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Il Mediterraneo, destino d’Italia – La via marittima dell’interesse nazionale


Di Andrea Muratore

Le rotte dell’interesse nazionale italiano passano inevitabilmente per il Mediterraneo: sia nel caso in cui nel calcolo della proiezione geopolitica di una nazione si voglia dar priorità al posizionamento geografico[1], che in quelli che danno la priorità a fattori come il consolidato dei legami economici, sociali e politici costruiti nel suo vissuto storico o le direttrici geoeconomiche per Roma la rotta punta verso il “Grande Mare[2]”. Area geopolitica di proiezione degli interessi di diverse potenze di media e grande taglia, arena fondamentale per l’economia nazionale, fondata sulla trasformazione manifatturiera e l’apertura ai commerci e dunque necessariamente vincolata a vedere tutelata la libertà di navigazione e la sicurezza marittima, porta verso il mondo africano e mediorientale che rappresentano la componente più complessa dell’estero vicino del Paese.

L’Italia negli scorsi anni ha avuto difficoltà a mettere a sistema i complessi interessi che vincolano la sua azione di politica estera al teatro Mediterraneo. Come da più parti ricordato[3] gli ultimi decenni hanno visto l’Italia fluttuare inoperosa tra i diversi vincoli (europei e atlantici in particolare) cui la nostra politica estera era condizionata senza mai interpretarli in chiave realista. Ovvero cercando nell’agone mediterraneo la sua prima area d’azione. Come invece riuscito a lungo agli esecutivi della Prima Repubblica, capaci di cogliere le opportunità offerte dall’elaborazione di un’agenda strategica mediterranea.

Il professor Marco Giaconi, recentemente scomparso, ha sintetizzato[4] nella ricerca di “un ruolo occidentalista, ma autonomo, come vide lucidamente Fanfani” l’obiettivo di fondo ideale a cui i governi democristiani della Prima Repubblica ambirono, conseguendolo grazie alla visione strategica di figure come Enrico Mattei, Aldo Moro e lo stesso Fanfani. Ora, nel mondo competitivo della globalizzazione, all’Italia serve un’ulteriore consapevolezza della complessità degli scenari mediterranei e dei rischi e delle opportunità ad essi associati. A questo obiettivo tenderà la presente analisi, che proporrà l’agenda marittima del Paese partendo dai temi principali su cui una politica italiana volta a valorizzare la proiezione mediterranea dovrebbe insistere.

Tali temi riguardano, nell’ordine:

  • Il versante geo-economico, con particolare riferimento alla necessità italiana di tutelare uno spazio strategico che rappresenta la linea di passaggio principale dei suoi traffici commerciali.
  • La questione, alla precedente tutt’altro che disconnessa, della sicurezza energetica, che richiama alla necessità di una politica coerente per la copertura delle forniture di gas naturale e petrolio.
  • La proiezione geopolitica e militare, il ruolo funzionale delle attività della Marina Militare nell’elaborazione dell’interesse nazionale e la partecipazione alla partita della territorializzazione del mare con l’identificazione delle Zone economiche esclusive (Zee).
  • Il legame con i teatri africani e mediorientali e le conseguenti questioni securitarie connesse al rischio-Paese, al fattore immigrazione e alla prevenzione del terrorismo.

La via marittima dell’economia italiana

Il mare rappresenta, a livello globale, la via maestra per il traffico merci. Il recente rapporto Italian Maritime Economy realizzato dal centro studi Srm (collegato a Intesa Sanpaolo) segnala come il trasporto marittimo e la logistica ad esso collegata coinvolgano il 90% delle merci scambiate su scala planetaria e generino circa il 12% del Pil globale[5].

Passando al dettaglio dell’Italia, il rapporto conferma un trend di traffico stabile negli ultimi 5 anni intorno alle 480/490 milioni di tonnellate movimentate nell’anno, anche se nel primo semestre 2020 l’import/export via mare ha subito l’impatto dell’emergenza sanitaria, registrando un calo del 21%[6]. Per quanto riguarda il fronte di traffici da e per il Canale di Suez, proxy del movimento merci nel Mediterraneo, la prima metà del 2020 ha fatto segnare un forte calo delle spedizione dei container, pari al -15% (segno della frenata dell’export da e verso Cina), bilanciato però dai transiti di navi di altri settori: oil (+11%) e dry (+42%). Il fenomeno della cancellazione di spedizioni già programmate ha raggiunto a fine maggio 2,7 milioni di teu, pari all’11,6% della capacità totale di stiva, a fronte di una previsione globale di 7 milioni per l’anno intero[7].

In termini di valore, nel 2016 il 55% dei 90 miliardi di euro di merci importate proveniva dal mare, in un contesto che vedeva il Mediterraneo essere interessato da circa il 20% del traffico marittimo planetario[8]. L’importanza strategica del commercio marittimo non è solo constatabile da questi dati, ma anche dalla natura dei prodotti che l’Italia mobilita via mare: l’Italia è, sotto il profilo industriale, piattaforma manifatturiera agganciata alle catene del valore globali e economia di trasformazione. Di conseguenza, la via marittima della nostra economia va letta in combinato disposto con lo sviluppo dei settori strategicamente più legati a quello del commercio via mare: la cantieristica navale, la logistica, lo sviluppo infrastrutturale, la connettività.

Da non scordare, ovviamente, anche il tema del turismo, che con lo sviluppo di rotte di collegamento marittime trafficate ed efficaci ha un legame ombelicare, e settori come la pesca.

Guardando la questione a livello sistemica, l’importanza del mare e della blue economy per il sistema-Paese è segnalata dall’elevato ritorno garantito dagli investimenti in blue economy. Luca Sisto e Matteo Pellizzari, in un capitolo del saggio Geopolitica del mare, hanno analizzato dettagliatamente i numeri del valore aggiunto prodotto dal cluster marittimo: esso “contribuisce al prodotto interno lordo nazionale per 31,6 miliardi di euro (2,03%) e dà occupazione a circa il 2% della forza lavoro del Paese (471mila persone)” tra addetti e indotto. Risulta inoltre importante il fatto che il moltiplicatore del reddito e dell’occupazione siano pari rispettivamente a 2,63 e 2,77[9].

Una riflessione in particolare merita la questione infrastrutturale legata al ruolo delle autorità portuali. Esse sono state soggette alle dinamiche di sviluppo del Piano strategico per la portualità promosso dal governo Renzi, che si riproponeva l’obiettivo ambizioso di “fare sistema”. Tuttavia, nelle iniziative politiche a lungo termine poca chiarezza è stata fatta su quale scalo tra i principali (da Genova a Trieste, da Napoli a Taranto) dovesse acquisire maggiore centralità. Molto si è discusso, in particolare, del capoluogo giuliano, a lungo interessato da manovre cinesi funzionali alla ricerca di uno scalo italiano da inserire nel quadro della Nuova via della seta[10], opportunità ritenuta interessante anche dall’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, secondo il quale ““Noi italiani abbiamo una possibilità straordinaria. I cinesi sono interessati a Trieste e Venezia, ce lo hanno detto chiaramente […]. Possiamo trasformare Venezia o il golfo di Trieste in uno degli snodi principali per i commerci che transitano verso il Nord Europa. Dovremmo cogliere al volo questa occasione. Fare arrivare ai nostri porti qualche centinaia di milioni di container provenienti dal Sud e che passano dal Canale di Suez, vuol dire risparmiare 15 giorni di navigazione intorno all’Africa”[11].

Il porto di Trieste, tra i maggiori scali italiani nel Mediterraneo

Tuttavia, l’aumento della competizione geopolitica tra Stati Uniti e Cina e lo scarso approccio sistemico dell’Italia ai rapporti con la Repubblica Popolare, oltre al vuoto decisionale sulle rimanenti infrastrutture strategiche hanno portato a una scarsa concretizzazione di questi nuovi scenari. Ben più ampia la visione della Germania, che per mezzo dell’autorità pubblica che gestisce il porto di Amburgo, Hhna, tra settembre e ottobre 2020 ha formalizzato un investimento miliardario nello scalo giuliano, risultando ben più consapevole rispetto a Roma delle opportunità dell’integrazione infrastrutturale tra le piattaforme industriali del Nord Italia e il cuore dell’Europa[12].

Sui porti, andrebbe garantita maggiore coordinazione tra i ruoli dei diversi scali (tipologie di merci e materie trasportate, subalternità dei porti minori a una ridotta serie di hub principali) e impostata un’accelerazione sulla costruzione di reti di trasporto intermodale, vincolando alla presenza di attori nazionali le alleanze con attori esteri. Non giocare la partita dei porti significa escludersi volontariamente dalla corsa strategica che coinvolge il Mediterraneo: e lo stesso vale anche per il sempre più caldo fronte energetico.

Pensare strategicamente la politica energetica mediterranea

La politica energetica del nostro Paese è fortemente vincolata all’agenda mediterranea, ma la risultante delle azioni intraprese negli ultimi anni ha condotto a scelte molto spesso contraddittorie. Questo per un’ampia gamma di fattori: in primo luogo, la difficoltà per il sistema-Paese istituzionale di ampliare il raggio d’azione e sfruttare come moltiplicatore di potenza[13] l’azione dei “campioni nazionali” del settore (Eni[14], Snam e Saipem soprattutto), che troppo spesso, come ricordato con lucidità da Alessandro Aresu[15], si trovano a dover svolgere una funzione di supplenza dell’azione politica; in secondo luogo, per la cronica difficoltà nel definire la strategia ideale per il mix energetico nazionale e cavalcare, di conseguenza, la svolta graduale verso la predominanza nel gas naturale, risorsa oltremodo contesa nel contesto mediterraneo; infine, proprio per i continui dietrofront e le incertezze che, dall’archiviazione definitiva del progetto South Stream nel 2014, ha caratterizzato la politica infrastrutturale connessa allo sviluppo dei gasdotti.

Trasversale a ciò è la discutibile scelta perseguita dai due più recenti esecutivi di “castrare” il settore nazionale di estrazione[16] riducendo gli spazi di manovra per l’estrazione di gas e petrolio nell’offshore nazionale.

Il “MED & Italian Energy Report” realizzato dal già citato centro studi Srm e dall’Esl@Energy Center del Dipartimento energia del Politecnico di Torino, studio a cui hanno collaborato il “Joint Research Center” della Commissione europea e la Fondazione Matching Energies ha nel 2019 misurato con precisione la dipendenza energetica del sistema Paese: “L’Italia ha il grado più elevato di dipendenza energetica dall’estero tra i maggiori paesi europei: il 78,6% contro il 47,3% della Francia, il 64% della Germania e il 76,3% della Spagna. Per il gas naturale, il peso dell’import è superiore al 90% (contro una media Ue di circa il 70%[17]”. Tutto questo nonostante una crescente spinta verso l’efficienza energetica e la valorizzazione delle rinnovabili che ha determinato rilevanti risparmi di energia stimati, nel periodo 2014-2018, in circa 11,8 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio[18].

Il giacimento Eni di “Zohr”

Economia e geopolitica sono profondamente interrelate nel contesto dell’energia: fattispecie ancor più vera quando si fa riferimento all’animato teatro mediterraneo, reso estremamente competitivo dalla crescente sovrapposizione di interessi divergenti legati principalmente al gas naturale: dal giacimento egiziano “Zohr” a quello israeliano “Leviathan” nuovi giacimenti ridisegnano la geografia delle disponibilità energetiche; Stati estremamente dinamici come la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, in maniera molto spesso “corsara” sfruttano interpretazioni elastiche del diritto internazionale o vuoti di potere per inserirsi attivamente nella competizione per la sicurezza energetica nelle acque del Mediterraneo orientale; sul “Grande Mare” si proiettano poi le ombre della guerra fredda del gas[19] tra Stati Uniti e Russia, con Washington che ha promosso iniziative regionali (come l’alleanza greco-cipriota-israeliana che ha dato origine a EastMed) per silurare l’influenza del Cremlino.

Si aggiunga a ciò la spinta mondiale verso la decarbonizzazione, che porta gli attori più pragmatici, e i grandi colossi para-statali quali Eni e la francese Total, a puntare molte carte sull’oro blu. In un’intervista ad Avvenirel’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi ha usato toni di grande rilevanza politica sottolineando la necessità di riplasmare i rapporti economici tra le diverse sponde del Mediterraneo e evidenziando che “esistono singole volontà di supremazia ispirate a interessi geopolitici” che hanno il loro epicentro proprio nel gas naturale[20]. Realtà fattuale troppo spesso negata dall’Italia.

Presidiare le rotte del gas, diversificare fonti e fornitori in funzione della necessità e procedere a un riassetto del paniere di importazioni e produzioni interne per ridurre la dipendenza dai mercati stranieri e dalle tensioni geopolitiche del Mediterraneo è una sfida cruciale per il sistema-Paese[21].

Questo si riflette in altrettante necessità operative.  In ordine crescente di distanza dal Paese, abbiamo la necessità di promuovere il rilancio dell’offshore gasiero adriatico abbandonato dal governo giallo-verde nel 2018-2019; la spinta a gestire le importazioni energetiche nordafricane (gas e, in misura ora minore, petrolio) tutelando e valorizzando la posizione italiana in Libia e Algeria; l’obbligo di fare i conti con la sempre più complessa contesa Mediterraneo orientale in cui, grazie ai nuovi giacimenti Zohr (Egitto, scoperto da Eni) e Leviathan (Israele) si sta sviluppando un nuovo hub regionale del gas e in cui, come detto, Erdogan appare come il cane sciolto e, come ha ricordato l’analista Mirko Mussetti nel suo pregevole saggio Axeinos!, il vero rivale strategico del nostro Paese[22]. Attivismo in Libia e mosse spericolate a Cipro insegnano.

Per gestire al meglio questa complessità, occorre capire che il sistema mediterraneo è tutt’altro che resiliente a shock politici o scenari imprevisti, e dunque risulta necessario una strategia geopolitica capace di bilanciare opportunità e rischi, e non destinata a mutare al variare delle coalizioni di governo o delle pressioni esterne, come accaduto nel contesto dell’addio a South Stream o nell’adesione frettolosa al consorzio EastMed a fianco di un Paese, la Grecia, che (legittimamente) era favorito dal lassismo italiano sul gas naturale e poteva dunque progettare di esportare l’oro blu estratto al confine tra le acque territoriali non presidiate da Roma[23].

L’accettazione del gas azero trasportato dal gasdotto Tap, al contempo, fa venire crescenti dubbi sulle motivazioni strategiche che, ai tempi della crisi ucraina del 2014, hanno definitivamente affondato South Stream, negoziato con forza bipartisan dai governi di Romano Prodi e Silvio Berlusconi nel primo decennio del nuovo secolo, e sulle favorevoli conseguenze sulla diversificazione energetica che la coesistenza dei due gasdotti avrebbe potuto garantire.

L’Italia e la Marina Militare nel Mediterraneo allargato

Economia ed energia sono dossier caldi e fondamentali che vanno coniugati con gli aspetti securitari che trasversalmente impattano con le dinamiche odierne del Mediterraneo. Il “Grande Mare” si affaccia su un arco di crisi che, dalla Libia al Medio Oriente, è stato notevolmente perturbato negli ultimi anni e per il nostro Paese le necessità securitarie impongono ragionamenti di ordine sistemico.

Dall’approvvigionamento delle fonti energetiche al libero mantenimento dei traffici marittimi, passando per la tutela degli asset italiani (dalle forze stanziate oltreconfine alle imprese presenti nel bacino del Mediterraneo) la proiezione strategica e militare nazionale è funzionale all’obiettivo di Roma di ottenere un contesto mediterraneo stabilizzato e in cui sia garantita la pacifica circolazione dei vascelli e degli scambi.

Nell’elaborazione strategica di Roma il concetto di sicurezza nei teatri marittimi non prende solo in considerazione il Mare Nostrum di romana memoria ma “quell’area che ha il nostro mare come bacino principale” ed è collegata “a tutti i mari e a tutte le aree che lo circondano e che, apparentemente, non rientrano nel suo ambito. Il Mediterraneo per come lo intendiamo noi è un mare piccolo, semichiuso, fondamentalmente secondario nelle logiche delle grandi potenze internazionali. Ma preso insieme ad altre aree ed altri bacini ad esso vicini o collegati culturalmente, politicamente e geograficamente, il Mediterraneo diventa il centro di interessi strategici fondamentali che ad esso sono connessi[24]”. Si parla dunque di “Mediterraneo allargato” coinvolgendo nello scenario geopolitico di riferimento il Mar Rosso, il Corno d’Africa, il Mar Nero, le sponde atlantiche dell’Africa settentrionale e, in profondità, il Sahel, legato strategicamente al Mediterraneo in quanto centrale nella rotta migratoria.

L’arrivo della portaerei “Cavour” a Norfolk, in Virginia, il 14 febbraio scorso

Da diversi decenni la Marina Militare, capace di adottare visioni strategiche complementari a quelle dell’Alleanza Atlantica, ha sviluppato una sensibilità geostrategica non sempre corrisposta dalla visione “continentale” della politica nazionale e in grado di travalicare la tradizionale visione eurocentrica delle priorità securitarie del Paese[25]. La Marina, ha ricordato l’analista Alberto De Sanctis, “appartiene al novero delle flotte europee di punta in termini di capacità belliche, bilanciamento complessivo, qualità dei mezzi e preparazione del personale[26]” e mantiene una grande capacità di elaborazione strategica.

Le linee guida della Marina, ha scritto Amedeo Maddaluno su Eurasia, non mettono in discussione il collocamento atlantico della forza navale italiana ma riconoscono la nascita di uno scenario multipolare in luogo di quello unipolare a guida statunitense, ribadendo, in evidente anticipo sulla politica, la presenza di un “interesse nazionale proprio, non sacrificabile sull’altare dell’Occidente”, che passa in larga parte per la sicurezza del Mediterraneo allargato[27].

La sicurezza economica, assieme a quella energetica, rientra senz’altro nel perimetro della sicurezza nazionale[28] ma non è chiaramente ad essa sovrapponibile. La Marina Militare ha saputo, negli ultimi tempi, garantire il presidio alla sicurezza nazionale italiana nel teatro del Mediterraneo allargato con operazioni anti-pirateria nel Golfo di Aden e nel Golfo di Guinea[29], con il contro-bilanciamento dell’attivismo turco nelle acque di Cipro, con la conduzione delle operazioni nelle acque oggetto di movimenti migratori, col sostegno alle Marine dei Paesi alleati e con il rafforzamento delle capacità di Maritime State building della vicina Libia. A partire dalla Legge Navale del 1975 lo sviluppo della flotta ha seguito l’intuizione dell’ammiraglio Gino de Giorgi secondo cui il mare e gli oceani sarebbero diventati un fondamentale terreno di confronto e, per dirla con l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, il Lungotevere delle Navi è stato in grado di “capire la situazione geostrategica contemporanea e le future prospettive di evoluzione, richiamando l’attenzione della classe politica sull’obiettivo di evitare il declino della Marina[30]”. Gli stanziamenti degli ultimi anni hanno aumentato le disponibilità materiali della Marina, incrementando la disponibilità di naviglio multimissione adatto all’operatività autonoma in alto mare[31]. La crescente valorizzazione della capacità aeronavale[32], il progetto di fregate FREMM e il varo di unità di punta quali la nuova nave “Trieste” vanno nella direzione di aumentare le frecce all’arco della Marina Militare, favorirne l’operatività in diversi contesti ambientali e unire a una crescita qualitativa e quantitativa dei mezzi a disposizione anche una preparazione ai diversi tipi di confronto strategico e militare del XXI secolo.

La nuova sfida appare la corsa crescente alla territorializzazione del mare che sta andando in scena in tutto il bacino del Mediterraneo, attraverso la proclamazione di “Zone economiche esclusive” sulle acque territoriali secondo le prescrizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, una partita in cui Turchia, Libia, Grecia, Algeria sono, ai confini marittimi del Paese, intente a partecipare con forza e in cui anche Roma sta definendo le sue modalità di inserimento[33].

Non va inoltre sottovalutata l’attenzione prestata da Palazzo Marina per il nuovo dominio della competizione geopolitica e geostrategica, lo spazio, manifestata nel 2020 dalla creazione all’interno della Marina Militare di un Ufficio Spazio e Innovazione Tecnologica, fortemente voluta  dal Capo di Stato Maggiore, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, che nelle linee guida strategiche per l’arma navale ha ricordato  che “la Marina è chiamata nel quadro interforze a contribuire anche al potenziamento delle dimensioni cibernetica e spaziale”. Tali prospettive saranno in futuro suscettibili di un ulteriore e considerevole ampliamento, come ha avuto modo di ricordare Lorenzo Vita su Analisi Difesa[34]: “l’incrociatore portaelicotteri Garibaldi è diventato infatti oggetto di un ampio lavoro di ammodernamento che rientra nel progetto “SIMONA” (Sistema Italiano Messa in Orbita da Nave). L’obiettivo di questa iniziativa è quello di studiare la possibilità che il Garibaldi venga impiegato come piattaforma di lancio per satelliti”, aprendo dunque alla possibilità di un rafforzamento delle capacità di accesso autonome del nostro Paese allo spazio e alla partita economica e geopolitica che ruota attorno ad esso[35].



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