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Le due culture/ Il pensiero di un critico d’arte e di uno storico dell’arte


Di Francesco Gallo Mazzeo*

Dogmatici ed eretici sono sempre esistiti, da Esiodo in poi, da Amos I in poi, divisi, mai nettamente, sempre con palesi porosità, costituendo comunque due lineari fatte da laudatares temporis acti e spiriti guerrieri della speculazione, dell’innovazione, in una corsia che attraversa i millenni, quasi tre, giungendo fino a noi, con connotati mutati, ma con una substantia  permanente.

I due teologi Aureliano e Giovanni di Pannonia, di cui parla Borges in Aleph, disputarono sugli anulari, detti anche monotoni, non convenendo su molte cose, temendo soprattutto le eresie più subdole, che sono quelle che possono confondersi con l’ortodossia, ma d’accordo sul fatto che la virtù dovesse stare da una parte e il torto dall’altra. Tanto che Giovanni venne messo a morte e lui non lo pianse. La questione è di quelle che non finiscono mai, perché qualcuno pensa di essere apoditticamente nel vero per cui alla prova contraria subito dice: peggio per la prova. La strada che giunge fino a noi è piena di roghi e di croci, di supplizi e di bandi; da quello di Giordano Bruno a quello di Baruch Spinoza, da quello dell’Arciprete Avvakum a quello di Alexander Solzenicyn, tingendosi via via di colori diversi.

 

Borges

 

I titolari del trivio e del quadrivio,  a cui si sostituiscono le big five (paleontologia, antropologia, psicologia, noologia-biologia evoluzionistica, neurobiologia) e le stim ( scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) comunque nel Medioevo, si davano una mano e non si deridevano a vicenda, ma guai ad essere artisti, ad essere scultori, allora le distanze si allungavano, perché una cosa era essere liberale e una cosa era essere meccanici.

Non Senza contraddizioni, Dante, per noi sommo, sempre perseguitato ai suoi tempi, per non essere discriminato, s’era iscritto alla corporazione dei medici e degli speziali, segno che essere solo poeti non bastava, a partire dal principio che carmina non dant panem. Oggi la nuova querelle, infondata, ma diffusa, è quella dei poeti, in senso lato, versus scienziati, in senso lato. Una insensatezza che parte da una immotivata taratura d’invenzione che sta nel lobo frontale come la scoperta per cui una è la personalità umana, anche se inclinata ora di qua ora di là; l’elemento comune è la ragione, esistendo la quale c’è numero e numerologia, c’è ragione e fantasia. Senza di esse è buio. Morte.

In un dibattito, sulle soglie del secondo dopoguerra, Elio Vittorini e Carlo Bo, ebbero a disputare, il primo fondandosi sul suo Politecnico, basato sui gradini di d’Holbach, Helvétius, Diderot, D’Alembert, Voltaire, sul mito dei lumi, il secondo seduto in Urbino, dei suoi Montefeltro e Raffaello, col suo Cristo nel cuore. Tema, era quello del nuovo e del vecchio, città e campagna, industria agricoltura, ma soprattutto dei nostri che, ad ogni passo di strada ad ogni svolta, sbarrano il passo, privilegiando se stessi al mondo. Potremmo dire, uno con Galileo, uno con Tolomeo.

 

Galileo Galilei

 

Vittorini sosteneva la lotta dei personaggi della sua letteratura americana, quella appunto di Americana, di Melville, di Poe, di Mark Twain, e poi di Hemingway, Fitzgerald, Dreiser, Steinbeck, Caldwell, gli autori dei mostri fuori, frontali, visibili;  Bo sosteneva francescanamente i furori nascosti di Papini, Cecchi, Maritain, di Testori, Servadio, poeti della preghiera. Senza Tolomeo non ci sarebbe stato Galileo. Per Vittorini i mostri sono tutti fuori e bisogna essere illuminati e inesorabili, per Carlo Bo, che non negava affatto quelli di fuori, i veri mostri sono quelli che abbiamo dentro, che offuscano la nostra mente, induriscono i nostri cuori e fanno danni, disastri.

Possiamo benissimo stare con entrambi, nel senso che non si elidono affatto, bensì, si assommano, con un effetto moltiplicatore, che porta insieme la coscienza dell’oggettività, della società, della durezza della storia, con l’esigenza di una interiorità che faccia perno sui valori che trascendono, dal basso in alto, per l’uomo intero. Mi ricordo una rappresentazione teatrale di Dario Fo, sul sapere, sulla parola, conoscere cento parole, conoscere mille parole non è indifferente. Ma conoscerle veramente, comprenderle, non farsene conquistare e diventare parlati piuttosto che parlanti, con il rischio di una alienazione che scivola verso il terrapiattismo, i rettiliani, le scie chimiche, le apparizioni di madonne, i profeti mediali, altra faccia di un giovanilismo che non ammette defaillances, perché altamente contagioso in una omologazione di forma occultistica, bandistica, che trova nel gruppo la sua “pace” individuale e sociale.

Una catastrofe per chi, non potendo concedersi una formazione continua, una destinazione da top class, da alta gamma, retrocede nella sottomarca, come in un girone infernale, in cui c’è tutto quello che  può sembrare un mondo, ma è un altro mondo, di depressione o di protagonismo  sfrenato, che hai propri capi, i propri idoli identitari, di quartiere, di nazione, senza via di uscita, che non sia quella dello scivolamento nel degrado, nel nichilismo; anche se alla fine ci si potrebbe essere un appiglio, un’ ancora, ma bisogna saperla vedere e poi, soprattutto, bisogna saperla volere, veramente.

Non esistono due culture, come non esistono, attualmente, due umanità, ma differenti modi di osservare il presente, di scrivere la storia, di proiettarsi nel futuro, diversi e non tre soli, ottimisti, attendisti, pessimisti, bensì sfumature su sfumature, come si addice ad una serie di società di massa, diverse tra di loro e con tante fratture al loro interno, per cui non esiste un mondo, ma tanti mondi, immaginari e reali, che non sono necessariamente immagini e realtà. Un vero paradosso e la distinzione tra conservatori e progressisti o per meglio dire ceti popolari visceratonici ammalati da cibo spazzatura e da una spettrale sottocultura, che si specchiano a categorie ottimate, cerebrotoniche, del lusso, del benessere, della cultura.

Quest’ultimi, tranne che in ricerca scientifica e tecnologica, stanno diventando seguaci di Rousseau, seguaci del suo Emilio e innamorati della nuova Eloisa, seguendo le orme di Platone, Campanella, Tommaso Moro, Fourier, Bakunin, ma anche  di Ivan Illic e Daniel Bell. La piramide si sta forse spezzando, tra un vertice che diventa sempre più acuto e selettivo e una base che si allarga sempre più, comprendendo le nuove povertà consumistiche, asservite ai media spettacolanti, ad un degrado con lustrini o senza lustrini, ma inesorabile.

Gli ottimati possono scegliere il green, il biologico, il più che perfetto, i disastrati, anche quelli che ancora non lo sanno, il fossile, il diesel, le mucche al pascolo nelle discariche di città e campagna, delle tante periferie oniriche, senza centro. Tolomeo e Galileo, sono due momenti della scienza, ma allo stesso modo di Omero e Ariosto, sono due momenti della poesia, due momenti della storia della cultura, che è storia di sacrificio, di morte, di lutti e di rovine, ma poi inesorabilmente albe, per Eva, per Caino, per Narciso, per Prometeo, per Lucifero, per Socrate, per Platone, per Pitagora; un sacrificio non inutile quando apre le porte che ulteriormente chiuse, avrebbero soffocato ogni mente, ogni sapere, ogni volere.

Ci sono ancora tolemaici, sì sì ce ne sono, sotto mentite spoglie e sono quelli che una volta erano principi della nazione o principi della rivoluzione, di cui hanno perso la memoria ed è rimasto l’automatismo dei riflessi condizionati, per cui fanno deriva, che è il moto immemore, come il falso volo lo pseudo-movimento. Oggi vige un nuovo mito, un nuovo rito, che ti sfida con il virtuale, con il digitale, zero, quattro, o cinque, che ti vorrebbe dominare, ma non glielo devi permettere, facendo luce più forte là dove l’ombra batte nuovi miti della caverna e la falsa coscienza di scambiare le ombre col reale, l’irreale e il vero; una nuova scienza che potenzi gli alfabeti vigenti sia maestra a chi ha perduto la regina parola; è l’unico filo che lega il vertice stretto e base larga, un esile filo, va bene, ma non dimentichiamo quello di Arianna.

Charles P. Snow, nelle sue Due Culture temeva che la frattura fra umanistici e scientistici, fosse consumata e irrecuperabile, ma non lo era e non era quello il problema, quanto quello dell’essere una sapientia vera, fatta di mille specchi di domanda e risposta, alla condizione che non si scambi un lungo tornante di montagna per un finale già scritto. Avendo presente, sempre, che sono i colli e monti che fanno cultura, con i mille ostacoli da superare e con esse si fanno le ossa, i muscoli, ma anche i cervelli, mentre le pianure estese, orizzontali, fanno pascoli invernali e raccolti a estivi. Tutto si tiene?

Snow auspicava una terza cultura che fosse ibrida, trasversale (da Enciclopedie) capace di trasmettere ai semplici, i teoremi complessi e ai colti e incliti il bello e il bene! Nell’ultimo volume del “Menabò 10”, siamo nel 1967, Michele Rago, cura una serie di scritti vittoriani, scrittori come Thomas Mann e Pasternak, ma anche Robbe-Grillet, Uwe Johnson e Gadda, alcuni detti antropologici e altri post antropologici (definizioni che oggi ci sembrano ingenue) salvando ancora Manzoni e condannando Tomasi di Lampedusa.

Ragione, progettazione, storia, sono i punti di riferimento, avendo i quali non è importante da quale parte si stia, l’importante è farsi carico della qualità fondante del dissenso, dell’importanza dell’altro, senza cui si è sterili.  Umberto Eco, in Apocalittici integrati, descrive, come all’interno di una monade leibniziana, gli opposti estremismi, quelli che credono di essere nel cielo della verità e sono invece dentro infinite nuvole, e quelli che credono che si possa fare tutto e non possono; e nel mezzo ci stanno, pochi o tanti non importa, gli ipotetici, quelli che ascoltano valutano, parlano, accolgono, contestano, basandosi su una ragione dubitante, ma non cinica, che sia metodica (ma pronta a rivedere il metodo – vedi Paul K. Feyerabend – se necessario) perché da noi tutto è relativo, l’assoluto di Dio, è dentro di noi, impregna tutto ma non ci dice cosa dire e cosa pensare, ci lascia liberi.

Cultura è una.  Una e basta. Composta da distinti, per meglio comprendere, meglio applicare, ma una, altrimenti il fisico senza poesia perderebbe sentimento, emozione, umanità, il poeta senza fisica non sarebbe che un alito di vento e le sue parole un flatus vocis. Solo i resti di una concezione meccanicistica, di positivismo povero e materialismo assoluto, possono fare distinzioni nette, manichee, tra bello e brutto, vero e falso, scientifico e teleologico, se non teologico, ma rovesciato e buio; la via dell’unità ha due sentieri che devono essere ben custoditi, ma senza paratie fisse, fisse e inamovibili, in modo che gli uni parlino con gli altri.

Dimenticavo … a proposito. Un fulmine, a mezzogiorno, incendiò gli alberi e Aureliano morì, com’era morto Giovanni.  Aureliano conversò con Dio, nel regno dei cieli, dove non esiste tempo e questi lo prese per Giovanni ma Dio non si confonde. Non si può confondere. “È più esatto dire, dice Borges, che nel paradiso Aureliano seppe che per insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia” (L’ortodosso e l’eretico… l’accusatore e la vittima), formano una sola persona.

*Francesco Gallo Mazzeo –  Docente emerito ABA di Roma. Docente di Linguistica applicata ai nuovi linguaggi inventivi delle arti visive in Pantheon Institute Design & Tecnology di Roma e Milano

FONTE: https://beemagazine.it/le-due-culture-il-pensiero-di-un-critico-darte-e-di-uno-storico-dellarte/



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