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ENI conosceva l’impatto delle fonti fossili già dagli anni ’70


Di Stefano Baudino

Fin dai primi Anni Settanta, il colosso italiano del gas e del petrolio ENI era a conoscenza degli ingenti danni causati dalle fonti fossili al clima del pianeta. È quanto attesta il secondo rapporto ENI Sapeva, recentemente pubblicato da Greenpeace Italia e ReCommon. Le organizzazioni autrici del report hanno infatti esaminato presso biblioteche e archivi, anche della stessa ENI, pubblicazioni che contenevano già evidenti indicatori sui rischi per il clima legati al crescente consumo di petrolio e gas. Che non hanno, però, fermato l’azione della multinazionale.

Il documento ricorda come, già nel 1969, l’azienda avesse affidato a un suo centro studi, l’Istituto per gli Studi sullo Sviluppo Economico e il Progresso Tecnico (ISVET), il compito di realizzare una indagine tecnico-economica in materia ambientale, dal titolo “L’intervento pubblico contro l’inquinamento; valutazione dei costi e dei benefici economici connessi a un progetto di eliminazione delle principali forme di inquinamento atmosferico ed idrico in Italia”. A ruota, negli anni immediatamente successivi, ENI fondò TECNECO, una società destinata a occuparsi di “disinquinamento”, e la rivista Ecos, il cui nome fu selezionato, come spiegava la stessa azienda, “perché breve e facile da ricordare: rinviava alla ‘E’ di ‘ENI’ e di ‘energia’, ma anche alle parole ‘economia’ e ‘ecologia’”.

Nell’introduzione del rapporto di sintesi dell’indagine ISVET, conservato presso la Biblioteca Marconi del CNR a Roma, Greenpeace Italia e ReCommon hanno rinvenuto un passaggio in cui si dimostrerebbe come ENI fosse ben consapevole delle conseguenze nefaste dell’immissione di CO2 nell’atmosfera derivante dallo sfruttamento di combustibili fossili. “L’anidride carbonica presente nell’atmosfera, secondo un recente rapporto del Segretario dell’ONU, data l’accresciuta utilizzazione di olii combustibili minerali, è aumentata nell’ultimo secolo del 10% in media nel mondo; verso il 2000 questo incremento potrebbe raggiungere il 25%, con conseguenze catastrofiche sul clima”, si legge infatti in quel frammento.

Allo stesso modo, nella “Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese”, presentata nel 1973 ad Urbino da TENECO – in cui si evidenziava come “Nel sistema uomo-atmosfera, contrariamente a quanto si è tacitamente ritenuto fino a non molto tempo addietro”, le attività umane “provocano alterazioni transitorie o modificazioni stabili nell’assetto e nella qualità dell’atmosfera, nonché dello svolgimento di alcuni suoi importanti fenomeni” – in una tabella riassuntiva dell’elenco dei “principali composti inquinanti emessi durante le diverse fasi delle operazioni industriali e le relative fonti in relazione […] ai gas” si riportava anche la CO2, il cui “aumento nell’atmosfera” era considerato “potenziale causa di variazioni climatiche”. Di nuovo TENECO, nel 1978: “Si presume che col crescente consumo di combustibili fossili, che ebbe inizio dalla rivoluzione industriale, la concentrazione di CO2 raggiungerà i 375-400 p.p.m. nell’anno 2000 […]. Questo aumento viene considerato da alcuni scienziati come un possibile problema a lungo termine, soprattutto perché esso potrebbe modificare il bilancio termico dell’atmosfera determinando dei cambiamenti climatici con gravi conseguenze per la biosfera”.

Simili erano anche i contenuti pubblicati dalla rivista Ecos nel 1988. “L’enorme sviluppo dei processi di combustione nel corso di questo secolo – si legge nel numero di luglio/settembre – ha indotto gli scienziati a paventare quell’effetto serra che potrebbe portare a cambiamenti climatici dagli effetti sconvolgenti sull’intero ecosistema terrestre”. E ancora, nel numero di ottobre/dicembre: “Mentre gli scienziati proseguono nelle loro indagini per approfondire la natura del fenomeno e quantificare le sue eventuali conseguenze, è doveroso operare fin da oggi, nei limiti del possibile, per contenere il fenomeno della emissione dell’anidride carbonica”. Nello stesso numero, si reputava “logico aspettarsi un qualche incremento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera” rispetto alle cui conseguenze “gli scienziati concordano su un ‘global warming’, cioè su un probabile aumento della temperatura dell’atmosfera”.

Gli autori del report ricordano che, se “negli anni Ottanta da una parte ENI pubblicava sulla propria rivista avvertimenti sull’effetto serra”, dall’altra portava avanti “campagne pubblicitarie che promuovevano il gas naturale, composto per lo più da un gas climalterante per il pianeta come il metano, descrivendolo come combustibile ‘pulito’”. Nel documento viene inoltre sottolineato che, circa 50 anni fa, ENI è entrata a far parte dell’IPIECA, organizzazione fondata da una serie di compagnie petrolifere internazionali che, secondo alcuni studi diramati negli ultimi anni, avrebbe costituito lo strumento utilizzato dal gigante fossile statunitense Exxon per coordinare, a partire dagli anni Ottanta, una “campagna internazionale per contestare la scienza del clima e indebolire le politiche internazionali sul clima”. Il documento riporta l’analisi svolta sul tema da Christophe Bonneuil, storico della scienza, attualmente direttore di ricerca presso il più grande ente pubblico di ricerca francese, il Centre national de la recherche scientifique (CNRS), tra gli autori dello studio “Early warnings and emerging accountability: Total’s responses to global warming, 1971–2021”, che ha ricordato come l’IPIECA, “sebbene non si sia mai descritta come un gruppo di pressione”, dal 1988 al 1994 “è diventata chiaramente un canale attraverso il quale le compagnie petrolifere di tutto il mondo hanno condiviso informazioni e strategie relativamente ai lavori delle Nazioni Unite sulla strada verso il Vertice della Terra di Rio del 1992 e ai dettagli dei negoziati sulla Convenzione sul cambiamento climatico”. Secondo la ricostruzione dello storico, il gruppo seguiva tre specifici ambiti di lavoro: “Redigere lo stato della scienza dei cambiamenti climatici indotti dalla possibile accentuazione dell’effetto serra, comprese le principali aree di incertezza; studiare strategie di risposta “senza rimpianti”, ovvero comunque vantaggiose per l’industria; considerare i miglioramenti in ambito di efficienza energetica e la sostituzione tra i diversi combustibili fossili come risposte al riscaldamento globale favorevoli all’industria”. Attuando, dunque “una strategia coordinata per ritardare azioni di mitigazione dei cambiamenti climatici e assicurarsi che da Rio non emergesse una seria politica climatica”.

Lo scorso maggio, Greenpeace Italia e ReCommon hanno citato in giudizio ENI Spa, così come il ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti, che insieme controllano circa il 30% del capitale sociale dell’azienda, accusando la multinazionale fossile dello Stivale di danni ambientali e climatici passati, presenti e futuri. «ENI – hanno affermato i ricorrenti – ha significativamente contribuito negli ultimi decenni a rendere l’Italia dipendente dal gas russo prima e da quello proveniente da altre aree del mondo poi». Pertanto, «contestiamo a ENI la violazione dell’Accordo di Parigi e vogliamo ricordare che, come già sancito da diversi tribunali internazionali, continuare a contribuire al riscaldamento globale genera degli impatti associati a gravi violazioni dei diritti umani». ENI ha reagito facendo causa per diffamazione a Greenpeace Italia e ReCommon.

FONTE: https://www.lindipendente.online/2023/09/28/eni-conosceva-limpatto-delle-fonti-fossili-gia-dagli-anni-70



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