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Adriana Lecouvreur: la donna e il teatro

Adriana Lecouvreur: la donna e il teatro
Fermata Spettacolo

Il grande ritratto di Molière, gigantesca riproduzione di quello dipinto da Charle-Antoine Coypel e oggi conservato alla Biblioteca della Comédie-Française – sarà un caso, realizzato proprio in quel 1730 che vide la morte della protagonista, nel mondo reale – che incontrastato domina la scena all’alzarsi del sipario, come l’effige d’un dio pagano, enuncia in modo inconfutabile quella che sarà la cifra, la caratterizzazione, il centro intorno al quale dovrà necessariamente ruotare tutta la rappresentazione: il teatro e la vita del teatro e come questa incroci e attraversi e segni in modo indelebile le nostre povere vite.

Siamo al ritorno d’Adriana Lecouvreur a Napoli, qui al San Carlo, dopo tredici anni di assenza, con la stesso allestimento di allora, che vide protagonista Daniela Dessì: a volte la vita, evidentemente, riserva studiate eppur meravigliate sorprese che nemmeno il più guitto e ruffiano degli autori si sarebbe sognato escogitare; inevitabile, allora, che questa ripresa si trasformi anche nella celebrazione e nell’omaggio e nella commozione del ricordo d’una grande interprete del teatro, oltre che dei centocinquant’anni della nascita dell’autore. In fondo, a ben pensarci, il senso ultimo dell’unica opera per cui ricordiamo Francesco Cilea, al di là della inevitabile obsolescenza di certe frasi letterarie e musicali, che possono apparire allo spirito dell’oggi, pur conservando innegabile vigore ed energia, irrimediabilmente datate, sta proprio nel commosso ed emozionato omaggio ad una giovane donna che seppe donare al teatro la sua vita e il suo talento e che il teatro trova il modo di ripagare accogliendola nel Pantheon delle memorie e rendendo, in tal modo, immortale il nome suo.

Nel mondo reale Adriana fu infatti attrice della Comédie-Française: molto amata dal pubblico, si trovò rivale in teatro di Mademoiselle Duclos, nome d’arte di Marie-Anne de Châteauneuf, attrice magniloquente, enfatica, convenzionale, alla cui recitazione Adriana oppose un’interpretazione di gran lunga più moderna e accattivante; nella vita reale si trovò invece rivale in amore della duchessa di Bouillon, Luisa Enrichetta di Lorena, con cui condivideva l’amante Maurice de Saxe. La morte la colse ancor giovane, a trentott’anni, per un’improvvisa “emorragia interna”, in cui il popolino vide subito la mano della sua rivale, pur non avendone le prove. La storia fu ripresa da Scribe che ne fece oggetto di una tragedia, avallando la tesi dell’avvelenamento; da questa Cilea e il librettista Arturo Colautti, trassero l’opera, nel 1902, anche se poi l’autore la sottopose a una serie di tagli e ripensamenti fino alla versione attuale, messa in scena, proprio qui a Napoli, nel 1930.

Opera moderna, dunque, che narra attraverso un racconto antico la nostra contemporaneità, ma che tuttavia rifiuta – consapevolmente – di collocarsi nel solco del rinnovamento di quei primi anni del Novecento. Meglio: ne prende solo alcuni temi e opportunità (come tacere del sorprendente e sapientissimo uso della tecnica del leitmotiv di derivazione wagneriana), tralasciandone di proposito altri e soprattutto rimanendo ancorato alla grande tradizione del melodramma italiano, pur rinnovandola in una esuberanza espressiva notevolissima (che, si badi e si ascolti, nulla ha a che vedere col presunto verismo musicale e le sue sforzate sguaiataggini), unita a grande facilità di scrittura melodica e notevole introspezione psicologica. Opera certamente di enorme interesse, pur se, e ben si comprende, solitario fiore dell’unica stagione di una vita; opera, anche, di una qualche problematicità di messa in scena, correndo il rischio, da un lato, di rappresentare un Settecento di maniera, tra intrighi, femmes fatales e balletti arcadici, dall’altro di spingere su un astrattismo simbolista e didascalico che non può che sfociare nella completa perdita dell’intima natura dell’opera: e, d’altra parte, come non considerare che proprio entrambe queste caratteristiche, così apparentemente inconciliabili, siano tuttavia realmente presenti nell’opera, in quel particolare delicatissimo equilibrio precario che caratterizza sempre il manufatto artistico, retaggio dell’epoca in cui vide la luce: basti considerare il pullulare, allora, dei tanti lavori ambientati nel secolo dei lumi (oltre ai vicinissimi italiani Puccini e Giordano, pure i francesi – Massenet per primo – cui di molto è debitore Cilea, e perfino Strauss col Rosenkavalier e soprattutto Ariadne auf Naxos, tanto prossima ad Adriana pure col complesso intrecciarsi di teatro e vita, molto al di là del solito concetto metatreatrale derivato dal classico barocco) e, d’altra parte, i tantissimi riferimenti alla cultura del tempo, che s’incarnava e si nutriva, nel sentire in Italia, dell’arte dei due massimi poeti italici di quel momento, navigando a vista tra gli inesausti estetismi dannunziani e gli apparentemente contrari simbolismi pascoliani delle piccole cose familiari. Tutto un gusto decadentista, dunque, che permea la cultura del tempo e che trova cittadinanza piena in un’opera come questa e che deve esser tenuta presente, in effimero equilibrio, da chi s’accinge alla messa in scena.

Cerca allora di mantenersi distante, il regista Lorenzo Mariani, con la complicità delle sontuose scene di Nicola Rubertelli e i costumi di Giusi Giustino, da ogni tentazione verista o anche solo naturalista: sotto i grandi archi azzurri del fondale s’intravvedono palchi teatrali, e non solo nel primo atto, il più decisamente e dichiaratamente metateatrale, ma pure nella scena del villino della Duclos del secondo atto, nella grande sala da ballo del terzo, perfino nel salottino di Adriana dell’ultimo, dove un pesante tendaggio cadrà, nel pieno del delirio finale, per rivelare la tela teatrale sotto le cui insegne Adriana reciterà l’ultima volta. È il teatro il vero protagonista di Adriana Lecouvreur, il teatro che è sempre sotto, accanto, in trasparenza alla cosiddetta realtà, che incrocia, conduce, segue, la vita vera, inscindibilmente legato ad Adriana e alla sua vicenda terrena: motivo di felicità, certo, ma in qualche modo anche limite, dorata quanto evanescente prigione, simbolo d’un guardarsi vivere che, a poco a poco, lentamente, lascia passare il tempo fino a che, come dice il buon Michonnet, ci si lascia vivere “per abitudine”. Tentazione, quella di lasciarsi andare in una quieta e scontata ordinarietà che, invece, non sfiora nemmeno il sempre dinamico direttore, un entusiasta e performante Daniel Oren, che trascina, come suo solito, orchestra e cantanti con una conduzione sempre ispirata, serrata, appassionata. Persino i suoi mugugni, ben udibili fin dal fondo della sala, han finito per non disturbare più di tanto, visti i tempi perfetti, gli attacchi precisi, le dinamiche incalzanti: molti gli applausi per lui alla fine, sicuramente il più premiato dal pubblico insieme a Barbara Frittoli. Espressiva e delicata come sempre, la voce del soprano milanese è apparsa morbida e sensuale, dalla linea di canto elegante e curata: l’emozione filtra attraverso le note de Io son l’umile ancella per spezzarsi su Poveri fiori, dimostrando, ove mai ce ne fosse necessità, di saper sfoggiare al meglio le caratteristiche precipue della sua voce: espressione, timbro, legato, sfumature.

Luciana D’Intino disegna una Principessa di Buillon altera e perfida come di norma, attraverso la tessitura particolare della voce sua, ben calibrata e perfettamente scandita, dalla notevole resa vocale: l’inabissarsi verso lo spettro grave accresce lo spessore drammatico del personaggio. Ne l’Acerba voluttà la voce appare sempre omogenea, l’emissione molto sicura, il canto fluido, senza cedimenti, adeguato il gesto e la partecipazione emotiva.  L’interpretazione di Michonnet da parte di Alessandro Corbelli è eccezionale: tecnica da manuale, perfetto il canto ma incredibile – nonostante il meraviglioso cantante – è soprattutto l’attore, che sa trovare accenti, gesti, mimica, vivacità, che disegnano il personaggio giusto. Spesso Michonnet viene rappresentato come un anziano, languido, perdente; Corbelli ne fa un vincitore naturale, con misuratissimo gusto nello studio accurato dei dettagli. Gustavo Porta, invece, e il suo Maurizio, desta più d’una perplessità: chiaro esempio di come non basti, a fare un buon tenore, una voce potente ed estesa, checché ne dicano gli eterni scontenti, malinconici nostalgici d’un passato leggendario; il pur gradevole timbro e l’energia della sua voce non convincono, purtroppo, lo smaliziato pubblico del terzo millennio che, con tutta evidenza, non cerca solo, perfino nell’Opera, solo una voce tonitruante, ma un quid in più che non sia fatto sol d’ugola e fiato. Sempre più complicato, questo moderno mondo.

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