barbuto è proprio scorbutico e che però potrebbe essere simpatico se solo si rilassasse un po’.
La Stregaccia invece imperversa per valli e per monti gridando che avrà la pellaccia dell’Orso. Viola non si preoccupa delle minacce della strega e pure il Re degli Orsi se ne infischia, entrambi sanno che la Stregaccia ama urlare e che del male a qualcuno non l’ha mai fatto, non sul serio in ogni caso.

I giorni trascorrono senza particolari motivi di preoccupazione. Solo la Stregaccia fa inalberare gli abitanti dei dintorni, le sue urla difatti si sentono fino al Settimo Cielo e non fosse che Dio è molto ma molto paziente…
Si diceva dunque che il calendario lascia cadere i giorni, quand’ecco che Viola si trova a dover fronteggiare per l’ennesima volta il Re degli Orsi. Il pastore gli si presenta davanti mentre sta tornando a casetta sua dopo aver lasciato libere pecorelle e caprette di brucare l’erbetta fresca nei prati.
Il Re degli Orsi, come la prima volta, intima l’ALT. Viola questa volta però non è troppo ben disposta a fare domande, ha infatti capito che il pastore è un testone e che solo le vuole fare dispetto.
“Lasciami passare, bruttone!”, pigola la bella pastorella. “Non hai diritto di chiudermi la strada”.
“E’ una questione di politica”, ribatte il Re placido.
Le gote della Pastorella scalza s’imporporano d’una leggera rabbia: “Ma quale politica e politica! A te ti va solo di pestarmi i piedi, diciamo le cose come stanno.”
“Anche se fosse, il fatto è che sempre di politica si tratta.”
“Più che un testone sei un buffone, altro che Re!”
Il pastore non se la prende, dà invece in una cavernosa risata che riecheggia per monti e per valli e che arriva fino all’orecchio della Stregaccia, che stava dormendo nella sua grotta con la testa poggiata su una bella pietra dura, vecchia di migliaia di anni. Si sveglia e in un momento è pronta a strepitare e a minacciare malie, quando s’accorge che la risata che le trafora i timpani ha qualcosa di strano. Non è del Re, cioè non è soltanto sua. La strega strabuzza gli occhi cisposi. Non capisce. Esce dunque dalla sua grotta e segue l’eco della risata.
Quando la Stregaccia arriva sul posto lo spettacolo che le si para davanti agli occhi, poco ci manca, che le provochi un coccolone. Quello scorbutico del Re se la ride della grossa seduto a gambe incrociate sull’erba tenendo in braccio Viola, che si diverte a tirargli la barba e a ridere. La risata cristallina della bimba piccina si mischia a quella più gutturale del pastore barbuto. Viola gli racconta chissà quali favole, con tutta probabilità quelle favole che per tanti giorni ha immaginato puntando gli occhietti voraci al cielo. Pecorelle e caprette, oramai non più timorose, brucano in santa pace intorno ai due personaggi, mentre Halcol non disdegna di fingersi offeso scuotendo ora la testolina ora il sederino pizzuto. Seppur a malincuore la Stregaccia depone le armi, cioè il bastone nodoso di frassino che intendeva rompere sulla testaccia del Re. Poi anche lei si unisce al coro delle risa con la sua vocetta stridula.

Chi oggi va a trovare la Pastorella scalza, prima incontrerà nel suo giardino un tipo alquanto strano che armato di falcetti e forcone cura le piante al pari d’un perfetto giardiniere. Un tempo era conosciuto per essere il Re degli Orsi, e ancor oggi è un Re però estraneo alla politica, con la testa spesso persa fra le nuvole. Viola si diverte insieme al Re a inventare storie e filastrocche, che in un secondo momento mettono per iscritto sul loro diario, il Grande Libro Mastro. Qualche volta la Stregaccia viene invitata a cenare insieme a loro e tutti insieme ridono e brindano alla vita non senza aver prima pregato e ringraziato come si conviene il Signore Iddio.

VANESSA E L’ORSO

Vanessa, una ragazzina che viveva di sogni colorati, di piccole certezze, di carezze, di albe e di tramonti infiammati di romanticismo, non pensava mai che il mondo d’attorno potesse accogliere il Male. Era felice. Non chiedeva poi molto alla vita, solo un principe azzurro che la rapisse per portarla in un paese di girasoli e papaveri, ma non troppo lontano da mamma e papà. Desiderava una casetta di mattoni rossi, come quelle che, non di rado, si vedono raffigurate sulle scatole delle costruzioni Lego: quei mattoncini tutti colorati e diversi l’uno dall’altro le portavano tanta lietezza nell’anima, e vedere il fratellino giocare felice con il Lego per costruire creature e dimore impossibili le affogava il cuore in un bagno di serenità. Si può dire che la vita di Vanessa fosse delle più semplici, il suo animo infatti non desiderava la grandezza dei potenti tutti chiacchiere e niente arrosto, né sentiva il bisogno d’avere di più di quello che già aveva: solo le sarebbe piaciuto vivere, per una volta, una favola d’amore. Una favola che fosse per sempre, perché era sua convinzione che d’amore ce n’è uno solo e basta; guardava con diffidenza a quelle donnine troppo allegre che cambiano uomo anno dopo anno per arrivare presto alla vecchiaia tutte grinzose e costrette a pagare un gigolò per una notte di sofisticate grida, di finto appagamento.

In famiglia tutto andava per il meglio: nella sua cameretta di arcobaleni alle pareti e di aurore disegnate sulle lenzuola di fresco cotone, Vanessa conduceva una vita tranquilla, sempre col sorriso sulle labbra. L’innocenza non l’aveva abbandonata con la maggiore età e questo era il tratto più caratteristico e bello della giovane. Poco più che ventenne, le gote fiammeggianti di virgineo pudore, gli occhi neri incontestabile specchio d’innocenza, la boccuccia come bocciolo di rosa bagnata dalla guazza, Vanessa era proprio una piccola donna, una bomboniera cui mai le si sarebbe voluto far del male foss’anche solo per scherzo del destino; e così nessuno osava toccarla nel timore di sciuparne l’ingenuità bambina e di portarla, così, di peso nella triste realtà degli adulti. In paese tutti le volevano un bene da morire: i nonni si scappellavano al suo passaggio, i giovani segaioli abbassavano lo sguardo vergognosi di sé stessi, e il parroco la benediceva, e a messa ogni domenica Vanessa era seduta in prima fila, speranzosa come una madonnina. Vanessa viveva dunque la sua vita senza troppi scossoni, ma non per questo ignorava che non tutti al mondo erano allegri felici e sfamati. In fondo al cuore sapeva che lei era stata fortunata, mentre molti altri no. Non ci pensava, o meglio sapeva che lei, in ogni caso, non avrebbe potuto ordinare alle genti della Terra di non fare più le guerre e di mettere i fiori nei cannoni. Tutto quello che poteva fare contro le ingiustizie era di recitare una preghiera ogni sera, riconoscente al Signore per aver accordato alla sua esistenza una certa sobrietà di mezzi materiali per far fronte alle necessità di tutti i giorni. La giovane era un animo semplice, non sentiva affatto la necessità d’ottenere il soverchio: le bastava fare un po’ di shopping con le amiche ma senza esagerare, tanto più che vestiva con sobrietà badando poco o nulla alle mode estemporanee.

I giorni trascorrevano immersi nella luce e nei colori: Vanessa non si sentiva minacciata, aveva i suoi sogni, di tanto in tanto si perdeva fra le nuvole e incontrava cherubini unicorni e santini, e folletti anche, perché se c’era una cosa di cui proprio soverchiava nella sua bella testolina bruna era la fantasia. Un giorno si svegliò madida di sudore: aveva avuto un incubo, però al risveglio non lo ricordava. In petto il cuore le batteva forte forte, anche se non avrebbe saputo spiegarne la ragione. Quel giorno tenne su un faccino leggermente cupo, destando la preoccupazione di tutti coloro che le stavano accanto. L’incubo non si ripropose e la vita felice della giovane tornò presto a essere quella di sempre. Poi un giorno, all’improvviso, ecco che in paese tutti a gridare di terrore: un orso, un orso grande e grosso, bruno e piuttosto brutto, era stato avvistato nei boschi. Un manipolo di valorosi si era preoccupato di dargli la caccia, ma senza risultato. Gli uomini erano tornati impauriti e costernati dal Sindaco riferendo che l’orso non poteva essere abbattuto, che le pallottole gli facevano il solletico, che sicuramente si trattava d’una creatura diabolica perché gli occhi gli erano rossi come braci e la bocca era così tanto grande… Insomma si è capito che questo orso era proprio una gran brutto diavolaccio da pelare, non c’è bisogno d’aggiungere altri particolari circa la sua bruttezza e cattiveria. Gli uomini, con l’affanno e con  colpi di tosse, riferirono anche che l’orso aveva chiesto una giovane vergine. Sentendo questa richiesta il Sindaco sbiancò, perché non è che le vergini crescano sugli alberi e nemmeno i verginelli! Si raschiò la gola, balbettò qualche parola incomprensibile, poi scoppiò in un pianto senza ritegno alcuno, proprio come un vitello col gancio già pronto sotto al collo. Pianse davanti a tutti e a lungo, poi a un tratto gli s’illuminò il volto e gridò: “Vanessa!”
Lo stesso manipolo di uomini che era stato indarno sulle orme dell’orso, questa volta andò a bussare a casa della giovane. Gli uomini bussarono forte forte, gli fu aperto, e senza aspettare d’esser invitati a entrare, eccoli con la preda fra le mani. La giovane imbavagliata per bene, ancora vestita del solo pigiamino rosa, se la portarono subito via in spalla, manco fosse un sacco postale, tra gli strepiti dei genitori che impotenti gridavano che gli si dessero spiegazioni. Vedendo che nessuno dava loro una risposta, i due poveretti presero a strapparsi i capelli e a lanciare certe urla che avrebbero spaccato i timpani pure al Padreterno. Il papà di Vanessa si gettò a capofitto sugli uomini che volevano portargli via la figlia: gli scivolò fra le gambe e uno gli riuscì d’afferrarlo per le caviglie. Il poveruomo stava per essere colpito dal tacco degli scarponi di uno di quei rapitori di ragazzine, quando si sentì forte l’alt! del Primo Cittadino. Più che mai concitato, il Sindaco spiegò alla famiglia in lacrime che l’orso che minacciava il paese aveva preteso una giovane vergine. Sotto il peso della parola vergine, del suo significato, tutti ammutolirono, e Vanessa arrossì come un peperoncino. I genitori rimasero basiti e mentre guardavano la figlia che se ne andava via, rossa e imbavagliata come mai l’avevano vista, scombussolati, increduli, non sapevano se rallegrarsi per la notizia che la loro figliola era vergine o se piangere perché a breve sarebbe stata sacrificata all’orso. Mentre Vanessa diventava sempre più un piccolo puntino rosso fuoco all’orizzonte, i due genitori caddero in ginocchio e presero a pregare, o meglio a biasciare preghiere di singulti e di risatine isteriche.

In men che non si dica la giovane fu portata vicino al bosco dove l’orso attendeva la sua offerta, e ad onor del vero non è che attendesse placido placido, era difatti eccitato e non poco: per sciogliere un pochetto la tensione ballava spostando il peso del corpaccione da un piede all’altro, facendo tremare di paura tutto il sottobosco. L’orso fiutò l’aria e gli ci volle un niente per capire che era stato accontentato, d’altro canto non è che avesse lasciato delle alternative agli abitanti terrorizzati del paese se non quella di obbedire alla sua richiesta.
La giovane stava in piedi coi piedini scalzi in mezzo all’erba verde. Spirava un bel venticello né caldo né freddo, però aveva addosso solo il suo pigiamino e null’altro, e, particolare da non sottovalutare, era stata portata lì contro la sua volontà, come tutte le vittime sacrificali del resto, ai margini del bosco perché un orso se la pappasse o peggio. Le ci volle mezzo secondo per realizzare che aveva paura, che una sacra paura così mai l’aveva provata e che con tutta probabilità quei minuti che stava vivendo sarebbero stati gli ultimi della sua vita. A questo pensiero scoppiò a piangere in silenzio, rassegnata al suo destino. Una manciata di minuti prima era al sicuro  e felice nel suo lettino a dormire, a sognare mondi incantati e perfetti, ed era bastato meno d’un niente perché tutto intorno a lei cambiasse: non c’era da farsi illusioni, l’orso avrebbe fatto di lei una polpettina, nessun principe azzurro sarebbe spuntato dal folto del bosco per portarla in salvo. Capì che era di fronte a un’inesorabile realtà, quella che l’orso aveva decretato per lei. Cadde in ginocchio con le gote rigate dalle lacrime, quando un’ombra immane oscurò il sole. Vanessa alzò lo sguardo al cielo e incontrò il muso dell’orso.
Quando rinvenne, il muso dell’orso era ancora sopra di lei: poteva sentire l’alito caldo della bestia. Non era male: sapeva di miele. La poveretta pensò che doveva essersi abbuffato con uno o più favi stracolmi di miele selvatico. Ma era ben magra consolazione: al primo accenno di fame, quella brutta bestia l’avrebbe fatta fuori. Piccoli singulti cominciarono a farsi strada nella gola scuotendole il petto. Fu allora che l’orso aprì bocca: “Perché piangi?”
Vanessa si fece pallida pallida: l’animale aveva parlato. Non poteva essere. O forse sì!
La ragazzina tenne vivo un silenzio ostinato: non voleva cedere alla pazzia di cui credeva d’esser vittima. Se proprio doveva andare a trovare il Creatore, non voleva lasciare a quel brutto orso la soddisfazione d’aver lasciato nel mondo in sua memoria l’eco della pazzia. Di piangere tuttavia non le riusciva proprio di smettere e i singhiozzi sempre più con prepotenza presero a violentarle il petto.
L’orso sospirò, così almeno sembrò a Vanessa. E parlò, di nuovo: “Sono piccole, le tettine intendo. Proprio piccole.”
E a questa uscita dell’orso l’amor proprio della giovane vergine ebbe la meglio sulla paura: “Non sono piccole. Sono proporzionate a me.”
L’orso non fece una piega. Si limitò a squadrarla ben bene. Poi con una zampa le sfiorò il viso ancora bagnato di lacrime salate. Vanessa si fece più bianca d’un fantasma e per poco non perse i sensi. L’animale si portò la zampa sul muso: l’annusò più volte, convinto e non convinto, poi tirò fuori la lingua e prese a leccarsela. “Salate”, sentenziò infine, facendo una buffa smorfia.
Suo malgrado la ragazzina non riuscì a trattenersi e rise piano piano, una risata gentile come il trillo d’un campanellino.

Non riferirò a voi lettori di come Vanessa e l’orso, che aveva gettato il panico nel paese, fecero amicizia. Però, in tutta sincerità, vi  dirò che la giovane vergine e la bestia, che si credeva esser crudele più del demonio, arrivarono mano nella mano in paese sotto gli occhi allibiti del prete  – che subito si segnò per perdere i sensi immediatamente dopo  -. del Primo Cittadino, dei genitori di Vanessa e di tutti i paesani. I più vecchi, quelli con soltanto qualche dente ballonzolante in bocca, presero a ridersela della grossa, tutti gli altri poterono solo sgranare gli occhi incapaci di credere.
L’orso teneva la manina della giovane vergine e la teneva nella sua zampa grossa con estrema delicatezza; dal canto suo la ragazzina non pareva per niente turbata, anzi teneva sulle labbra un casto dolce sorriso di felicità, quello che la gente bene conosceva, con la sostanziale differenza che mai Vanessa era parsa così tanto angelicata.
Vanessa aveva indosso ancora il suo pigiamino, ma non sembrava in imbarazzo: forse qualche ora prima lo sarebbe stata, ma con l’orso al suo fianco era felice e basta. I vecchi del paese, ghignando, un po’ diabolici un po’ divini, non mancarono di stuzzicare la ragazzina: “Allora Vanessa, l’hai persa la verginità?” Il Primo Cittadino, nonostante fosse un uomo navigato, non riuscì a rattenere un’onda di rossore che gli invase il volto: incollerito ma anche impaurito dalla presenza del plantigrado, alla fine si decise per un diplomatico silenzio, tanto più che l’orso – lui ne era certo – l’aveva puntato più d’una volta entrando in paese, e lui, come uomo, non è che fosse chissà quale esempio di coraggio in carne e ossa. In breve, ci teneva davvero tanto alla sua pellaccia. Con piccoli passi calcolati al pelo, il Sindaco si fece dappresso alla strana coppia tremando in maniera vergognosa, ma davvero gli mancava il coraggio e tutti se ne resero conto, pur senza schernirlo. In paese tutti avevano una dannata paura, fatta eccezione per le vecchie cariatidi con quattro denti in bocca: se la ridevano sotto i baffi, in spregio al pericolo, forse perché consapevoli che il loro tempo l’avevano fatto, o forse è più giusto pensare che il tempo gli aveva cucito addosso una saggezza che i compaesani non avevano ancora maturato. Sia come sia, balbettando non poco il Sindaco cercò d’informarsi: “E… allora…?”
Vanessa gli regalò un sorriso di sole, e con infantile gioia diede in una risatina sommessa, che alleggerì subito il cuore pesante del Primo Cittadino tremante: “L’orso viene a casa con me!”
Il Sindaco si fece statua di sale, incapace di proferir parola. Rimase in silenzio per un minuto lungo quanto l’eternità, dopodiché fece un senso d’assenso con la testa. E alla fine, con voce d’oltretomba, sol disse: “E’ la soluzione.”
Tenendo la manina di Vanessa nella sua zampa, l’orso si lasciò condurre buono buono. E a tutti, ma proprio a tutti, gli parve di vedere un angioletto in pigiama a piedi nudi che trascinava per un orecchio un orsacchiotto di morbido peluche.

LA DONNA-BAMBINA, IL LUPO E L’ORSO

Di solito le favole, felici o no che siano, iniziano sempre con un bel “c’era una volta”. La nostra favola invece no, inizia con un più autentico e moderno “oggi c’è…”, dunque, miei piccoli Lettori, accomodatevi sui cuscini, cucite le boccucce, aprite bene le orecchie e ascoltate la storia che in questo preciso momento si sta scrivendo sul Libro Mastro delle Favole di tutti i Tempi.

C’è una bella bimba che vive in un paese circondato dal verde dei prati in fiore e dall’azzurro del cielo, dove sempre i passerotti cinguettano. Mangia di buon appetito quello che madre Natura le dà, perlopiù ciliegie, fragoline e more selvatiche, mirtilli, mele rosse, pesche e albicocche, ma anche verdurina fresca, pan di zucchero, cavolfiori, carciofini romani, lattuga; e di tanto in tanto uova fresche di gallina e pescetti d’acqua dolce. Beve acqua di sorgente, sempre fresca, mai imbottigliata: quando va al ruscello a riempire le secchie di legno, non dimentica di porgere la boccuccia rosea al bacio dell’acqua, che finisce col bagnarle il visetto causandole uno scoppio di risa adamantine.

Vany è il suo nome e tutti le vogliono un gran bene. Quando è sera, non dimentica mai di dire una preghierina a Gesù, per le persone e per gli animaletti del bosco, affinché sempre assicuri loro salute e felicità.
Di tanto in tanto il fratello, che è più grande di lei, va a trovarla nella sua casetta immersa in un giardino ricco di margherite, di rose bianche e rosse, e anche di papaveri alti alti quando è la stagione. Il fratello vuole molto bene alla sorellina, tiene però su un’aria di sufficienza che a Vany non garba; crede infatti di saper fare ogni cosa e non manca mai di rimproverarla per un nonnulla, soprattutto per i gattini e i cagnolini che tiene in casa e che lei tratta con amore uguale a quello che dona alle persone. Questa bellezza d’animo così francescana dà fastidio al fratello di Vany. Giovanni – è questo il suo nome – talvolta si arrabbia con la sorellina e la sgrida invitandola a buttar fuor di casa i suoi amici a quattro zampe. Vany non gli ubbidisce, ed allora lui s’incavola e fa un gran fracasso girando per casa come un diavolo della Tazmania. Per fortuna le visite di Giovanni non sono frequenti, per cui la fanciulla può godersi in tutta tranquillità il suo angolo di paradiso sognando a occhi aperti ora unicorni da catturare con placide carezze, ora folletti da inseguire e arcobaleni e pentole piene di tesori.

Quando il vespro tinge d’un bel rosso amaranto le colline a pan di zucchero, Vany si affaccia alla finestra e rimane con gli occhi sognanti incollati al vetro. Sogna. Sogna un amore, ma non un amore qualunque, non un principe azzurro perfetto e nemmeno uno di quei giovinastri che si vedono su certe riviste patinate e che sono il pane quotidiano di parrucchiere e portinaie annoiate. No, la fanciulla immagina un uomo semplice, normale. Be’, non del tutto normale, infatti lei che è tanto bellina e aggraziata sogna un uomo che sia anche un po’ orso, una sorta di peluche musone e con il sorriso furbetto. Il suo uomo non se lo immagina bello e perfetto, perché un orso non potrebbe mai dirsi bello, non allo specchio perlomeno. Simpatico però sì.

Vany decide di andare a prendere l’acqua, giacché è rimasta con poco meno d’una secchia piena, una quantità davvero insufficiente per far fronte alle necessità di lei e dei suoi amici a quattro zampe. E’ per lei l’occasione per rinfrescarsi nel torrente, per fare una passeggiata attraverso prati e macchie di bosco e incontrare così gli amici animali, gli scoiattoli, i cuccioli di volpe, ed ancora caprette selvatiche e meno bisbetici caprioli. E’ dunque molto felice, la gioia le imporpora le gote; di fatto è innamorata della vita e di tutte le cose belle che solo attendono d’esser scoperte.
Arrivata nei pressi del torrente, la bella bimba volge lo sguardo al cielo; è bello azzurro, solo qualche pecorella lattiginosa naviga placida, e il sole è alto e caldo, e gli uccellini svolazzano cinguettando. E’ una visione paradisiaca che gonfia il cuore della fanciulla di pura serenità.
Vany ama la bellezza, la semplicità e ogni volta che si guarda d’attorno e scopre che Dio è nel canto d’un usignolo o nel belato d’una capretta, lei lo ringrazia.
Arrivata presso la sorgente subito l’aria fresca la ubriaca. Colta da un sentore di selvaggia libertà, si leva gli zoccolini e fa volare via il vestito di cotone rimanendo con addosso le sole mutandine. Sicura di sé si getta in acqua e comincia a giocare spruzzandola dappertutto, immaginando di prender parte a un gran ballo in qualità di ospite in un castello fatato abitato da gentili dame e da più gentili cavalieri, non di rado assai buffi nell’abbigliamento.
Mentre gioca circondata dai pesciolini che nuotano fra le sue gambe facendole il solletico, Vany non si rende conto della minaccia incombente, non può difatti vedere l’ombra che d’attorno si sta facendo sempre più larga. All’improvviso il sole diventa pallido, come terrorizzato. Una voce rauca e metallica sbraita contro la donna-bambina che nell’acqua del torrente sta facendo il bagnetto. Sentendo la lingua aliena mordergli le orecchie, la giovane Vany impallidisce e il suo cuoricino perde un colpo. Ha paura. Non ha ancora visto in faccia chi la minaccia, ma la paura le è già entrata in circolo. In gola sente i singhiozzi soffocarla e gli occhioni un istante prima sereni già piangono disgrazia. Prima che abbia tempo di portarsi al riparo, la malvagia creatura è di fronte a lei che la interroga: “Tu chi sei? Come osi sporcare l’acqua del mio ruscello?”
Vany alza un pochetto lo sguardo sull’animale che la minaccia: è un lupo nero. Non un lupo normale. E’ gigantesco e si regge sulle zampe posteriori, in piedi. Ha orribili artigli affilati, occhi di fuoco e denti famelici sporchi di sangue. Nerissimo il lupo non può che essere una creatura del Diavolo. La povera donna-bambina non sa che dire. Balbetta. Subito si rende conto che non servirà a nulla cercare di discutere con quel mostro vomitato dall’Inferno: glielo legge negli occhi che è venuto da lei per papparsela. Non è una creatura di Dio, la giovane ne è certa. Purtroppo Vany ha capito bene: il lupo è un diavolo, forse addirittura Belzebù, in ogni caso un essere sanguinario che non si può convincere che l’amore è la sola forza per cui val la pena di vivere.
La giovane Vany è in un bagno di lacrime, ha capito che contro il lupo famelico niente può fare. Invano cerca di convincerlo che l’acqua del ruscello è di tutti; gli assicura poi che non può aver insozzato l’acqua perché lei è pulita e profumata, troppo giovane per accogliere malattie nella sua boccuccia o altrove; gli assicura, coprendosi come può con mani e braccia il petto nudo, che non farà mai più il bagnetto nel ruscello e che non ne berrà in futuro l’acqua. Non servono le parole, il lupo famelico già si lecca le zanne con la lingua. Il suoi occhi di fuoco incollano la preda al letto del ruscello. Vany non riesce a muoversi, terrorizzata è caduta battendo il sederino sul fondo del fiumiciattolo, rischiando di schiacciare pure due pesciolini. Piange come una fontanella, sicura ormai della triste fine che l’attende. Se almeno il suo fratellone fosse stato insieme a lei, lui l’avrebbe difesa, non avrebbe permesso ad alcuna creatura infernale di farle del male; tuttavia Giovanni è lontano e lei non è capace di difendersi. E poi che potrebbe mai una bimba tenera tenera come lei contro un lupaccio affamato? Forse troppo tardi ha scoperto che nel bel mondo creato da Dio il Male riesce comunque a penetrare e che sempre se la prende con le anime più indifese.
In cuor suo dice una preghierina per congedarsi dal mondo che tanto ha amato. Tremante e piangente aspetta che il lupaccio strazi le sue tenere carni fra le sue zanne. Sente il suo puzzo di zolfo farsi sempre più vicino. Sente le sue zampacce sollevarla senza sforzo. Sente sul suo bel faccino sbiancato dalla paura l’alito puzzolente del lupo nero.
Con gli occhi chiusi attende la fine.
D’improvviso cade con tutto il suo lieve peso nell’acqua del torrente. I pesciolini si raccolgono subito intorno a lei disegnando coi loro corpicini un anello. Vany non capisce, non subito. Ha aperto gli occhi, ma la vista è ancora annebbiata dalle lacrime e dalla paura. Le par di vedere che il lupaccio stia intrattenendo una furibonda lotta, però non saprebbe dire contro chi.

Quando finalmente riesce a focalizzare, davanti alla sua vista si presenta una scena invero insolita: quello che pare un orso, o giù di lì, ha costretto fra le sue possenti zampe il lupo, costringendolo a urlare di dolore. La fanciulla non riesce a credere ai suoi occhi: sembra proprio un orso l’essere accorso in suo soccorso, eppure non è un orso, non del tutto comunque.

La fanciulla è spaventata, l’orso che ha messo kappaò il lupo cattivo adesso le si sta facendo incontro. Sul suo muso c’è un sorriso furbetto. Vany non capisce quali possano essere le sue intenzioni, ha paura e non ne ha. Un sentimento strano quello che prova. Fissa con in suoi occhioni neri di velluto la creatura orsina e decide che ha tutta l’aria d’essere un gran bastardo, nel senso buono però. In realtà la giovane è scombussolata, oltreché impaurita. Quello che pare un orso, un orso non è, non del tutto; e poi ha stampato sul muso un sorriso bastardo, che Vany non riesce a decifrare bene. Non riesce a capire se è buono; se è cattivo; se è allo stesso tempo buono e cattivo.
Non capisce quali siano le sue intenzioni. E’ spaventata, non come di fronte alle zanne del lupo diavolo, però…! Nel suo cuore, proprio in fondo, sente che non ha da temere: l’ha salvata, per cui non dev’essere un orso cattivo, sempreché si tratti d’un orso, l’aspetto difatti può trarre in inganno, questo Vany l’ha capito, da poco ma l’ha capito.

Miei piccoli Lettori, a questo punto io narratore dovrei chiudere il Libro Mastro delle Favole di tutti i Tempi e assicurarvi in maniera molto spicciola che altro non c’è da raccontare.
Il motivo?
La buona educazione ci raccomanda di non impicciarci delle storie d’amore per farne chiacchiere da portare in giro, sulla bocca della gente. Se una morale c’è nella favola che vi ho raccontato è che le apparenze possono trarre in inganno e che il Creato di Dio è sì bello, ma sempre sotto il vigile assedio del Male. Mentirei se ora vi dicessi che i diavoli non esistono e che ogni angolo della Terra è abitato solamente da fatine buone ed elfi.
Dovrei dunque chiudere il Libro Mastro e lasciarvi a meditare sulla storia che vi ho or ora raccontata. Tuttavia nei vostri occhietti, sì simili a quelli degli angioletti, leggo una punta di delusione, per cui vi porterò un accenno, uno soltanto, di come Vany fa amicizia con l’orso che un orso non è, non del tutto comunque.

La fanciulla, del tutto ripresasi dalla paura, vede finalmente il suo salvatore: è un uomo grande e grosso e barbuto, con una tuta di fustagno addosso e non poco sporco di fuliggine e fango. Sembra un orso, sì. Non ha l’aria cattiva, nonostante il sorriso furbetto che le rivolge tenendo un rametto di liquerizia in bocca. La fanciulla decide che bello non è, non uno di quei principi azzurri per cui la maggior parte delle donne farebbero follie starnazzando come galline. Vany tenta di raccogliergli la mano nella sua in segno di riconoscenza, ma si accorge che è impossibile: il giovanotto orsino ha mani grandi come palanche. E’ dunque il giovanotto a raccogliere la manina della fanciulla nella sua, con delicatezza, timoroso e impacciato.
Vany non sa ancora come si chiama il suo salvatore, sente però di volergli già un gran bene. Non è bello. Non è brutto. E’ un giovanottone? La piccola Vany ci pensa su un paio di secondi, poi gli rivolge uno sguardo severo e divertito: è un orso, sicuramente un orso buono, tanto buono e simpatico. Dopo aver così giudicato il suo salvatore, si accorge d’essere pressoché nuda con le sole mutandine addosso. In silenzio arrossisce. Arrossisce d’una bellezza da far invidia alle più belle rose del Creato intero.

TALPA E TALPO E L’USCITA DI SICUREZZA

Dopo aver dormito quel tanto che gli bastava, vale a dire qualcosa come tre ore o meno, Talpa e Talpo decisero di uscire dalla loro tana. Con gli occhietti semiciechi indagarono l’intorno, si lasciarono dunque accarezzare dal sole, e, come al solito, presero a discutere animatamente.
“Fa caldo, non trovi anche tu?”, disse interrogativo Talpo, il maschio, e subito prese a grattarsi la testa con una zampa.
“Odio il caldo”, gli rispose Talpa, la compagna. E anche lei prese a grattarsi la testolina scarmigliata.
Già da un po’ di tempo avevano deciso che la Parola Perfetta poteva essere una e una sola, Talpo…  Parola Perfetta ovviamente per designare il maschio. L’aver definito che loro due erano delle talpe, Talpa e Talpo, li aveva resi oltremodo felici, in pace con il ristretto mondo che conoscevano e il quale restava circoscritto entro i confini d’un campo tenuto da un contadino vecchio e più sordo d’una campana.
“Che facciamo di bello?”, domandò lei.
Talpo finse di pensarci su, poi rispose: “Quello che facciamo di solito.”
Talpa scoppiò subito a ridere.
“Perché ridi?”
“Perché noi non facciamo mai niente”, gli fece notare lei, e non era di certo la prima volta che glielo diceva.

Talpa e Talpo amavano fare poco o niente. Le loro giornate trascorrevano serene, vale a dire litigando per delle inezie, altrimenti la noia l’avrebbe avuta vinta su di loro. Vivevano di quello che il campo gli donava, o meglio di quel poco che gli serviva e che strappavano dal campo del contadino, perlopiù lumache e vermetti, ma non disdegnavano di mangiare anche lattuga e carote. Talpa amava fare delle torte a base di carne e di lattuga tritata, peccato le riuscissero tutte storte. Talpo amava in maniera esagerata le torte storte preparate da Talpa, gli piacevano da matti e sempre le faceva i complimenti, senza però disdegnare, ridendosela sotto i baffi, di far notare alla compagna che mai le era riuscita una torta con il buco proprio al centro.
“Potremmo vedere di sgraffignare un paio di lattughe”, propose Talpo.
“Diciamo che, a naso, è una buona idea”, acconsentì Talpa.
“Che tu sappia, è questa la stagione giusta per la lattuga?”
“Che vuoi che ne sappia io, sono una talpina mica una indovina!”
Talpo non ribatté.
A naso le due talpe si fecero strada in mezzo al campo.
“Tu senti odore di lattuga?”
“No, io sento solo odor di vermetti”, gli rispose lei.
“Di quelli ne abbiamo in abbondanza, è la lattuga che ci manca”, sbottò lui.
“Inutile, io non sento odor di lattuga. Mi sa che la torta non la farò.”
“Ma io la voglia la torta storta”, cominciò a piagnucolare Talpo.
“Sei peggio di un cucciolo, sempre a frignare!”, lo rimproverò lei.
“Non è vero che frigno.”
“Invece sì, frigni sempre”, insistette lei.
“Ti dico di no”, ribatté lui con poca convinzione, perché, pur non ammettendolo apertamente, dentro di sé lo sapeva di essere un frignone.
“E sei pure stonato quando canti”, continuò a rimproverarlo lei.
“Cosa c’entra questo adesso con la lattuga e il frignare? E, per inciso, io non sono stonato.”
“C’entra, non ti preoccupare che c’entra. Sei stonato, stonato più d’una campana a morto. Ogni sera attacchi con una ninna nanna, e io odio le tue ninne nanne. Te lo dovevo dire, mica potevo tacere per sempre.”
Talpo mise su un musetto offeso.
“Adesso non farai mica l’offeso!”
“Ti sembra che stia facendo l’offeso?”, buttò lì lui.
“Non lo so, ma mi sembra di sì.”
“Perché ti sembra di sì.”
“Possibile che tu non la smetta mai di mitragliarmi con i tuoi perché?”
“Insomma, quanti difetti ho, quanti non ne ho, non lo so.”
“Stai forse cercando di litigare con me?”, disse lei ridendosela sotto i baffi.
Le due talpe non si erano rese conto d’aver tirato su un baccano del diavolo, e nonostante il contadino fosse sordo e cieco, anche se gli ci volle un po’ per realizzare che qualcosa stava accadendo nel suo campicello, alla fine tirò un urlo animalesco carico di minaccia.
“Hai sentito?”, bisbigliò Talpo.
“Visto, per colpa tua rischiamo che quello ci identifichi. ”
“Non è colpa mia, semmai è di entrambi.”
“No, ti sbagli, la colpa è tua e soltanto tua.”
“Talpina, perché vuoi farmi disperare?”
“Io non ti faccio disperare, Talpo. E’ solo che hai poco sale in zucca.”
“Non è vero!”, gridò forte lui.
A questo punto il contadino non nutriva dubbi che qualcuno si aggirasse nel suo campo, magari per rubare: “Chiunque voi siate, sappiate che se vi becco vi faccio la pelle, brutti diavoli.”
Talpa e Talpo deglutirono. Le cose si stavano mettendo davvero male per loro.
Talpo si dimostrò subito molto preoccupato: “Ci conviene scappare.”
Talpa sospirò in maniera teatrale o quasi: “Sì, credo di sì. Prendiamo l’Uscita di Sicurezza.”
“Quale uscita?”
“Quella di sicurezza, Talpo.”
“Se non te ne fossi accorta, siamo in mezzo a un campo e, nei paraggi, non ci sono uscite di sicurezza, perlomeno che io sappia.”
Talpa prese a ridere: “Talpo, scaviamo una buca.”
“Una buca, una buca, una buca…”
“Non ti agitare così, sembri uno da manicomio.”
Preoccupato e oltremodo agitato, Talpo non sentiva più una sola parola che veniva dalla boccuccia della compagna.
“Scaviamo una buca e ci squagliamo da qui.”
“Una buca, una buca, una buca…”, continuava a ripetere, senza muovere un’unghia.
Mentre Talpo scivolava sempre più nel terrore, Talpa scavava di buona lena, praticamente per due.
“Si avvicina, sento i passi del contadino!”, gridò lui impazzito o quasi.
Prima che potesse rendersene conto, Talpo si trovò cacciato dentro la buca che la compagna aveva scavato anche per lui.

Una volta in salvo, Talpa gliene cantò quattro al suo compagno: “Sei rimasto lì senza far niente. Perché?”
“Ero terrorizzato.”
“Scemotto, il terrore genera terrore”, sentenziò Talpa.
“Lo so”, disse mortificato Talpo.
Talpa sospirò sconsolata e divertita allo stesso tempo: Talpo non sarebbe cambiato mai.
“A ogni modo, sappi che la lattuga per fare le torte non ce l’abbiamo”, tagliò corto lei.
Lui lasciò scivolare una lacrimuccia sul musetto, poi tirò su con il naso e disse: “Però siamo vivi e siamo insieme.” E ciò detto, tornò a essere felice.
“Potresti almeno ringraziarmi di averti portato dentro all’Uscita di Sicurezza”, gli fece notare lei. Ma lui era già caduto in un sonno bello profondo.
Talpa sorrise al compagno addormentato, e fra sé e sé pensò che per quella sera le aveva detto bene, non aveva difatti dovuto sorbirsi una ninna nanna stonata.

Inciampando e rischiando di rovinare a terra, per tutta la notte il contadino cercò invano dei segni che gli fornissero delle indicazioni ben precise su chi si fosse introdotto nella sua proprietà. Solo all’alba desistette, e fra sé e sé pensò: “Sono vecchio, sordo e cieco, però quel fracasso del diavolo oggi l’ho sentito pure io. Saranno stati dei ragazzacci, e chi altri sennò?”

Il vecchio contadino non sospetta proprio dell’esistenza di due talpe birichine nel suo campo. Ed è meglio così, è meglio così, credetemi sulla parola, Signore e Signori.

FAVOLA DI DUE TALPE CHE SI VOGLIONO BENE

Due talpe condividevano da sempre la stessa tana. Di tanto in tanto capitava che, per movimentare la loro monotona vita, bisticciassero.
La talpa femmina amava stuzzicare il suo compagno: “Che cosa stai facendo?”
Strizzando un po’ gli occhi ciechi, aggiustandosi sulla punta del naso gli inutili occhiali da vista, lui le rispondeva: “Sto cercando la Parola Perfetta.”
“E’ una vita che la cerchi, e non l’hai ancora trovata”, lo rimproverava lei.
“Non l’ho ancora trovata, perché tu mi stai sempre addosso.”
Ogni volta che sentiva queste parole, la talpa femmina si indispettiva, metteva su un faccino un po’ triste e un poco arrabbiato, dopodiché menava un veloce scappellotto sulla testa del compagno.
Ogni giorno era così. Le due talpe si volevano un gran bene, ma avevano davvero pochi motivi per distrarsi, così litigavano per gioco, per non darla vinta alla quotidianità che li avrebbe voluti sotterrati in una noia di giorni tutti uguali.
Un giorno però le due talpe litigarono sul serio.
“Tu cerchi sempre la Parola Perfetta e a me dedichi poca o nulla attenzione. Ti par giusto?”
“Tu sei talpa e pure io lo sono, ma non è giusto.”
“E perché non sarebbe giusto?”
“Perché talpa è un nome adatto a una femmina, e io sono un maschio”, si inalberò il compagno della femmina.
“Non è un buon motivo per trascurarmi. Se non hai tempo per me, puoi pure fare le valigie e andartene da questo buco”, gli disse lei a muso duro.
Sentendosi offeso, trattato male, il compagno della femmina, con voce dolente, sol disse: “Non è giusto che mi tratti così.”
“Non è colpa mia se tu non mi vuoi bene.”
“Ti voglio bene”, disse lui con convinzione, anche se già sentiva un dolore mai provato prima scavargli dentro al cuore.
“Lo dici a parole, a parole soltanto, e spendi tutto il tuo tempo dietro alla ricerca della Parola Perfetta”, lo rimproverò lei, pentendosi quasi subito d’esser stata così dura, forse temendo che lui potesse davvero fare le valigie e andarsene.
“Ti voglio bene”, disse di nuovo lui con convinzione, nonostante sentisse fin troppo bene il dolore che, sempre più a fondo, gli scavava nel cuore.
“Anche se volessi crederti, non me lo dimostri mai il bene che dici di volermi.”
“Ti voglio bene”, ripeté lui per la terza volta.
“Non sai dire altro!”, lo attaccò lei.
“Dico quello che sento”, si difese lui, e non aggiunse altro.
“Ti odio!”, gridò la talpa femmina.
Questo non se lo sarebbe mai aspettato dalla sua compagna, no davvero! Il compagno della talpa, suo malgrado, fu costretto a rispondere alla femmina che anche lui la odiava.
Come fossero arrivati a questo punto, le due talpe non lo sapevano. Stavano giocando o stavano facendo sul serio? Non lo sapevano. Si fecero tristi tristi, e non si dissero più una parola fino a sera fatta.

“Me ne vado”, dichiarò lui rompendo il silenzio.
La femmina, non sapendo cos’altro dire, forse credendo che il maschio volesse solo metterla alla prova, gli disse due parole semplici semplici: “Vai pure!”
Il povero maschio si fece prima pallido pallido, poi disse: “E dove potrei mai andare?”
“Affari tuoi!”
Una lacrima scivolò sul muso di lui, una lacrima che la femmina non vide o che fece finta di non vedere.
“Allora me ne vado”, confermò mogio mogio lui.
“Vai, vai pure!”
“Perché mi tratti così?”, la rimproverò lui.
“Perché sei cattivo…”, gli rispose lei e subito si morse le labbra, perché sì, questa volta aveva osato davvero troppo.
“Lo pensi sul serio?”
“Sul serio, certo che sì”, disse lei, mentre in petto il cuore le batteva forte forte per l’agitazione.

Fu così che il maschio della talpa se ne andò, anche se andò ben poco lontano: in pratica si spostò in un’altra buca, a un tiro di schioppo da quella che, fino a pochi minuti prima, aveva condiviso con la sua compagna. Con sé portò via il minimo che era poi tutto quello che aveva, in pratica nella valigia ci mise gli occhiali e morta lì.
Nonostante le buche delle due talpe fossero estremamente vicine, sia il maschio che la femmina accusavano una solitudine indicibile e non sapevano davvero come far trascorrere il tempo. Lui, nella sua nuova buca, aveva il morale così a terra che non teneva manco più la voglia di cercare la Parola Perfetta; e lei era non meno depressa, gironzolava fra le gallerie e basta, ma più gironzolava più si rendeva conto che non c’era niente di cui gioire adesso che il suo compagno non era più insieme a lei a farla disperare!

Trascorsero due giorni nelle loro rispettive buche, e il terzo giorno, sopraffatti dalla solitudine, uscirono fuori nello stesso momento e si trovarono praticamente occhi negli occhi, anche se sarebbe più corretto dire naso contro naso. E subito cominciarono a litigare.
“Mi hai mandato via”, la rimproverò lui.
“No, non è vero, sei tu che sei voluto andare via”, ribatté lei.
“Tu menti”, continuò lui.
“No, sei tu quello che menti”, continuò lei.
“Io non mento.”
“E io invece ti dico di sì.”
Andarono avanti così per delle ore, che volarono in un battibaleno.
“Tu menti, però non ne sono così sicuro. E poi, a dirla tutta, non ricordo nemmeno il motivo per cui abbiamo litigato”, ammise lui stremato ma felice, quando oramai il vespro era già bell’e passato.
“Non me lo ricordo neanche io. E non sono affatto sicura che abbiamo litigato”, capitolò lei stremata ma felice.
“Perché stiamo in due buche diverse invece di stare nella stessa buca?”, provò a chiedere lui.
“Non me lo ricordo, forse non lo so proprio il perché. So solo che mi manchi, Talpo!”, gli rispose lei con dolcezza.
“Che cosa hai detto, Talpa?”, si infervorò lui.
“Che mi manchi”, ripeté lei.
“Sì, anche tu mi manchi e tanto. Ma hai detto Talpo, o sono diventato sordo oltre che essere cieco per natura!”
Talpo, sì.”
“E’ questa la Parola Perfetta e l’hai trovata tu, Talpa”, gridò lui.
Talpo sarebbe la Parola Perfetta?”
“Esatto esattissimo, Talpa.”
“Dunque siamo Talpa e Talpo?”
“Più che esattissimo.”
“Mi stai dicendo che ho disseppellito, non so bene da dove e come, la Parola Perfetta?”
“E’ proprio quello che ti sto dicendo.”
“Mi stai forse suggerendo che non sei stato…”. Non terminò il pensiero, ché se avesse continuato,  avrebbe combinato un guaio, poco ma sicuro.
“Che non sono stato…”, volle sapere Talpo, mettendo su un faccino alquanto strano.
Fra sé e sé, a tutta birra, Talpa rifletté, si schiarì poi la voce e parlò: “Stavo dicendo che sei stato tu, Talpo, a suggerirmi la Parola Perfetta.”
Talpo era a dir poco sbigottito: mica capiva!
“Sei stato tu, certo che sì. Mi hai suggerito la Parola Perfetta adatta a te con la tua presenza, con il tuo incessante martellare su questa cosa, insomma, con il nostro mai stanco bisticciare su questa cosa. E’ andata proprio così, proprio così”, gli spiegò lei.
Talpo non era granché convinto, o forse sì: in testa gli albergava una gran confusione.
“Sei sicura?”, chiese con un filo di voce.
“Sicura sicurissima, Talpo!”, mentì lei a fin di bene. Ma forse non stava mentendo, forse no.
Talpo, finalmente sicuro di sé, gonfiò il petto ed esplose in una risata di gola, che subito invase l’intorno.

Le due talpe tornarono a vivere insieme, nella stessa buca. E continuarono, ogni santo giorno, a litigare affinché non fosse la noia ad aver ragione di loro.

Il proprietario del campo dove le due talpe ancor oggi stanno, essendo lui tanto ma tanto vecchio e più sordo d’una campana e più cieco d’una talpa, non le sente né le vede mai, non sospetta proprio che nella sua proprietà ci siano delle talpe. Ed è meglio così, è meglio così, credetemi sulla parola, Signore e Signori.

L’ANACORETA, LA STREGA E L’INFORTUNATO

Seppur in pieno luglio, sulla città un sudario di negre nuvole per delle gocciole di fresca pioggia.
Decido di far visita al vecchio saggio, al mio amico Francesco, un anacoreta bianco come la neve, e al suo amico Bruss,un bel cagnone nero. Non ho però mai capito chi è dei due che comanda, se Bruss o il mio amico; tuttavia credo che a Francesco non dispiaccia affatto eseguire gli ordini del suo amico a quattro zampe, pur vergognandosi un pochetto a dichiarare la verità ai quattro venti.
Quando Francesco mi vede, subito trae un grosso sospiro.
“Giuseppe, vecchio mio, qual buon vento?”
Bruss tosto mi salta addosso leccandomi la faccia barbuta.
Gli accarezzo la testa in mezzo alle orecchie, mentre Francesco lo richiama: “Bruss, non vedi che è ferito?”
“Francesco, non ti preoccupare. Le coccole aiutano la guarigione.”
Francesco non sembra molto convinto. A ogni modo, Bruss guarda Francesco e un po’ a malincuore mi lascia libero dalla sua affettuosità.
“Che hai combinato?”
“E’ una storia molto breve. Tenevo in braccio una pila di libri, proprio come se fossero dei figli e ho messo un piede in fallo. Pur di non far cadere gli amati libri, ho sacrificato il piede.”
“Ti sei pentito?”
“No.”
Francesco mi sorride benevolo, non si aspettava difatti risposta diversa.
“Posso esserti d’aiuto?”
“Sì.”
Francesco carezza Bruss, che nel frattempo si è portato vicino al suo amico a due zampe.
“Vieni con me!”, dice secco. “Una bella mela rossa ti rimetterà in sesto in quattro e quattr’otto.”
“Sono venuto appunto per una delle tue mele miracolose.”
Francesco non commenta.
Benevolo mi sorride e tutt’e tre, io, Bruss e Francesco ci avventuriamo tra peschi e meli.
Ogni frutto è sì tanto bello e in salute che si fa difficoltà a non credere d’esser entrati in un piccolo Eden incontaminato.

Fattosi dappresso al più bel melo, l’amico subito coglie una bella mela rossa per farmene dono. Ma, d’improvviso, in un turbine di foglie secche e polvere si materializza Cinzia la Stregaccia.
Francesco e io ci facciamo piccoli piccoli, ma non Bruss che tosto comincia ad abbaiarle c



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