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Intervista al regista Giulio Ciabatti

Intervista al regista Giulio Ciabatti
Fermata Spettacolo

Il piccolo Giulio cos’era solito rispondere a “Cosa vuoi fare da grande”? Ti immaginavi già “uomo di teatro”?

Non ho ricordi molto precisi, ma non mi ponevo, e non mi sono forse mai posto troppe domande su ciò che può capitare il giorno dopo. Mi piaceva giocare, ascoltare le storie dei grandi e le loro avventure, mi piaceva sognare, costruire e inseguire aquiloni, correre nei campi con gli altri ragazzini, tenere in ordine i miei quaderni, guardare fuori dalla finestra, aspettare la neve… non volevo crescere troppo in fretta e un giorno, intorno ai miei sedici anni, vidi un teatro, anche se da lontano, un teatro di passaggio con degli attori che scherzavano e ridevano e si scambiavano le parti, diventavano ora un personaggio, ora l’ombra riflessa, la sua caricatura, o la sua parte tragica. Ma cosa fosse il Teatro non lo sapevo per davvero e non inseguii quella compagnia che era svanita nel nulla, come dal nulla era venuta.

Quando il palcoscenico t’ha rapito…?

Poi capitò qualcosa per caso. Non mi fu chiesto di fare del teatro, nè di essere un attore o di recitare una parte, ma di provare a correre, camminare, saltare, cadere, piegarmi, rialzarmi come certi acrobati e personaggi del cinema muto. Mi fu chiesto di continuare a guardare giù in strada e di cercare di imitare le andature delle altre persone, le loro espressioni, i loro volti. Di immaginare le loro vite, di provare per alcuni istanti ad essere uno di loro, con la sua gioia, la sua disperazione, la sua solitudine, la sua bellezza. Poi mi dissero che quel”provare” era già Teatro, anche se un pubblico ancora non c’era, anche se un testo ancora non c’era, nè un sipario o la luce di un riflettore. Era un inizio, l’inizio delle prove. L’inizio di un mestiere, di un’arte che ho continuato a costruire giorno per giorno, inseguendo sogni e aquiloni, tenendo sempre in ordine i miei quaderni, riempiendoli di note fitte fitte, continuando ad aspettare la neve… il pubblico, gli applausi, la calata del sipario.

Una parola presente in entrambe le tue risposte è “sogni” quindi, parafrasando William Shakespeare, potremmo azzardare che il Teatro è fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? (…che tra l’altro ricorda molto la frase con cui gli anglosassoni sono soliti descrivere il Palcoscenico: “Where the magic happens”) Descriveresti dunque il tuo “essere regista” come un “creatore di sogni”…?

Proprio così. E i fantasmi passano dalla scena alla vita e viceversa. Quando preparo una regia apro le porte, accolgo l’ospite e l’inatteso, mi lascio incantare. Certo non basta sognare e bisogna sbrigare un sacco di cose pratiche, ordinare la scena, assegnare a ciascuno un posto, un abito, una parte, pensare un’atmosfera, illuminare l’insieme o solo un particolare. È una bellissima fatica.

Il “creatore di sogni” , purtroppo, deve anche mangiare e quindi, il paradosso del sognatore è che sogna su commissione? ..e quindi può creare ma a “il sogno di un altro” (ad es. di un Direttore Artistico…). Hai mai avuto la fortuna di poter proporre un tuo sogno – sotto forma di progetto di regia – ad un teatro, e vederlo accettato?

Anche a teatro c’è uno scambio, un confronto, un dialogo fra più soggetti. Quando questo viene a mancare meglio cercare il pane altrove. Di recente ho accolto la sfida di pensare l’allestimento e la regia dell'”Orfeo ed Euridice” di GlucK a pochi giorni dall’inizio delle prove. Si trattava solo di dire si o no, e una volta accettato, di fare i salti mortali per andare in scena. Ma la mia esperienza di acrobata mi è servita molto e ne sono stato felicissimo. Alcuni anni fa vidi realizzato un altro sogno che tenevo nel cassetto, perché il mio cassetto è pieno di sogni indipendentemente da una committenza. Così passò la proposta di mettere in scena “I sette peccati capitali” di Brecht-Weill e “Trouble in Tahiti” di Bernstein. Una delle mie esperienze più belle.

Progettare, e realizzare, un’opera è per te un processo egoistico o altruistico? Cioè: il prodotto finito deve piacere a te, deve renderti orgoglioso del lavoro svolto totalmente indipendentemente da quello che potrebbe pensare la critica e il pubblico…. o crei per loro?

Sono una persona piuttosto schiva e in genere non amo la piena luce, figuriamoci l’esibizionismo o il divismo che è l’altra faccia della prostituzione. Pertanto quando preparo una regia penso sempre a qualcosa da donare agli altri, uno sguardo su ciò che altri hanno narrato prima di me, un pensiero su ciò che è già stato detto… perché gli altri mi hanno dato la fiducia per farlo. Non devo tradire loro e non devo tradire me stesso. Per fare questo sono sempre stato indulgente con gli altri e severo nelle mie scelte.

L’opera lirica sta diventando più visiva che “uditiva”: più prove di regia a discapito di quelle musicali, audizioni svolte da registi e non da Direttori d’orchestra, molti Direttori Artistici poi vengono dal mondo politico/manageriale più che musicale; tendenzialmente poi assistiamo a spettacoli in cui viene curato più il lato scenografico che drammaturgico…. da regista, come valuti questo cambiamento?

E’ vero. La scenografia, l’invenzione visiva, l’immagine sono diventati prevalenti di pari passo con l’affermazione del Teatro come industria, merce da pubblicizzare, evento da consumare, arte con cui si mangia. Spaccio aziendale. La partita tra il comico e il mecenate iniziata con le prime compagnie di attori e duchi e principi delle varie corti italiane, è sempre aperta. Alle volte grandi artisti impongono le loro scelte e i loro famili, e non sempre è un bello spettacolo, altre volte si scontano le scelte di un manager-parvenu che insegue le mode. Gli artisti da sempre vivono una forte ambiguità tra il vanto di essere fuori della Corte, fuori dalle mura della Città e il desiderio di esservi accolti. Tra essere e apparire. Il pericolo che avverto è quello di rimanere da una parte sola. Prigionieri della propria immagine. Quanto a drammaturgia e canto ricordo solo la diversità tra le prove di sala di oggi e quelle di un tempo, sia per la durata, sia per la qualità. Ma allora non esistevano nemmeno i Fast Food.

Abbiamo parlato di sogni, di luci della ribalta, abbiamo definito il palcoscenico quel posto “where the magic happens”…e se poi ci aggiungiamo anche la possibilità di viaggiare, di conoscere persone, di confrontarsi con diverse culure; sembra proprio che il lavoro del “teatrante” (sia esso attore o regista) sia davvero magico, perfetto…. ma è davvero tutto oro quel che luccica? C’è uno scotto da pagare, e se si quale, per chi sceglie il lato della “magia” per la propria vita (professionale)?

Per usare un’altra metafora, la vita del teatrante è un po’ come quella del marinaio. Devi poter restare al largo, lontano dalla terraferma anche per molto, farti guidare dalle stelle, evitare burrasche e naufragi, per raggiungere il porto dal quale ripartire. Devi amare il tuo lavoro e accettare tutto ciò che questo significa, se vuoi fare il marinaio.

Due parole che hanno contraddistinto le tue risposte precedenti sono “ambiguità” e “divismo” che, personalmente, mi ricordano in parte la presunta querelle tra il M° Chailly e i registi della Giovanna D’Arco scaligera; cosa c’è di vero sulla presunta querelle scaligera tra tradizionalisti e innovatori o, come ipotizzato da qualche sito d’informazione, tra etero e gay. Esiste davvero la famigerata “lobby gay”?

Con molta onestà non ho seguito le vicende scaligere e il gossip relativo. Commenti divertiti, ammiccamenti di vario genere, pettegolezzi, anedottica spicciola, riempiono da sempre il foyer e il dopo teatro. Perché farsi mancare un po’ di pruderie? Sono specchi che anelano a riflettere l’ immagine creata da un altro specchio, che cercano di catturarla e moltiplicarla, ma l’immagine è sgusciata via al calare della tela. Scappo sempre dinanzi alle querelle, ai complottisti, ai puristi quando mi inseguono. E me ne sto a parte da lobby, patroni o santi, ammesso che davvero esistano e non si tingano tali.

…rimanendo in “attualità”: l’Italia si vanta di essere la patria del Melodramma ma i teatri italiani sono ultimamente al centro dell’attenzione mediatica più per scandali e sprechi economici che per la loro attività artistica (v. Italy’s Opera Crisis). Tu che hai lavorato anche oltralpe, il sistema operistico straniero è davvero migliore? …perchè? Ma soprattutto, cosa dovremmo fare per colmare questo gap gestionale (e artistico?) che ci separa sempre di più da chi l’opera, in fondo, l’ha imparata da noi?

Ci sono realtà e tradizioni diverse in ogni paese, e non tutti hanno a disposizione un così alto numero di teatri di tradizione e non, come da noi, e ognuna con le sue caratteristiche. Quello che spiace maggiormente è la mancanza di attenzione per chi opera bene, per chi nel lavoro si impegna con dedizione e rispetto delle regole. E sono in molti anche in Italia, ma decisamente marginali all’occhio dell’opinione, e peggio ancora dell’amministrazione pubblica. La fretta di cambiare, senza apportare continui aggiustamenti e correzioni condivise, non fa che riproporre a breve gli stessi vizi e gli stessi difetti.

Riassumendo in poche parole quest’intervista e, se si può, la tua vita, verrebbe da dire che “sei un sognatore che per professione fa il realizzatore di sogni” …è corretta come definizione? La mia domanda a questo punto è: qual è il prossimo sogno che vorresti realizzare?

Sono un sognatore con gli occhi aperti e i piedi piantati a terra. A Teatro trovo l’opportunità di far percepire la realtà come qualcosa che non è dato, ma qualcosa che crediamo tale e che possiamo sempre trasformare in qualcosa di diverso. Ci assumiamo una parte, giochiamo (to play) un ruolo, un’identità, siamo persone (il nome dato alle maschere greche), ovvero suoniamo attraverso (per) la nostra relazione con gli altri. La stessa cosa accade nella vita, ma non lo consideriamo con la dovuta attenzione. Sembrerò presuntuoso, ma il mio prossimo sogno, che sognavo da tempo, mi è venuto incontro qualche giorno fa e mi tiene compagnia. E’ ancora troppo piccolo per presentarlo al mondo.

Una parola che si associa spesso alla vita del teatrante è viaggi che, nella sua accezione negativa fa rima con lontananza…. dalla casa intesa come quattro mura domestiche, dagli affetti, dagli amici…dov’è o, se preferisci, cos’è casa per te?

La casa è il luogo che ci si porta appresso, il tuo corpo, i tuoi odori, la tua memoria innanzitutto. Una tavola, alcune sedie, una finestra, la luce dell’alba, il buio della sera. Un quaderno sul quale disegnare, il pensiero ai miei figli che vivono in altri paesi eppure sono sempre con me, come la persona che amo, la mia sposa che viaggia e canta in altri paesi.

La vita, la vita del teatrante, è fatta di un mix di amore, dedizione e sacrificio (per orari talvolta assurdi e per la lontananza da quella luogo, o situazione, che chiamiamo casa) ma è fatta anche di fortuna: nell’incontrare al momento giusto un direttore artistico, un agente, qualcuno che creda in te e che ti dia la possibilità di mostrare e dimostrare quanto vali… ma anche la fortuna di avere una persona che ti sorregga, ti sostenga, ti consoli nei momenti meno felici che questa professione talvolta regala…Ti ritieni una persona fortunata? Quali sono stati gli incontri che hanno segnato positivamente la tua vita e le persone che desideri ringraziare per essere state preziose per te?

Sergio Dosmo mi ha dato più volte l’opportunità di salire sulla barca dei comici, di alzare le vele, di reggere il timone, senza che io lo domandassi, senza esitazioni, senza volere nulla in cambio. Ho incontrato tante persone sulla strada che mi hanno regalato un sorriso, una parola bella, un grazie. Ho iniziato da qualche mese a scrivere qualcosa dedicato a loro e a questo mondo. “A tutti voi…”

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Fermata Spettacolo



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