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Quando la Lupa muta in desperate housewife

Quando la Lupa muta in desperate housewife
Fermata Spettacolo

“Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna – e pure non era più giovane – era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e Delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano”. La Lupa, così descritta, è il personaggio al centro de La vita dei campi, una raccolta di novelle di ambiente siciliano con cui Giovanni Verga lasciò definitivamente da parte la società salottiera ed elegante che aveva costituito lo sfondo dei suoi primi romanzi.

Di tutte le sue novelle e di tutti i drammi da quelle derivati, La Lupa è forse la più moderna, o meglio contemporanea, non è un caso che ne siano state fatte, nel tempo, tante trasposizioni in teatro e al cinema: si cimenta nell’impresa, dunque, anche Donatella Finocchiaro, in duplice veste d’interprete e – per la prima volta – di regista, in questo allestimento da stasera qui al Teatro San Ferdinando di Napoli. Il compito della pur brava attrice siciliana non è, nonostante il gran numero di precedenti, cosa facile: rendere Verga sul palcoscenico non è mai stato agevole, nonostante le apparenze.

Perché esiste una poesia di parole, dove la ricerca si sposa con la lettera, il suono ha un valore in sé, ogni sillaba risuona perfetta nella sinfonia dell’insieme che è lacrima e riso, pianto e allegria di solitudini; ma esiste pure un’altra poesia, quella delle cose, che non è fatta, come le parole, di pure immagini, ma di carne e sangue e ossa, e poi di pietra e legno, d’acqua e sensi.

Mentre la prima costruisce meravigliose architetture iridescenti fatte di luce e palpiti, che stupiscono, all’inizio, per la loro fantasmagorica luminescenza, finendo tuttavia, dopo un po’, irrimediabilmente per stancare – per sazietà – chi guarda e ascolta, la seconda edifica solite costruzioni fatte di realtà, l’indiscreto fascino Delle Cose che tocchi, odori, scruti, lecchi, assaggi, in un turbinio perfino irriguardoso dei sensi.

Così Luigi Pirandello, in un famoso discorso pronunciato all’Accademia d’Italia per il cinquantenario dei Malavoglia, individuava due filoni, due ben distinte e quasi parallele categorie di scrittori che sono, per l’appunto, poeti della parola e poeti delle cose: distingueva, lui, allora, seguendo l’evoluzione della letteratura italiana fino a quel momento, le due diverse istanze, incarnate di volta in volta, seguendo il percorso della storia delle lettere, da Petrarca e Dante, Guicciardini e Machiavelli, Tasso e Ariosto, Monti e Leopardi, per finire, per l’appunto, con D’Annunzio e Verga, i primi di gran successo, perché in questa nostra Italia miracolo di sensi e di valori ha più diritto di cittadinanza chi sa dire più parole che cose.

Perché può riuscire difficile, oggi come allora, insopportabile, addirittura, l’onere di chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire: ma a quelle cose, alla fine, si ritorna. A Dante, sempre, si ritorna. Si ritorna a Machiavelli. Si ritorna all’Ariosto. Si ritorna al Leopardi e al Manzoni. E si ritorna a Giovanni Verga. Al più antiletterario degli scrittori Italiani, autore di una poesia – e di una lingua – idiotica, che vuol dire propria, autentica, lontana da ogni affettazione letteraria, alla sua Lupa, ritratto impietoso e materico di una scontrosa femminilità, incarnazione di una sessualità primigenia, che non trova pace se non nell’inquieta, incontrollabile istintività quasi animalesca.

E tuttavia vittima di uno strano destino, che poi, a pensarci bene bene, tanto bislacco non è, date le premesse: perché spesso da una novella scontrosa e acerba, durissima come pietra, imbevuta d’umori e di secrezioni, lui stesso, il Verga, trasse, magari anche in omaggio alla Diva del momento, una riduzione teatrale, e già la definizione diventa una programmatica sentenza, di molto ammorbidendo quei duri e acuminati sassi originali e trasformando l’insopportabile odor di selvatico e sudore rappreso in più raffinate e dolci fragranze; più tardi, poi, da quella già edulcorata riduzione, qualcun altro, magari, riusciva a trarre qualcosa d’ancor più distante, di molto, molto più vicino, a questo punto, alla poesia delle parole che a quella delle cose, mille miglia lontano da ciò di cui si era partiti.

Sorte toccata, questa d’un progressivo decadimento, tutto sommato, dalle forme dure e pure originali ad un diverso destino, a Cavalleria rusticana, nata come durissima narrazione sull’epica delle cose, e delle cose possedute, materica poesia d’avidità cupida e ingorda, pur se paradossalmente lazzara e misera, trasposta sulle scene in dramma borghese per l’interpretazione della grande Eleonora Duse, in cui già tutto diventa più aggraziato, più civilmente corretto, più appetibile dal gran pubblico dei teatri, per esser poi tradotta – e dunque doverosamente tradita – dalla versione di Mascagni, in cui la fame e la miseria vengon trasmutati addirittura, sotto l’esile patina verista, in melodramma – che del dramma costituisce l’epos – ultimoromantico dell’amore e della gelosia, causando addirittura un lunghissimo contenzioso giudiziario tra lo scrittore e il musicista.

Il fatto è che lo stesso Verga, eccelso scrittore della nuda parola, sa esser magnifico quando può accennare e sottilmente alludere, molto meno quando dev’esser, per forza di cose, più esplicito, come necessariamente deve avvenire nel dramma teatrale, prestando facilmente il fianco alla banalizzazione, al fraintendimento, alla facile volgarizzazione, all’inevitabile decadimento: La Lupa subisce la stessa sorte, percorrendo una strada in cui la perfezione vigorosa e sobria della novella scade, nel passaggio dalla parola scritta alla scena, in toni letterari affettati e innaturali, i cenni nervosi del racconto vengono ampliati, spiegati, dilatati e giocoforza diluiti in un particolarismo descrittivo del tutto contrapposto all’allusività e al mistero del logos, la stessa terribile e sulfurea protagonista assume inevitabilmente sembianze di Maga dal gusto classico, quasi ariostesco, scadendo addirittura in caricata civetteria.

E quando, poi, dalla Lupa già edulcorata della scena verghiana ne son state tratte cose diverse, dal cinema o dalla lirica o dal teatro, il processo si è inevitabilmente vieppiù accentuato, cercando tra l’altro di trasporre in tempi più vicini la vicenda, intercettando anche temi per noi più appetibili, come il contrasto generazionale o il femminicidio, operazioni non solo legittime, si badi, ma addirittura doverose, se portate avanti in coerenza.

Il problema vero è che tale coerenza stilistica e d’intenti va ricercata – e trovata – con il dramma, e quella occorre analizzare e indagare, non già con l’originaria novella, sbaglierebbe chi si provasse a confrontare il risultato dell’oggi, portato sulla scena o sul set cinematografico, con la parola scritta e terribile di Vita dei campi, pubblicata nel 1880, che è in qualche modo il manifesto programmatico e politico dello scrittore siciliano, poesia dei miseri e dei vinti, in tanti aspetti simili alla cultura dello scarto di cui ci parla Francesco.

Aiutata dunque anche da Luana Rondinelli che cura la trasposizione dal dramma verghiano e, insieme, anche la drammaturgia, si cimenta dunque Finocchiaro nella non facile impresa di render più comprensibile per noi contemporanei ciò che Verga scrisse quasi centocinquant’anni fa, accentuando alcuni aspetti a noi più vicini, anche per l’attualità, come la violenza di genere, il conflitto familiare, l’odio sociale, la libertà e i condizionamenti: lodevole intento, naturalmente, son tutte tematiche sicuramente presenti all’interno della poetica dell’Autore e in questo dramma in particolare, in questi casi tuttavia bisogna star ben attenti a non perder del tutto orditi e trame originali, rischiando di far cosa in tutto diversa da ciò da cui si era partiti e poi occorre conservare pure, sebbene aggiornata, una coerenza stilistica che, nonostante il necessario maquillage ti faccia riconoscer subito, a colpo d’occhio, l’originale da cui s’era partiti. Il rischio è che, nonostante le ottime intenzioni, si possa andar fuori tema, esagerare, sbandare nelle curve, perdersi per strada cose importanti per far risaltare, invece e per contrasto, particolari insignificanti: spesso, come purtroppo son costretto a ripetere, le vie dell’inferno son lastricate di buone intenzioni.

Così, a partire già dalle coordinate spaziotemporali in cui Finocchiaro e Rondinelli provvedono a immergerci all’inizio, confesso di essermi trovato, fin da subito, un po’ a disagio: una storia e una geografia, quelle proposte, entrambe un po’ epidermiche, a metà tra il posticcio e il serial televisivo. Per ciò che concerne la geografia, non si ravvisano tracce, in questo esibire segni e sacramenti d’una sicilianità più che altro letteraria e convenzionale, della lubrica mutevolezza duttile dantesca (non dell’Alighieri, naturalmente, dell’Emma, intendo, il cui nome e il cui stile viene metaforicamente invocato invano più volte, nel corso della pièce): non trapassano, quei segni, l’intorpidimento asettico del concreto, non vanno oltre l’indicare sé a se stessi, ottusi e opachi simulacri materici non risultano suscettibili di alcuna trasmutazione né di senso né di funzione.

In tal modo covoni, attrezzi, utensili, lenzuola stese ad asciugare, tavoli per mangiare e bere, che la scena disegnata da Vincenzo La Mendola vanno a costruire, altro non hanno che mera attribuzione decorativa, semplici e vacui indicatori di coordinate geografiche, privi, per l’appunto, di quella poesia delle cose di cui, invece, dovrebbero essere portatori e protagonisti: così pure gli abiti, che invece provvedono ad una più sostanziale informazione storica, ci aiutano, sì, a situare la vicenda non più nella bella époque del fin de siècle dell’originale Vita dei campi per portarsi a quelli, invece, in teoria più vicini alla nostra contemporaneità, di ottant’anni dopo, nei fatidici anni Sessanta del Secolo breve, ma poco sembra essere cambiato, in verità, in quel mondo contadino.

E ti sembra allora che quegli anni, a cavallo tra una tradizione dura a morire e un rinnovamento che a stento allora nasceva, siano stati scelti unicamente in virtù della nostalgia canaglia che tanto sanno suscitare, in questa nostra quotidianità così avvezza a guardare indietro, ad un passato fascinoso per definizione piuttosto che sfidare l’avvenire incognito e buio: così è anche per il tappeto sonoro utilizzato, trapassano le musiche originali di Vincenzo Gangi nel twist e nello shake d’ordinanza in quegli anni.

Ecco, la colonna sonora così congegnata poteva essere l’occasione di un approfondimento su quegli anni stupendi e drammatici, non son solo canzonette quelle di Gianni Morandi, Rita Pavone, Nancy Sinatra, si accompagnano e sfumano senza soluzione di continuità nella marcia funebre delle lussureggianti processioni della Settimana Santa siciliana, e in un originale coro di prefiche nerosciallate intente a spiluccare lupini: si perde, tuttavia, pure quest’opportunità, tutti i rimandi musicali, come per i tocchi visivi di sicilianità di cui abbiamo detto, rimangono fini a se stessi, non travalicano mai il limite della pura citazione, del mero dato temporale, ed è un vero peccato, soprattutto per il coro di donne che, ben sfruttato, avrebbe potuto trascinare tutto il dramma in una dimensiona altra, ben lontana dal naturalismo stretto in cui sembra essere costretto ad asfitticamente affogare.

E si va avanti invece stancamente così, alternando buone idee che però non vengono adeguatamente sfruttate o inquadrate in una drammaturgia coerente, a momenti di bonaccia in cui si affolla la scena d’inutili e incoerenti gesti affannati e di grida esaltate e vacue – si pensa forse che le plebi si muovano e parlino così? – a mascherare una drammatica carenza d’ispirazione, i personaggi si muovono in un contesto naturalistico ma del tutto avulsi da quello, seguendo un loro percorso personale, l’amour fou della Pina, le vergognose ritrosie della Mara, gli esaltati infoiamenti del Nanni, cui si aggiungono poi i desideri repressi di desperate housewives in salsa sicula che si esibiscono pure in una sorta di baccanale de noantri, nostalgiche di prestazioni maritali che fanno intendere ben al di sotto di qualunque ragionevole media e i contorcimenti bigotti del prete – figura di pura invenzione – messo lì a evidente simbolo del potere oscurantista della Chiesa che impedisce il libero corso di pulsioni e struggimenti assortiti, più volte rischiando, il tutto, l’involontario umorismo della macchietta, della farsa sbracata, della parodia, tanto più evidente, lo spirito caricaturale e accidentalmente grottesco, nel finale ultimo.

Se la novella – autentica poesia delle cose – terminava col baluginìo della luce sul filo dell’ascia, se nel dramma verghiano la tela calava all’alzarsi implacabile della stessa scure omicida – già sconfinando in poesia delle parole –  qui, invece, non solo il femminicidio ci viene mostrato in piena luce ma, data l’atmosfera pasquale, si procede all’immediata beatificazione della Lupa, non più ferina e oscura fattucchiera animata da animalesche bramosie ma, al contrario e per oscuro contrappasso, santa subito, innalzata alla gloria di popolareschi altari con tanto di luminaria paesana a coronarle il capo, a tranquillizzare le coscienze borghesi, vinto del tutto il demone meridiano della devianza, assimilato, normalizzato per la gioia di tutti. Amen.

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