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Storie d’amore e di morte a San Valentino

Storie d’amore e di morte a San Valentino

Iannozzi Giuseppe

Rendez-vous (Storia d’amore e di morte)

Aspettava il pullman, seduto sulla panchina tenendo in braccio una rosa dallo stelo particolarmente lungo. Il giovane stava vivendo il suo primo amore: biondo, quasi pallido, le gote non portavano ancora i segni della prima barba. All’improvviso si sentì uno stridore ferroso. Non era il pullman, bensì un tram che aveva frenato: al giovane bastò buttare l’occhio al di là della strada, delle auto ferme al semaforo, per vedere il grosso muso di ferro del tram. Non si scompose.

Il cielo era d’un azzurro perfetto e le grida della gente non gli davano poi fastidio: quel giorno si sentiva in pace, se non sicuro di sé stesso, inebriato alla sola idea che presto avrebbe dato via la sua prima rosa. Il semaforo continuava a passare dal rosso al giallo al verde, ma il tram non ripartiva: le auto si erano arrestate in maniera scomposta invadendo la linea di mezzeria. Si era formato un capannello di persone: il muso del grosso tram era stato invaso dalla curiosità morbosa di semplici passanti e curiosi di professione. Il giovane fece per aguzzare la vista, ma un barbaglio di luce gli ferì gli occhi: rimase cieco per qualche secondo, poi, finalmente, la vide, una sottile linea di sangue, color rubino come di colomba. E comprese, lasciando cadere sull’asfalto la lunga rosa, mentre col cuore che gli s’era bloccato in gola, invano, adesso in piedi su gambe tremanti, prossimo allo svenimento, tentò di lanciare un urlo più grande di lui.

I.

Con la bocca ho ucciso
perché non avevo pane;
e con gli occhi ho ucciso
chi m’aveva reso pena
vivere il digiuno
sotto la frusta della schiavitù.
Per questa luetica verità
m’hanno condannato
a cent’anni di solitudine,
temendo che il vento
portasse lontano il fiato,
quello della bocca
e quello dabbasso soffocato.

II.

Sempre romantica
lascia cader fatidica
la rosa;
accanto al mio petto
or riposa,
rossa,
di lacrime bagnate,
felice d’esser stata
dalla tua bella mano
data al riposo.

III.

S’è realizzato il sogno;
disciolto quel velo
che ci avvolgeva,
sicché ora a nudo
fa mostra di sé
bellezza
che non vuol esser
nomata

IV.

Non dire niente
Perfettamente
restiamo
al di là
con la mente;
parla per noi
dall’anima
la passione

Scacco matto

Sei quel che sei,
hai la faccia che hai

Sei quel che hai,
fra pioggia e neve
non ti basti mai

Sei quel che fai,
ogni cosa a metà
fra i bianchi e i neri:
e un infarto casomai

…e mai una goccia di poesia
per un po’ di umanità

Sei tu, sempre e ancora tu
che, seppur lungo e disteso
nell’oscurità della bara, bari

Così ciao grazie e arrivederci!

V.

Guarda gli uccelli,
in cielo disegnano un cerchio
E’ giusto il tempo
per fare il colpo grosso

Vuol sentirsi dire che è bella
Non capisci che è una donna?
Portala al buio nel pagliaio,
non ti curar di cercar l’ago;
è bella, forte vuol gridarlo
all’orecchio tuo tagliato,
non capisci?

VI.

Ha tirato le cuoia il Nazareno
Sulle dune del negro deserto
si mordono la coda i serpenti.
si fan l’un l’altro l’occhiolino
gl’avvoltoi; e l’occhio butta
il saggio al di là dell’orizzonte:
neanche domani la pioggia,
ma così forte nitriscono i cavalli
pria di cader nell’ombra loro seppelliti

VII.

Dal Nulla l’Arte hai creato
per esser presto dimenticato
Nell’intento tuo sei riuscito;
non uno ricorda oggi chi fosti,
qual impeto t’animava ‘l core

VIII.

…e poi dar fuoco al violino
e alla rosa che l’ha suonato,
continuare ad andare avanti
perdendo di vista la mèta
e la strada; e continuare così
e sempre bruciare sul nascere
il futuro
e la sfortuna sua compagna;
e poi, e poi non accecarsi mai
nemmeno con una domanda…

IX.

Sotto il pugno del sole,
sotto il ghigno della luna,
dei carcerati è la ronda
aspettando la forca
e nessuna benedizione;
la terra che di tutti è sigillerà
degli sconfitti la tradizione

X.

Non hai ancor capito,
prostitute e quotidiani,
assassini e raccomandati,
pagliacci preti e scoregge
si portano avanti
ignorando di Coltrane il fegato

Non hai ancor capito,
rigetta l’OM,
sparati una Gomorra in vena,
insanguina la giarrettiera,
dimentica
o alimenta l’incendio mediatico:
Buddha giace riverso fra i rifiuti,
beve vino e sbadiglia in silenzio

Dimentica
o alimenta l’incendio mediatico
O lasciati tutto questo alle spalle,
non c’è niente che tu possa fare
Tutto è già stato inventato,
tutto è già stato sfruttato
Quando sei stato quaggiù scagliato
nessuno te l’ha detto chiaro e tondo
che saresti finito fra cartoni
e copertoni bruciati
Rompi il cerchio della ronda,
non è tua la colpa, non è tua…

XI.

Svegliami adesso
prima che mi muoia
il coraggio in petto
e il sogno che ho nutrito
fino a bruciare
dell’anima l’essenza fatale

Svegliami
Immagina un bambino,
immagina un uomo
che è stato ferito
più e più volte
da un eterno ritorno

Svegliami
sul tuo sorriso:
ubbidiente,
uguale a un monaco
spezzerò
la catena delle vite
e di questa solitudine

XII.

E sì che di tempo
sotto l’impeto degl’anni
ne è trascorso tanto,
non però la bionda bellezza
che alle lancette dell’oggi
il fermo ha imposto

XIII.

Sia con te l’alba e la pace:
possa il sorriso sbocciare a fior di labbra
quando mette su la tormenta aliti di vento
perché siano violentati i petali nuovi
alla vita destinati

XIV.

Sveglia Buddha all’alba
il sorriso bianco
dell’anima tua bambina:
a oriente butti lo sguardo
lasciando sia il Sole
coi suoi raggi d’oro
a pettinare la scompostezza
della corvina tua nuvola

E sei tu del Sole Ministra,
femminilità in battaglia
che nell’acqua del fiume
annacqua degli specchi
gl’inganni cotidiani

XV.

Nel sorriso mio sì serio
la strada di Kerouac
in cerca del Dharma,
di quei vagabondi
che la Mezzanotte affrontavano
a lume di candela
con un preghiera Incandescente
e una infinità di jazz

XVI.

Ancora sorridi
uguale a una bambina
che in una pozzanghera
scopre il cielo riflesso
e milioni di stelle accese

Ancora piangi
per una foglia al vento,
per una farfalla
che un volo contrario
ha intrapreso

Ma a piè uniti un oplà
e quel che c’era
subito non c’è più

Sulla cattiva strada

Te lo dissi al primo incontro,
“non sono quel tipo d’uomo che si fa prendere in giro”
Te lo dissi chiaro alzando l’indice al cielo
che non avrei fatto il gioco delle tre carte
Te lo dissi in maniera spicciola
vuotando le tasche, guardandoti in faccia,
“ogni uomo ha un buon motivo per bere vino,
ogni disgraziato ha un motivo per non credere”

Il mondo è pieno di tassisti che girano in tondo
con una quarantacinque al posto del portafogli
A ogni angolo un pappone e un giudice armato;
infrangono la legge perché non conoscono stelle
Questa città è piena di colpi accidentali,
di auto che sfrecciano veloci più dei proiettili
investendo il verde il rosso il giallo

L’Egitto è lontano e di Giuseppe è da tempo
che non si han notizie; ma le ragazzine,
vergini o no, battono le strade da mane a sera
in cerca d’un santo che le salvi o le condanni
E l’Ebreo errante inganna il tempo,
scrive libri sul Giudizio Universale,
brucia fiori e croci vicino ai semafori,
cerca di non farsi mancare niente d’importante
A chi per un momento inciampa sui suoi passi
indica la cattiva strada senza pensarci su

Te lo dissi al primo incontro,
“non sono quel tipo d’uomo che gira a vuoto”
Te lo dissi senza girarci in tondo
che non mangio pane azzimo con questo casino
Te lo dissi con puntualità e fermezza,
bevendo e fumando, invitandoti a tacere,
“ogni uomo ha un buon motivo per sparare,
ogni figlio di buona donna pecca e ci prova”

Te lo dissi al primo e ultimo incontro,
“con una carezza l’uomo lo fa fuori la strada”

Dove le strade si tagliano

Aspettavano tutti una lettera mai arrivata
Aspettavano, la Bibbia in una mano,
il coltello ben affilato nell’altra
per scorticare dal corpo infedele la scabbia

Aspettava di rompere il guscio dell’uovo
Un solo pensiero in testa, divorare l’anima
Aspettava affilando le unghie sulla lingua
Dove per colpa o per destino le strade si tagliano
formando una croce di polvere, lui aspettava
perché i film moderni non gli piacciono affatto

E aspettando tutti perirono eccetto lui
che in tasca sol tiene un foglio bianco

Su Ponte Vecchio con il Conte

Era più pallido del solido.
Nonostante il dolore agli occhi, era riuscito a portare la sua gobba su Ponte Vecchio. Mi sentii in imbarazzo di fronte alla figura del poeta, intabarrato, più nero d’un corvo.
“Salute, Conte!”, dissi con malcelato fastidio, perché sì, devo ammetterlo, la vista di quell’uomo mi dava profondo fastidio.
“Salute a Voi”, squittì.
“State forse poco bene?”, cercai d’informarmi.
“Perì l’inganno estremo,/ ch’eterno io mi credei”, declamò Giacomo.
“Niuno è imperituro, persino Odisseo alla fine perì, nonostante avesse in pieno centrato Polifemo, l’ombelico del mare e scacciati i Proci.”
Giacomo fece un cenno d’assenso col capo tossendo forte. Per un momento temetti che il mal caduco lo ghermisse proprio sotto i miei occhi.
Invero non saprei dire, non con assoluta certezza, perché il Conte m’ispirasse al contempo ammirazione e ribrezzo. Così magnifico nello stile, eppur così catastrofico nell’imputare alla natura l’origine di tutti i mali dell’uomo. Come tutti ero al corrente che il Conte mai era stato con una donna. Era forse questo il motivo che me lo rendeva inviso?
Con insofferenza Giacomo distolse lo sguardo dalla mia persona per portarlo sullo specchio dell’Arno. Ebbi l’impressione che la sua anima s’involasse per chissà quali tragiche visioni. Se ne stava lì, impietrito, reggendosi con il bastone e la gobba sempre più bassa. M’era quasi impossibile guardarlo dritto negl’occhi. Eppure di occasioni buone al Conte non ne erano mancate per andare con una donna, nonostante le tante restrizioni che la salute e la famiglia gl’imponevano.
“Un sorbetto!”, gridò all’improvviso il Signor Conte.
“Non dovreste”, lo rimproverai tenendo un tono di voce basso.
Il Signor Conte mi guardò di sguincio, giusto per un attimo, con i suoi occhietti mentre le labbra gli tremavano insieme a tutto il corpo.
“Mi fate compagnia?”
Non me lo aspettavo, nutrivo difatti tema che il mio rimprovero lo avesse mal disposto. Ricusai l’invito, accampando diverse scuse. Ci salutammo senza troppi convenevoli. Lontano che fu, pensai a quell’uomo, alle malattie che si portava dentro, soprattutto nell’anima e tosto fui invaso da una zaffata che mi fece saltare lo stomaco in gola: Giacomo non aveva fatto un solo bagno completo in tutta la sua vita, per via della salute sì cagionevole, perlomeno così si diceva nei salotti letterari.
Qualche tempo più tardi venni a conoscenza del fatto che Giacomo s’era spostato a Napoli, in un periodo non propriamente felice: il colera dilagava e molti finivano sepolti vivi, nelle fosse comuni, sotto cinque piedi di terra. In cuor mio, pur non amando il Conte, pregai che un dio distratto e disgraziato, che un qualunque dio lo proteggesse.

Leggi qui la recensione di Marco Zunino

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