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La favola nostra

La favola nostra

Iannozzi Giuseppe

La neve aveva spazzolato tetti e comignoli, ma, nel giro di poco, il freddo intenso aveva fatto presto a ghiacciarla. Lungo le strade la gente faceva attenzione a non scivolare, a non mettere un piede in fallo, però non mancava di portare lo sguardo ora a destra, ora a sinistra per non perdersi una sola vetrina.
Camminavo senza una meta precisa, e in testa rincorrevo i miei pensieri, uno più lugubre dell’altro. Vivevo come se avessi la canna di una pistola puntata alla tempia. Era per me un periodo decisamente no.
Più o meno tutti esplodevano risate. A guardare con un po’ di attenzione le persone, non potevo fare a meno di chiedermi se fossero davvero felici o se solo stessero recitando una parte. Il mio sospetto era che stessero fingendo: si era quasi sotto Natale, per cui i più si sentivano in dovere di dar corpo a una qualche forma di felicità, e poco importava se questa appariva artefatta e stucchevole a un attento osservatore. Nonostante il clima non poco rigido, le cocotte più temerarie non mancavano di esibire un generoso décolleté coperto giusto un po’ da un foulard dai colori chiassosi.

Sotto i portici tenevo il passo lungo e solo di rado gettavo un’occhiata distratta a una vetrina: non c’era niente che potesse interessarmi. Il vento mi sferzava la faccia e la pistola che immaginavo puntata alla mia tempia non voleva che saperne di sfumare, di lasciarmi in pace almeno per una manciata di secondi. Di tanto in tanto un anonimo mi urtava, forse lo faceva apposta, forse no, poi mi gridava addosso di fare attenzione. Non rispondevo, tiravo dritto e non mi preoccupavo neanche di mandarlo al diavolo.
Camminavo e pensavo. Che fossi giù di corda me lo si doveva leggere chiaro in faccia. Avevo come l’impressione che la gente godesse nel constatare che avevo una faccia da funerale.
Senza essermene reso conto, ero arrivato nella piazza principale di quella città che da anni e anni, con una indifferenza pressoché totale, mi ospitava. Portai lo sguardo su un’edicola: i titoli dei giornali non promettevano nulla di buono per il paese, le riviste di gossip invece promettevano rivelazioni agghiaccianti su un po’ tutti i Vip del momento, facessero essi parte o no dell’ultima edizione del Grande Fratello. La piazza era gremita di giovani intenti a farsi un selfie con il cellulare, e tutti pareva avessero buoni motivi per guardare alla vita con fiducia e speranza, nonostante la disoccupazione in crescita e il fallimento di tante aziende, per non parlare poi delle banche sempre chiacchierate e sull’orlo di un tracollo. Con tutta probabilità, di recente non avevano letto un giornale, e se sì, fingevano che le notizie riportate non fossero veritiere, non era altrimenti spiegabile la loro baldanza, tranne forse con una ottusità che la società gli aveva regalato attraverso un sistema educativo che solo gli aveva insegnato a non pensare.
A due passi da dove mi trovavo io, in quel momento una coppia non più troppo giovane stava litigando. Pur non volendolo, non potei fare a meno di sentire lo scambio di reciproche accuse.
“Sei un buono a nulla”, gridava lei severa.
“Non è colpa mia se sono caduto.”
“Potevi fare più attenzione, e invece sei caduto dall’impalcatura, e ti sei spaccato la spalla, e quelli ti hanno licenziato, così adesso dimmelo tu come diavolo facciamo!”
“In qualche modo faremo”, cercò di minimizzare lui.
“Gianni, guardati, sei un cazzo di handicappato! Anche quando guarirai, non potrai più tornare a fare il muratore. La tua spalla è bell’e fottuta. E tu non sai fare niente, hai sempre e solo fatto il muratore. Cazzo, sai a malapena scrivere il tuo nome.”
Sulle prime l’uomo non reagì, poi sbottò, poi tirò un calcio al vento gridando che non era un handicappato.
Immaginavo come sarebbe finita tra loro: lei lo avrebbe lasciato e lui sarebbe finito in mezzo a una strada a chiedere l’elemosina, o forse, senza pensarci troppo su, avrebbe tirato una corda al cielo e ciao.

Presto i negozi avrebbero tirato giù le saracinesche, ma la gente pareva non avesse la benché minima intenzione di scollarsi dalle strade. Uno schiaffo di vento mi colpì in pieno volto, facendomi gelare le ossa: decisi che era ora di tornare a casa. Passeggiare non era servito a granché, i Miei Neri Pensieri continuavano a serpeggiare nella mia testa.
Non era stata una bella giornata e prevedevo che i giorni a venire non sarebbero stati migliori.

Stavo facendo ritorno a casa, quando, a ridosso di una parete, sul marciapiede notai una coppia di senzatetto. Lei e lui stavano sullo stesso materassino, coperti da un piumone usurato e sporco che doveva aver visto giorni migliori. Lei, con un filo di voce, leggeva un brano da un libro dalle pagine ingiallite, e lui ascoltava stringendola a sé. Attorno al materassino avevano accatastato il poco che avevano, l’essenziale per vivere in mezzo alla strada. Non erano giovani, non erano vecchi, erano entrambi sulla quarantina. Un barattolo di latta mezzo arrugginito serviva a raccogliere le elemosine, che in verità erano assenti. Su un cartoncino stazionava una indicazione assai modesta, scritta a caratteri minuti e di un colore indefinito: “Una carità, per favore!”
La voce di lei era debolmente rauca ma dolce. A un tratto lui la baciò sulla fronte.
“La favola nostra è questa”, pigolò lei.
Lui fece un cenno d’assenso con il capo.
Per un momento i miei neri pensieri furono contrastati da una sorta di luce buona che di sicuro proveniva dall’anima di quella coppia indigente ma ricca dentro. Lasciai loro qualche spicciolo, poi, piano piano, tornai a sprofondare nel mio buio interiore.


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