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La realistica eleganza di Fedora

La realistica eleganza di Fedora
Fermata Spettacolo

Compose Fedora, il giovane Umberto Giordano, un paio d’anni dopo il trionfo d’Andrea Chenier, pur se l’aveva da tempo in mente: era rimasto infatti profondamente colpito dalla rappresentazione in teatro della Fedora interpretata dalla grande Sarah Bernhardt e ne aveva chiesto i diritti, ma Victorien Sardou, che ne era autore, li aveva naturalmente negati a quel giovane musicista spiantato.

Fu proprio grazie al successo dell’Andrea che il francese si decise finalmente, rendendo possibile la realizzazione di quel sogno giovanile. Somiglia poco, in apparenza, quest’elegante figlia del compositore della Capitanata e nipote del reticente francese, all’irruente primogenito, e solo la fraintesa etichetta d’opera verista, appiccicata per pigrizia ad ogni opera vedesse la luce in quel fin de siècle così potentemente influenzato dall’enorme risonanza di Cavalleria e Pagliacci, potrebbe stabilire, per l’ignaro ascoltatore, un legame tra le due opere, che non sia sol quello della contemporaneità. Nell’una opera, ad un secondo sguardo, tuttavia, sembra veder riflettersi l’altra e, come in uno specchio, osservare i difetti dell’una trasformarsi in pregi e viceversa: tanto prorompente, esaltante e sicura nel suo slancio l’una, tanto espressiva e pensosa, quasi introversa l’altra, a tratti perfino tronfia nella sua retorica un po’ vuota la prima, quanto sobria ed delicata, benché del tutto improbabile la seconda.

Più vicina potrebbe sembrar, Fedora, alla cugina – nipote anch’essa del famoso francese – Tosca, che Puccini diede alle scene due anni ancor più tardi, nel trapasso del secolo; ma maggior somiglianza presenta con l’ancor più giovane Adriana Lecouvreur, del fraterno amico del Giordano, quel Francesco Cilea compagno di studi a Napoli: figli, entrambi, del disagio esistenziale ed inquieto del fine secolo, segnate, le opere loro, dal cessar delle romantiche certezze e dall’ansia quotidiana di cercarne nuove. Così, al di là dell’intrinseco valore delle opere citate – certo diverso, pur non volendo stilar graduatorie inutili e dannose – bisogna ammettere che, se Andrea e Tosca, da una parte, riassumono in loro le precedenti certezze, e appaion ben più solide nelle loro evidenze, pur nella tensione della dubbiosa ricerca, manifestano Adriana e Fedora senz’altro di più l’amor del frammento, si spezza la musica e si frantuma, riuscendo solo a tratti a metter l’ali, non per sua propria incapacità o difetto, ma per sforzo di respirare aria difforme e fresca, pagando così il prezzo della scoperta modernità, sapor d’incertezza e vaga ebrezza d’abbandono. Non stupisce che tanto piacesse a Malher – che parimenti odiava Tosca.

E dunque, per sempre liquidata l’etichetta verista – del resto, si discute oggi se, perfino per le due citate opere caposcuola, si possa a ragion parlare di verismo nel teatro musicale, e pertanto sembrerebbe superfluo discuterne per Fedora – rimane l’impressione un po’ bislacca d’un’opera che comincia come un giallo, prosegue come un racconto rosa e termina da romanzo d’appendice, dotata tuttavia di mirabili tempi teatrali, studiati e perfetti perché più risalti la sensibilità della diva protagonista incline al mélo: occorre tuttavia abile mano registica perché il tutto non scada nel ridicolo, o quantomeno perché non risulti lo spettacolo orribilmente datato, legato com’è ad una sensibilità lontana e morta.

Fedora regia di Lamberto Puggelli – ph. Laura Ferrari

Lamberto Puggelli creò l’allestimento in scena qui al San Carlo in questi giorni, nel 1993, mettendoci tutta l’arte di cui era capace e la passione che gli derivava dallo studio attento della partitura, da un lato, del tempo in cui il fato l’aveva destinato a vivere, dall’altro: come per l’Andrea Chenier (di nuovo!) di recente (ri)visto qui a Napoli, la sua regia, ripresa da Salvo Pirro, non tradisce l’intenzione dell’autore, pur rendendola fruibile da noi che viviamo nell’oggi.

Non verismo, dunque, ma scenico e sano realismo, assecondato da scene e costumi disegnati da Luisa Spinarelli, ne costituisce il nucleo fondante, la ragione da cui partire: una grande piattaforma rotante al centro del palcoscenico costituisce il cuore della scena, mentre sul fondo grandi proiezioni caratterizzano la diversa ambientazione dei tre atti. Uno dei problemi, infatti della messa in scena dell’opera è il rischio di perdersi tra ambienti così diversi ed eterogenei come San Pietroburgo, Parigi e la Svizzera: la soluzione descritta riconquista l’unitarietà della scena e della piéce; la rotazione lenta della piattaforma, poi – impercettibile, di fatto, per il pubblico, aumenta di velocità solo nel corso del terz’atto, in uno con la concitazione degli eventi conclusivi – diminuisce la staticità della rappresentazione, insieme allo sfoltirsi dei mobili e delle suppellettili poste sulla pedana stessa, come progressivamente procedendo ad una incipiente e graduale purificazione.

Pure i costumi e gli accessori seguono la stessa evoluzione, passando dai rinvii delle tonalità dell’azzurro e dei brillii degli ori e dei gioielli, alla purezza dei costumi panna dell’atto ultimo, riflesso non scontato del conquistato candore delle anime dei protagonisti. Per sottrazione e sobrietà procede pure Asher Fisch, cui è affidata la direzione musicale: pur sottolineando la ricchezza dei colori timbrici delle variegate atmosfere che la partitura attraversa, pur conservando la caratteristica, così precipua di Giordano, di sottolineare, enfatizzandoli, i gran momenti della vicenda, con importante e innato senso del teatro, ha però sistematicamente proceduto a sfrondar la partitura di tutti i punti esclamativi, i singhiozzi e le urla, i sussulti e i pianti, le risate e gli sghignazzi che così grandemente hanno ammorbato l’esecuzione delle opere della Giovane scuola per tanto tempo, in cerca dell’effetto facile da Grand Guignol e dell’acuto che t’annichilisce, retaggio d’un passato che speriamo non torni più, col ricorrere capriccioso delle mode. Il risultato si traduce in quieta espressione d’eleganza misurata che pubblico e critica, di fronte all’evidenza, non han potuto fare a meno di notare e sottolineare.

Come l’omonima pièce da cui promana, pure la Fedora in musica è opera per primadonna, e la Bernhardt ha trovato emule di gran carisma nei teatri d’opera, prima la Callas, alla Scala, pur se per una stagione sola, di cui non rimane testimonianza sonora; poi la Kabaivanska, dal tratto aristocratico, e la Scotto, dalla superba dizione, fino alla Freni, di cui resta una registrazione filmata proprio dell’edizione scaligera per la regia di Puggelli (e la direzione di Gavazzeni). Rinnova, dunque, Fiorenza Cedolins, che l’interpreta per la prima volta, questa tradizione di regine che nel tempo si sono succedute, donando anch’essa il suo temperamento e l’indubbie sue doti vocali e sceniche al personaggio: e diva lo è per certo, sulla scena, compensando qualche imperfezione col carattere; magari un attimo d’autoironia in più da parte dell’interprete avrebbe permesso al pubblico di legger meglio il personaggio, ma siamo comunque ad alti livelli interpretativi.

Stessi livelli riconosciuti al tenore protagonista, Giuseppe Filianoti, che ha stupito i tanti che lo conoscevano stupendo interprete belcantista col suo debutto, anche per lui, nel ruolo: certo, non ripetiamo quanto detto prima a proposito dell’opera verista, e di sicuro la lunga tradizione di tenori tonitruanti che si sono succeduti in questo ruolo – a cominciar dal primo, il grande Caruso che ci mise, oltre alla voce, certo anche del suo – fa in modo che ci si aspetti altro dal Loris Ipanov del momento. Ma la dolcezza degli accenti, la morbidezza del canto, la freschezza del timbro hanno disegnato un personaggio che, seppure diverso dalla tradizione, è, non solo credibile, ma forse – per certi versi – addirittura preferibile ai toni urlati che spesso s’incontrano, pur mettendo in conto qualche incertezza e limitazione negli acuti, percepiti un po’ velati.

A vestire i panni di De Siriex è Roberto De Candia – interprete del recente Falstaff ronconiano qui al San Carlo – in splendida forma e, come sempre, di eccezionale comunicativa, dall’ottima dizione e da qualche bell’acuto ben piazzato; tutta giocata sui toni brillanti l’interpretazione di Barbara Bargnesi: la cantante ligure – anche lei di recente a Napoli, Norina in Don Pasquale –  dalla voce leggera portata naturalmente al canto di coloratura esprime una Contessa Olga che sia vocalmente – agilità e sicurezza negli acuti – sia scenicamente – gesto elegante e fragile insieme, ironico e ricco – si dimostra credibile in tutto e per tutto, conferma della bontà complessiva d’un allestimento fortunato che merita interamente gli intensi e prolungati applausi che il pubblico, non solo partenopeo, presente a teatro, tributa agli interpreti.

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