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Luciano Canfora - Demagogia



Vocabolo di alterna fortuna, sbocciato nella classicità greca e poi affiorante nelle diatribe della moderna politologia, caricato di coloriture dialettiche diverse secondo i periodi storici e le conseguenti inclinazioni del pensiero, la sua portata è tutt’altro che minoritaria nell’orientare il concetto di democrazia. Il significato mutevole, nonché problematico, di una parola che reca in sé l’idea di popolo e quella del comando, di un potere da esercitarsi attraverso e sul popolo, viene esplorato in queste pagine dal grecista Luciano Canfora. Dal teatro antico a Tucidide, da Hobbes approdando alla rivoluzione francese e a Gramsci il volume analizza pregi e difetti del fare politica, di chi si propone come guida e interprete Delle Aspirazioni Popolari, senza trascurare in tale confronto l’ingresso nell’orizzonte contemporaneo della massa.
Indicando semplicemente la funzione di amministratore Delle cose pubbliche in un ruolo in vista, la prima attestazione si riscontra nei Cavalieri di Aristofane, commedia rappresentata nel 424 a. C., in cui Demo, personaggio chiave in cerca di riscatto, recupera la passata potenza com’era al tempo di Temistocle e Aristide. E tuttavia è sintomatico che l’opera denunci la miserevole sorte della demagogia, in una sostanziale identificazione con l’attività politica, da appannaggio dei bene educati a strumento caduto nelle mani di persone ignoranti. Il “demagogein” non sarebbe quindi di per sé un disvalore, ma l’autore ne porge agli spettatori un ritratto impietoso, da cui emerge la bassezza dei mezzi quale dominante. A ciò si aggiunga il rilievo dato da diversi autori alla pratica della parola ingannevole, alla distorsione della retorica, strumento degradato a suscitare nel popolo oscure pulsioni e a trascinarlo sotto il loro effetto. Aristotele nella Costituzione di Atene ravvisa i segni dello scadimento della demagogia proprio nel modo trascurato e irrispettoso di rivolgersi all’assemblea. La fase discendente della classicità vede una critica radicale del discorso politico e in ciò il demagogo si pone come figura contesa, destinatario della stigma reciproca tra forze che si contendono il consenso.
Tali nozioni suscitano indifferenza nel mondo romano, che qui non prende a prestito il greco come invece avviene per una fetta cospicua di terminologia politica. Dopo un tempo piuttosto lungo in cui poco si riflette sull’essere demagogo, ne riscontriamo nuovamente traccia nelle dissertazioni di Hobbes e Swift, per l’uno equivalente di oratore efficace, per l’altro di “leader in a popular state”, capo in una città democratica, citando gli exempla di Demostene e Cicerone. Anche in questo caso demagogia e tecnica della parola risultano elementi strettamente intrecciati.
In seguito alla Restaurazione si definiscono in blocco demagoghi i capi rivoluzionari con intento chiaramente denigratorio, inchiodandoli al ritratto di agitatori, tiranni e pericolosi sobillatori delle aspirazioni popolari. Viceversa, ancora una volta nel solco di quello scontro dialettico di cui si è già detto, la prosa giacobina taccia di demagogia i caporioni delle rivolte sanfediste. Alla voce «Démagogie» del «Grand Dictionnaire» firmata da Pierre Larousse (volume VI, 1870) si parla in senso puramente etimologico di “guida del popolo”, rilevando subito dopo la difficoltà del demagogo nel trasmettere al popolo il giusto indirizzo, subendone semmai il movimento piuttosto che imprimerlo; «a seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini che si posero alla testa della rivoluzione sembra di vedere dei fanciulli appesi a una locomotiva», scrive. Causa l’impressione suscitata dai fatti del maggio-giugno 1848, l’articolista paga pegno al conservatorismo del momento inquadrando la demagogia nell’eccesso di una fazione popolare: allora il resto del corpo civico impaurito invoca il despota, al tempo Luigi Bonaparte. È evidente come il concetto supponga la strumentalizzazione del popolo, soprattutto gli strati meno consapevoli.
Nel primi trent’anni del Novecento si assiste allo scontro aperto tra ideologie di destra e di sinistra reciprocamente impegnate ad accusarsi di ricorrere a pratiche di stampo demagogico: «una tale polivalenza della categoria così come la sua ritorsione in più direzioni meglio si intendono e meno sorprendono, se si considera che essa ha di mira soprattutto l’enucleazione e la denuncia di un modo di far politica piuttosto che una determinata politica», nota l’autore. Nello scenario attuale potremmo registrare un’ulteriore generalizzante sovrapposizione con il termine populista che ha accentrato attorno a sé il dibattito pubblico, di fatto infiltrando e contaminando in via trasversale lo spettro delle espressioni politiche.
Se è vero, come teorizzava Gramsci, che sussiste una “demagogia superiore” che «non considera le masse umane come strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera ‘costituente’ e costruttiva, che ne è oggi di tale processo virtuoso? Quali spazi può ancora occupare l’autentica rivendicazione popolare nell’ottundente neutralizzante scenario dei populismi e dei sovranismi che di queste aspirazioni si nutrono, salvo passarle in rassegna velocemente e non includerne la spinta organica alla conquista di potere contrattuale? 
Certo vi è uno stallo nel coinvolgimento di coloro che si trovano ai margini. Lesperienza di Carlo Levi, confinato nel Sud Italia durante il fascismo, la sua inappellabile denuncia delle masse esterne ed estranee alla corrente della storia, trascinate sì, ma non partecipi, non ha avuto seguito nel mondo che ha sostituito alla dittatura militare quella del mercato. La strada aperta dalla Resistenza, anziché essere occupata dal pieno risveglio di coloro che erano stati fino a quel punto i confinati della storia, anziché stimolare in costoro quel potere attoriale da secoli latitante dalle vicende del mondo, si è inaridito nell’incontro con una forma integrale di demagogia, quella della mercificazione. Così Luciano Canfora: «Qui si è compiuto il grande salto dalla demagogia rozza, primitiva, demiurgicamente e arcaicamente affidata al superuomo di tipo mussoliniano formato sulle pagine di Le Bon e fiducioso nelle proprie sperimentate capacità di fascinatore di masse, alla demagogia anonima e capillare, totalizzante proprio perché anonima».
In uno scenario complesso, dove si assiste alla crescita del divario, a un senso di frustrazione proporzionale alla coscienza di non essere rappresentati, la cosiddetta politica ‘alta’ o tradizionale che dir si voglia, si aggira incerta, per molti aspetti impotente. Nella deriva di società sempre più demagogiche, parallela all’indietreggiare di società a base ideologica, mentre le risorse scarseggiano parimenti alla volontà politica di governare le forze che minacciano la coesione sociale, per scongiurare l’esplosione di una violenza fuori controllo, realisticamente paventata dallo studioso, è necessario un risveglio delle coscienze addormentate, la ripresa di quella dialettica organica e costituente che rimetta in moto il processo democratico e di emancipazione delle comunità che vi stanno alla base.          

(Di Claudia Ciardi)


Edizione consultata:

Luciano Canfora, Demagogia, Sellerio, 1993



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