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Vasco Brondi, Un segno di vita in un mondo in crisi

Vasco Brondi, Un segno di Vita in un mondo in crisi
Fermata Spettacolo

Avevamo lasciato Vasco Brondi subito dopo la pandemia, con Paesaggio dopo la battaglia, una sorta di diario del lockdown, personale e di un intero paese.

Sono passati tre anni e sembrano molti di più. Un segno di vita esce in un mondo che appare cambiato e non in meglio. Soffiano ovunque venti di guerra, le democrazie si rivelano sempre più deboli e incapaci di gestire crisi e conflitti, il pianeta brucia e la politica alza bandiera bianca. E noi a vivere tutto ciò in modo quasi indiretto, mediato, da dietro gli schermi dei nostri cellulari.

In questo contesto poco rassicurante, il quarantenne Brondi – al secondo album in studio con il suo nome dopo i quattro firmati Le luci della centrale elettrica – si conferma uno dei migliori cantautori della sua generazione proprio per la capacità di descrivere il mondo in cui ci muoviamo, con un linguaggio sempre realistico ma non didascalico, concreto e poetico, intimo e universale allo stesso tempo.

Pubblicato da Carosello Records, Un segno di vita – che nella versione fisica è abbinato a un libro che ne racconta la genesi – è musicalmente più diretto dei precedenti, anche più pop (sebbene un “pop impopolare”, come lui stesso lo ha definito).

Brondi, al solito, ci fa tenere lo sguardo dritto per vedere ciò che accade e poi ce lo fa alzare, per renderci consapevoli che quello che vediamo al primo sguardo non è tutto. Lo fa con i suoi consueti contrasti di immagini e concetti: periferie urbane e galassie, alberi e cattedrali, traffico cittadino e apocalisse, immortalità e guerra, amori quotidiani e attrazioni cosmiche.

C’è anche la voce di Nada, nella canzone Fuoco dentro, ma le donne sono presenti in tutto l’album, come protagoniste o destinatarie delle canzoni. Donne reali o immaginate – chi lo sa, forse una cosa e l’altra – che racchiudono e vivono sulla loro pelle l’essenza di questi tempi. Donne che a volte sprofondano all’inferno ma che tornano a galla grazie a una primordiale forza femminile, che sembra dire al resto dell’umanità: ce la possiamo fare.

Come Sara nel brano di apertura, Illumina tutto, che “ritroverà un po’ di buona sorte” e poi “la fame, la sete di vita, un vecchio pianoforte. E poi sentirà ancora un fuoco dentro, un fuoco che brucia, ma illumina tutto”. E continuerà a credere che “c’è vita oltre gli schermi”.

Il fuoco è l’elemento ricorrente del disco (uno dei pezzi più radiofonici, per dire, è Incendio). Fuoco che distrugge e che rigenera, che acceca e illumina. E si intravede già – o meglio si profetizza – quello che riemergerà dalle fiamme, se e quando giungerà al termine la folle corsa che abbiamo impresso al nostro mondo: si rivedranno segni di vita, “i germogli di Hiroshima e una pioggia infinita”, le pianure torneranno a essere boschi, “con meno case e più templi, più dèi che abitanti, torneranno i canti e i venti forti, torneranno i fuochi e le stelle accecanti” (dalla canzone che dà il nome all’album).

E se poi questo non dovesse accadere, basterà dire anzi quasi recitare, su una musica che è come una carezza, l’ultima frase dell’ultima canzone, La stagione buona: “Dammi il coraggio di ridere di un sogno, se non si può esaudire”.

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