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Il Mostro. Storia di Giacobbe (Il Male peggiore)

Il Mostro. Storia di Giacobbe

(Il Male peggiore)

Iannozzi Giuseppe

Con delicatezza lasciò cadere la penna sulla scrivania. Erano già le due di notte e il sonno faticava a manifestarsi: il suo animo non era disposto a cercare un seppur minimo riposo, nonostante il giorno trascorso a scrivere senza requie.
Neanche sotto la Luna piena l’afa agostana accennava a smorzarsi
Giacobbe si sporse sul balcone, che dava su un anonima strada di pochi numeri, e subito si accese una sigaretta.
Dopo due boccate tossì. Faceva così caldo che era una pena persino dedicarsi per pochi minuti all’ozio del fumo.
Finito che ebbe di fumare, Giacobbe esplose in una risata sommessa.
Ricordava bene tutto, ogni particolare, come se il tempo non fosse mai stato seppellito; e difatti, per Giacobbe il passato era quanto di più reale potesse esserci.
La Luna pareva gli facesse l’occhiolino nascondendosi, per pochi secondi, dietro a una cortina di nuvolette bianche.

Con ali di tristezza le note di Leonard Cohen volavano. Vibravano. Ammanettavano l’anima e il cuore.

Il primo schiaffo non gli fece poi così male. Era la prima volta che una mano si stampava sulla sua guancia. Gli bruciava la pelle, una sensazione che non Aveva mai provato fino ad allora. Doveva piangere? L’istinto gli suggeriva di sì. Il secondo schiaffo lo stordì e suo malgrado sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime. Il terzo lo fece ruzzolare a terra.
Senza successo cercò di rialzarsi, d’istinto mosse dunque verso l’unico angolo libero della stanza.
Era gigante l’uomo che gli stava davanti ed era suo padre.
Non lo sapeva perché era stato punito. Non aveva fatto niente di male.
Non era il dolore a fargli male sul serio, era invece il non riuscire a capire perché suo padre gli aveva fatto bruciare così tanto la pelle.
L’apparecchio tv in bianco e nero, a valvole, era sintonizzato sul primo canale: mandavano il Carosello, ma l’audio non c’era.

Era quasi sempre ubriaco e quando non lo era diceva d’esser malato. Ingollava ogni medicina che gli riusciva di trovare in casa. Urlava, urlava perché non sapeva parlare, non come un padre e un marito in ogni caso. E picchiava perché gli piaceva, Dio se gli piaceva provocare dolore. Con il tempo aveva compreso che il padre lo picchiava e basta, senza un motivo. Gliele suonava di santa ragione per il piacere di vederlo sacrificato in posizione embrionale, mentre lui minacciava di sgozzarlo come un capretto. Lo attaccava al viso, perché amava vederlo sanguinare dal naso, ma non disprezzava di appioppargli calci alle gambe. Urlava che gliele avrebbe spezzate perché lui era un uomo, un vero uomo. Non di rado lo legava al termosifone, si sfilava la cinta dai pantaloni e dava inizio al suo lavoro: non si fermava sin tanto che il bambino non aveva le gambe segate dal dolore e nella gola non aveva più voce per invocare aiuto. Quando le buscava, il cuore gli saltava in petto così forte che il bambino pensava che lo avrebbe vomitato dalla bocca.
Una volta aveva avuto l’ardire di chiedergli perché lo picchiava. La risposta fu di cinghiate date con la fibbia. Il giorno dopo rimase a letto con la febbre alta e le gambe fasciate alla meno peggio.
Per quanto la madre facesse per proteggerlo dalla furia selvaggia dell’uomo facendogli scudo con il suo corpo, di più davvero non poteva fare.

Gli anni si erano accumulati, le cicatrici pure e non erano mai guarite.
Giacobbe odiava il genitore che, a dispetto della vecchiaia e della pazzia, a novant’anni godeva ancora d’una salute inattaccabile. Si era fatto una sua personalissima idea del perché il vecchio non tirava le cuoia: Dio non lo voleva con sé.
Le note di Story of Isaac sfumarono lasciando Giacobbe seppellito nel silenzio, nel buio e nella solitudine.
‘Non ci sarà mai pace per un ebreo. Mai! Anche se è stato liberato dalla schiavitù in Egitto, un ebreo rimarrà sempre schiavo del Passato tentando invano di correggere quel fatalismo che, nel corso dei secoli, gli ha ispessito il sangue’, sussurrò a nessuno: ‘E quand’anche riuscisse a essere più forte del fatalismo, il Passato troverà comunque il modo di tornare con milioni di fruste perché la sua schiena sia, di nuovo, di piaghe a tutti ben visibili’.
In gioventù si era illuso, un po’ come tutti gli scrittori, che la penna fosse più forte della spada, ma già da una lunga pezza l’illusione era scemata per lasciare il posto alla verità: la spada, solo la spada taglia di netto e per sempre, in egual modo, le teste, siano queste sul corpo di stupidi per natura o di falsi sapienti. Dopo anni e anni consumati a scrivere per amore, per fare dell’amore un’idea di rivoluzione nel tempo immortale, Giacobbe scriveva sol più per mestiere accettando a capo chino di intascare il poco che gliene veniva; scriveva su commissione, perlopiù banalità di cui gli importava un bel niente. Scrivere, seppur con un ritardo non perdonabile, lo aveva capito che era soltanto un mestiere come un altro, non diverso da quello di risuolare scarpe con un po’ di colla e una manciata di chiodi; per Giacobbe scrivere significava sol più portare, per magra che fosse, la pagnotta a casa.

Con le donne non gli aveva detto meglio. Contava cinquantacinque anni e ne dimostrava almeno venti di più. A un certo punto, intorno ai trenta, ci aveva dato un taglio cominciando a prendersi cura di sé poco o niente. Graziella lo aveva lasciato, così, su due piedi. Il perché glielo spiegò, più o meno, in due parole: “Giacobbe, posso amare solo un uomo che abbia ambizione e tu hai davvero poco da offrirmi”. Giacobbe non aveva replicato: era vero, il suo portafogli era quasi sempre sgonfio e Graziella anelava a qualcosa di grande, a un amore che non le facesse mai mancare viaggi in paesi esotici e soggiorni negli alberghi più in. L’aveva lasciata andare, spegnendosi nell’anima poco a poco.
Non era bello Giacobbe, teneva stampata in faccia l’espressione tipica dell’ebreo, del fatalista a ogni costo. E a letto non era affatto un drago. Non ci sapeva fare e non perché non volesse farlo bene l’amore, ma la ferita, che da anni e anni si portava dentro e che mai si era rimarginata, lo frenava: gli prendeva il panico, un panico che sovrastava la passione che provava per la donna. Temeva che il suo flauto d’amore potesse portare il male una volta dentro la bellezza femminile. Il panico lo assaliva e il flauto in mezzo alle gambe gli si afflosciava presto. Perché fosse vittima d’una simile sciagura, Giacobbe lo sapeva bene, pur riuscendogli difficile ammetterlo anche e solo a sé stesso. Il passato, il maledetto passato gli aveva ispessito il sangue. Consapevole d’esser sgonfio di portafogli e con addosso una tara psicologica ben pesante, a un certo punto della sua vita, seppur ancor molto giovane, da fatalista qual era si era arreso non cercando più di avvicinare una donna. Prese così a masturbarsi alla tenera età di trentun anni, proprio come quando era un imberbe; però, dopo un po’, la noia lo prese, ché gli pareva sconcio alla sua età menarsi da solo il flauto.

Rientrò in casa, lasciando aperta la porta che dava sul balconcino in pietra.
Sospirando inforcò gli occhiali con le lenti bifocali sul naso aquilino.
Perché si ostinava ancora a usare la penna a sfera quando nessuno la usava oramai più da un lungo pezzo? Perché gli occhi gli dolevano a stare davanti a un monitor: per scrivere le sue memorie, che comunque nessuno avrebbe mai letto, la penna andava più che bene così come era più che sufficiente la lampadina di poche candele che illuminava i suoi fogli riempiti d’una calligrafia irregolare, simile a minuscole impronte lasciate da centinaia di scarafaggi.
Si passò una mano fra la folta zazzera pressoché bianca, poi si lisciò il pizzetto sul mento pensando che di più non poteva fare per quella notte. Aveva scritto centinaia di pagine nel corso degli anni, raccontando per filo e per segno la sua vita, una vita del tutto insignificante; e ogni notte si ostinava a vergare altre pagine. Un moto di rabbia lo sorprese portandolo a menare un violento schiaffo contro la pila di fogli in bilico sulla scrivania. Senza un lamento caddero ai suoi piedi e lì restarono per buoni cinque minuti prima che Giacobbe riuscisse a sbottare: “Prima o poi, più prima che poi, voi, maledette memorie, mi seppellirete!”
Si aggiustò il borsalino nero sulla testa, aprì la porta di casa e fuggì nel cavo della notte.

Quel giorno erano andati a passeggiare in un prato. Il sole era alto e l’estate era un tripudio di colori pastello. In mezzo all’erba alta le mucche stavano placide e il bambino correva felice, libero. Correva nell’illusione che dopo la lunga affannata corsa, quando le forze non lo avrebbero più retto, sarebbe stato maggiore il piacere di fermarsi per riprendere fiato e svuotare la vescica; perso com’era nella corsa, non si era reso conto che il padre lo tallonava gridandogli contro di fermarsi e di fermarsi subito. Con il fiato in gola, alla fine si fermò esausto e subito tirò giù la zip dei pantaloncini per fare la pipì. Dietro di lui il padre ansimava: paonazzo in volto sembrava dovesse prendergli un coccolone da un momento all’altro. Tranquillo il bambino prese a innaffiare l’erba, sicuro d’esser solo. Quando poi, con energica pesantezza, la mano del padre lo accarezzò sulla testa, il bambino ebbe un sussulto.
“Ti avevo detto che dovevi fermarti, brutto bastardo! Non hai obbedito.”
Era forse la frase più lunga che fino ad allora aveva sentito uscire dalla bocca di quell’uomo.
Con voce pigola disse che gli dispiaceva, che non aveva sentito.
Il padre lo osservava malevolo: il bambino era sicuro che gliele avrebbe suonate di santa ragione.
“Ti sei bagnato i pantaloni”, osservò l’uomo.
“Mi dispiace!”
“Dispiacersi non serve a niente.”
“Mi dispiace”, ripeté senza sapere cos’altro dire.
“Vieni qui, sporcaccione che non sei altro.”
Tornando verso casa il bambino piangeva: le lacrime gli rigavano le gote infiammate di paura. Non aveva mai provato un dolore così atroce: sotto gli bruciava da morire. Quelle unghie affilate, quei denti disposti in un sorriso maligno non li avrebbe dimenticati mai, così come il dolore e l’umiliazione.

Buio e afa, non c’era altro in quella città.
Erano anni e anni che la passeggiava in lungo e in largo, a ogni stagione, e mai una volta che avesse incontrato degli Ophanim o dei più modesti fantasmi.
Sotto gli bruciava ancora. Nell’anima il ricordo bruciava.
Gli aveva tirato su la zip dei pantaloni e glielo aveva preso in mezzo fra i denti.
Lui non aveva potuto opporsi.
Le mani unghiute dell’uomo avevano pinzato il tiretto e zac!
Lo aveva fatto apposto di prendergli il pisello fra i denti della zip, proprio sul glande. La cicatrice, uguale a una piccola macchia scura, la si poteva ancora vedere a occhio nudo, anche se non era quella a far male.
Gli aveva fatto del male di proposito, guardandolo negli occhi per non perdersi una sola lacrima del suo dolore.
“Ecco cosa succede ai bambini che disobbediscono.”
Cos’altro aveva detto?
“Non lo devi mai usare mai. Mi hai capito?”
Lui aveva annuito o forse no, questo particolare non lo ricordava. Ricordava però la voce stridula dell’uomo che gli diceva che il suo arnese era qualcosa di brutto: “Non lo devi usare mai. Ha-satan denuncerà a Dio tutte le tue azioni, figliolo!”
La colpa era sua, soltanto sua, se si frenava nel timore di poter fare del male a una donna con il suo flauto. Non poteva perdonarlo, non poteva proprio. Gli aveva lasciato dentro una cicatrice troppo profonda, un handicap mica da ridere.
“Ho il sangue ispessito, per sempre!”, vomitò nella notte Giacobbe.
Non si era reso conto che nel suo vagabondare era arrivato nei pressi del nosocomio dove suo padre trascorreva i suoi giorni, mentre a lui gli toccava di pagare la retta perché dottori e infermieri si prendessero cura di lui.
Entrò nell’ospedale.
Alla reception una donna piuttosto in carne, annoiata e mezzo addormentata, gli fece notare che era tardi.
“Voglio solo vedere il vecchio”, disse con voce aspra.
La donna sbadigliò e Giacobbe arrivò indisturbato sino agli ascensori.
Suo padre, o il Mostro come lui lo aveva ribattezzato, stava nella camera numero 12, all’ultimo piano.
Non bussò alla porta: poco ma sicuro che il Mostro non dormiva. Ed infatti Yussef, con addosso soltanto le mutande, stava a gambe incrociate sul letto a pregare Dio perché lo lasciasse vivere il più a lungo possibile.
“Giacobbe, dovevi morire tu e non Josef Mengele”, urlò Yussef.
Dicevano che aveva la demenza senile, ma Giacobbe stentava non poco a credere ai medici: quell’uomo era cattivo per natura prima che malato.
“Perché?”
Il perché Giacobbe lo conosceva bene.
“Perché sì”, gli rispose Yussef.
“Sei il Mostro”, constatò Giacobbe con amarezza e disprezzo.
“Lo dici sempre…”, ribatté il vecchio incartapecorito scoppiando a ridere con bocca sdentata.
“Anche tu lo dici sempre, ogni volta che vengo a trovarti. Dio non ti vuole, lo capisci?”
“Dio vuole che io viva per sempre, idiota.”
“Dio conosce i tuoi peccati, uno a uno, non ti illudere.”
“Vattene, vattene maledetto. Dovevi morire, dovevi morire”, urlò il Mostro, Yussef, quel padre snaturato.
“Tu sai soltanto odiare il sangue del tuo sangue. Sei fuori da ogni grazia.”
“Vattene. Ho detto che devi andartene. Vattene, maledetto”, prese a urlare il Mostro, con la bava alla bocca.
“Me ne vado, non c’è bisogno che gridi così, come un dannato.”
Il Mostro sbavava di rabbia: da ogni suo poro trasudava un odio arcaico, impossibile da stornare.
“Vattene. Avrei dovuto ammazzarti”, disse ancora, fissando il figlio con i suoi occhietti cattivi, lacrimosi per via delle cataratte.
“Non ci sei riuscito però.”
“Per colpa di tua madre.”
“Tu non la meritavi una donna come la mamma.”
“Meritavo te, Giacobbe. Meritavo un idiota.”
“Perché lo hai fatto?”
Il Mostro tacque per un paio di secondi, poi sbottò: “Ha-satan denuncerà a Dio tutte le tue azioni, non sarai mai padre, maledetto.”
Giacobbe uscì dalla stanza senza fiatare. Si sentiva sconfitto, morto dentro, e non era una novità da troppi, troppi anni: il Mostro lo aveva segnato per sempre. Per sempre.

Era ormai quasi l’alba, e il caldo agostano, nel corso della notte, invece di scemare si era fatto più soffocante.

E infine si fece l’alba, atroce nel suo fulgore, troppo vera perché lo sguardo la potesse sostenere.
Si guardò i palmi delle mani: la linea della vita, la linea della morte, e calli inutili.
Che cosa gli rimaneva? Niente. La scrittura lo annoiava, scriveva sol più per non morire di fame.
Il sole già bruciava sul Danubio. Gettò lo sguardo sul fiume livido d’un rosso innaturale. Lingue di fiamma lo percorrevano in lungo e in largo.
Con voce roca, avvelenata da migliaia di sigarette, prese a canticchiare: “And if you call me brother now,/ Forgive me if I inquire,/ “just according to whose plan?”/ When it all comes down to dust/ I will kill you if I must,/ I will help you if I can./ When it all comes down to dust/ I will help you if I must,/ I will kill you if I can./ And mercy on our uniform,/ Man of peace or man of war,/ The peacock spreads his fan.” (*)
Lungo i marciapiedi le donne, che facevano il mestiere per abitudine o perché costrette, gli lanciavano occhiate furtive: Giacobbe non se ne curava. Se solo non fosse stato un codardo, uno che viveva con il sangue ispessito per vedere i giorni trascorrere davanti a sé punto e basta, forse avrebbe dovuto dedicare loro almeno un sorriso di circostanza.

(*) “E se adesso mi chiamate fratello,/ Perdonatemi se chiedo informazioni:/ “Ma secondo il piano di chi?”/ Quando tutto sarà ridotto in polvere/ Vi ucciderò se devo farlo,/ Vi aiuterò se posso farlo./ Quando tutto sarà ridotto in polvere/ Vi aiuterò se devo farlo,/ Vi ucciderò se posso farlo./ E abbi pietà della nostra uniforme,/ Uomo di pace o uomo di guerra,/ Il pavone spiega la sua ruota.” (Story of Isaac – Leonard Cohen – 1969)


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