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Improvvisamente, lo scorso Agosto a Osage County

Improvvisamente, lo scorso Agosto a Osage County
Fermata Spettacolo

Non dà tregua, la violenza del rancore, quando la Famiglia Weston si riunisce nella Casa di famiglia, nella Contea di Osage, in Oklahoma, terre strappate agli indiani tanto tempo fa: riemergono reciproci risentimenti, antichi rimossi, rancori mai sopiti. E qualche scheletro nell’armadio. Tracy Letts, scrittore, attore e drammaturgo statunitense oggi quasi sessantenne, si è guadagnato un Pulitzer per questa pièce, nel 2008, considerata uno dei più riusciti ritratti di famiglia disfunzionale contemporanea, nel cuore dell’America profonda, la stessa impietosamente dipinta negli anni Cinquanta e Sessanta da Norman Rockwell, ma senza più alcun realismo romantico e poesia, lasciando in bocca solo un acido retrogusto amaro. Diventata anche un film di gran successo nel 2013, con Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan McGregor e Juliette Lewis – per citare solo i più conosciuti – viene oggi  (ri)portata in teatro e in Italia grazie a Filippo Dini – che ne cura anche la regia – Anna Bonaiuto e Manuela Mandracchia, in questa produzione del Teatro Stabile di Torino che arriva ora anche a Napoli, al Teatro Bellini.

Scrive Tracy Letts: «La speranza di ogni drammaturgo è quella di poter attingere, attraverso la narrazione, a temi universali. Con molti americani condivido la storia di famiglie – per lo più discendenti di agricoltori irlandesi, tedeschi o olandesi – che hanno forgiato la loro etica dagli anni della Depressione fino al Baby Boom. Condivido il conflitto multigenerazionale che inevitabilmente nasce quando coloro che non hanno nulla hanno lasciato il loro orgoglio e il loro senso di colpa a coloro che non hanno voluto nulla. August: Osage County è il mio tentativo di esplorare questo scisma generazionale e la sensibilità del Midwest, perché, come disse Sam Shepard quando gli chiesero perché scrivesse così tanto sulla famiglia: “Che altro c’è?”. August: Osage County ci può dare una possibilità per imparare come le dinamiche della “famiglia” continuino a plasmare noi e il nostro approccio al mondo».

È un doloroso percorso, dunque, ambientato nella Contea di Osage, in Oklahoma, resa famosa anche da un altro recente film di Martin Scorzese, Killers of the Flower Moon, in cui i membri della Nazione Osage di Nativi Americani si scoprono ricchissimi per il petrolio nel loro territorio ma “incompetenti” per la legge dei bianchi ad amministrare tale enorme quantità di denaro, per cui dovranno affidarsi al tutoraggio non sempre corretto di qualche bianco, un’altra storiaccia di razzismo e di cupidigia che non avremmo voluto conoscere. Pure, così parlandone, sembra una storia tutta americana, tuttavia, a ben vedere, si tratta in fondo di un particolare punto di vista, quello per l’appunto della profonda provincia statunitense, sulla famiglia e sulle sue disfunzioni, quella stessa famiglia borghese di cui la letteratura europea ha sempre esplorato e scandagliato aspetti latenti e sordidi, quella di cui Tolstoj, con una locuzione diventata purtroppo luogo comune, diceva somigliarsi tutte quando felici ma, se infelici, di esserlo ciascuna a suo modo. In questo caso, per l’appunto, si tratta di una famiglia infelice, e il suo modo di esserlo sembra dei peggiori, corrosivo e distruttivo, durissimo ed enormemente doloroso: mescolando abilmente umorismo nero e dramma familiare, nonostante le tematiche pesanti e le tensioni emotive, Letts riesce perfino a inserire momenti di straniante comicità per bilanciare il tono complessivamente oscuro della storia.

La grande maestria dell’Autore sta soprattutto nel dipingere i personaggi con tratti psicologici distintivi, ognuno di essi porta con sé una storia complicata e inconfessati segreti, la casa a Osage County diventa allora un microcosmo dove è possibile osservare con la lente distaccata dell’entomologo i conflitti familiari, offrendo poi una riflessione più ampia sulla società contemporanea: emergono, a un più approfondito livello, le critiche sociali sottese nella pièce, affrontando le dinamiche familiari tradizionali con sguardo critico e tagliente.

Così l’ambiente stesso dove tutto si svolge è una grande casa d’epoca da cui sarebbe possibile, in linea teorica, abbracciare con lo sguardo gli infiniti spazi delle Grandi Pianure, e perdersi, lasciandosi scivolare addosso il dolore: in realtà, invece, ci troviamo alla periferia di una piccola città al confine con il nulla, quella stessa casa, in apparenza così grande e ospitale, dove ora vivono Violet e Beverly Weston e la loro ultima figlia Ivy, è ormai una soffocante e asfissiante prigione, assediata dal caldo insopportabile dell’agosto torrido e dalla sete d’aria e d’amore che Ormai isola la casa dal mondo esterno, il matrimonio dei due è ormai sostenibile solo con l’ausilio di droghe, alcol per lui e infiniti e svariati psicofarmaci per lei.

Lui (Fabrizio Contri) è stato un tempo poeta, negli anni Sessanta la sua raccolta di poesie L’allodola gli ha fruttato una docenza universitaria, un grande avvenire ormai alle spalle, insomma, che ha lasciato il posto alla depressione e all’isolamento, sopravvive grazie al rapporto con i libri della sua biblioteca, cita non a caso T. S. Eliot, poeta dell’alienazione e della solitudine dell’artista, contrapponendo, in una sorta di mythical method applicato a se stesso, un passato che percepisce di grande e profonda ricchezza emotiva e spirituale al presente che vive invece come arido e sterile e vuoto.

Eliot, significativamente, i suoi uomini vuoti, uomini impagliati privati della vista, non è l’unico poeta ad essere citato nella pièce, una poesia di Howard Stark dà addirittura il titolo all’intero dramma e ne diventa epigrafe, ritraendo una famiglia riunita per la morte d’una anziana signora, il cui respiro calmo sfuma nel silenzio, mentre noi alziamo lo sguardo dalle zone aride verso l’alto, dove le nuvole diventano nere; Emily Dickinson viene invece citata da Violet al funerale del marito, poiché non potevo fermarmi per la Morte, lei gentilmente si fermò per me, solo garza il mio vestito il mio mantello di tulle: testimonia, quest’insistito ricorrere al verso che sana, che salva, che ricompone, una ricerca, da parte dell’Autore, di un superiore senso che innalzi, questa parabola di rancore e violenza, da mera cronaca a paradigma di una Storia comune che in qualche modo possa incrociare le nostre quotidiane vicende.

Così, lo sorprendiamo, Beverly, all’inizio, ricevere nel suo studio una giovane Cheyenne, un’indiana, Johanna (Valentina Spalletta Tavella), la figlia del fruttivendolo, che assumerà come governante con il compito preciso di badare alla casa ma soprattutto di assistere la moglie Violet (Anna Bonaiuto), affetta da un cancro alla bocca: personaggio complesso, questo, ricco di contraddizioni e antinomie, occupa un ruolo centrale nella trama come punto focale di tensione e dramma.

La grande casa è il regno in cui attira e respinge le sue vittime allo stesso tempo, come un ragno al centro della ragnatela, instancabilmente ne percorre i corridoi bui e silenziosi, in giorni ormai indistinguibili dalle notti, la sua improbabile parrucca biondo platino è insieme strumento di fascino e tortura come il cespo di serpenti in testa alla Gorgone, ingurgita psicofarmaci e sputa veleni, trattenendo tuttavia dentro di sé inimmaginabili e oscuri segreti, sempre dolorosi, stigmate di un passato che si vorrebbe cancellare o di uno scomodo e desolato presente. Ma è, Violet, anche tipico prototipo del carnefice che è stato vittima e che perpetua la violenza che ha ricevuto rinnovandola a chi si trova accanto a sé, anello di una ininterrotta catena che tramanda una perniciosa eredità matriarcale, che impregna carne e sangue e ossa del senso falsamente vittorioso del proprio potere.

Le sue figlie sono andate via – scappate, sarebbe meglio dire – è rimasta con lei solo la dolce e forte Ivy (Stefania Medri), quarantenne docente universitaria come il padre, custode e insieme vittima sacrificale e consapevole delle disfunzioni familiari, cercando, tra disperazione e lucidità, di ritagliarsi un suo spazio vitale, un improbabile ma desiderato amore, il sogno di una vita completamente diversa: New York e il miraggio di un trasferimento, di un totale voltar pagina equivale, allora, alla cechoviana Mosca per Irina, la più giovane delle Tre sorelle, l’impossibile tentativo di uscire dalla prigione e dall’inferno in cui ci si ritrova, alle soglie della parabola discendente della vita, di giorno in giorno, di chiacchiera vana in chiacchiera vana, aspettando una inconcludente e millenaristica palingenesi.

Ma poi arriva l’estate, e agosto, e il caldo soffocante: improvvisamente, come in una tragedia maturata in una natura ormai macabra e divoratrice alla Tennessee Williams, Beverly decide di andarsene, di prendere il largo sul lago, di tagliar corto con questo inferno che è diventata la sua vita, ormai caricatura di se stessa, a Ivy non resta che convocare tutta la famiglia nella grande casa. La prima ad arrivare è la sorella di Violet, la terribile Mattie Fae (Orietta Notari), accompagnata dal marito Charlie (Andrea Di Casa): rapporti deteriorati dal tempo che passa inesorabile e logorante e da spettri che, come in un dramma di Ibsen, vengono da un passato lontano a minare i rapporti tra Mattie Fae e il figlio Little Charlie (Edoardo Sorgente), che si presenterà in ritardo al funerale, costantemente vittima dell’atteggiamento castrante della madre, a malapena e debolmente difeso dal padre. Ci sarà naturalmente anche la maggiore delle figlie, Barbara (Manuela Mandracchia), scrittrice frustrata, insieme al marito Bill (Filippo Dini) e alla figlia adolescente Jean (Caterina Tieghi), trasferitasi in Colorado da molti anni sperando che la lontananza dalle violente dinamiche familiari potesse temperare la sua natura fondamentalmente selvaggia, ma tornando a casa è come se inevitabilmente ricadesse nelle antiche prassi, nei vecchi condizionamenti; e poi, in ogni caso, ci accorgiamo da una serie di piccoli ma significativi indizi, che inevitabilmente Barbara tende a perpetuare il seme della violenza nei suoi rapporti con la figlia, in una sorta di maledizione familiare che non passa attraverso il sangue ma che si costruisce e si rafforza ogni giorno attraverso la trasmissione, tra lucidità e inconsapevolezza, di una cultura di morte e di pura adorazione del potere e dei suoi effetti.

E poi questo ritorno alla terra dei cactus coincide per lei anche con una profonda crisi personale, perché è ormai sul punto di separarsi dal marito, docente universitario, invaghitosi di una studentessa ventenne: il tema dei professori universitari con una vita familiare problematica ha una lunga tradizione, nella letteratura americana, basti citare Chi ha paura di Virginia Woolf di Edward Albee, e qui l’argomento si arricchisce di molte sfaccettature e sfumature.

Alla fine si presenta anche l’ultima figlia, Karen (Valeria Angelozzi), apprendiamo della sua vita condannata ad una infinita serie di errori nel tentativo di replicare una vita di coppia, una coppia purchessia, anche se eternamente sbagliata, pur di evitare la paura e il fardello di rimanere da sola, chi l’accompagna, Steve (Fulvio Pepe) è solo l’ultimo fidanzato di una lunga serie. Chiude ingloriosamente, questo distratto amante, con il suo patetico dongiovannismo, la galleria del genere maschile dei personaggi della pièce, deboli e incapaci, presuntuosi e vanagloriosi, fragili e inconsapevoli, deprivati ormai di qualunque fascino e forza, questo impietoso ritratto è, probabilmente, il maggior debito culturale che l’Autore contrae con la contemporaneità, e che differenzia fortemente questo dramma familiare borghese da quello novecentesco, con cui pure ha tanti punti di contatto.

La famiglia, dopo il funerale, si ritroverà a celebrare il pranzo funebre e, come spesso avviene, la tensione accumulata e tenuta sopita per anni si scatenerà, causando una vera e propria deflagrazione, che investirà in pieno soprattutto Violet e Barbara per allargarsi, poi, anche agli altri, volente o nolente chiamati in causa e coinvolti nel vortice violentissimo che li attirerà fino a toccare il fondo. Filippo Dini guida dunque una compagnia di splendidi attori fino in porto, grazie anche al sostanziale apporto della perfetta traduzione di Monica Capuani e della serrata drammaturgia di Carlo Orlando, che è anche aiuto regista: impresa nata nel solco un progetto molto interessante che l’attore e regista sta portando avanti in questi anni, un puntuale confronto tra autori americani contemporanei e il retaggio culturale della nostra grande letteratura europea, paralleli e raffronti spesso contraddittori ma ricchissimi di suggestioni e di evocazioni.

Merito indubbio della trasposizione è quello di ricondurre la pur palese eccezionalità della famiglia rappresentata – l’elevato grado culturale, la dipendenza dalle droghe, i ben celati scheletri negli armadi, l’estrema violenza nei rapporti interpersonali vissuta come unica modalità di comunicazione – ad una sorta di non scontata quotidianità in cui tutti riconoscerci: la vicenda della famiglia Weston, insomma, pur nella diversa storia e geografia che vive, riesce a dire qualcosa anche a me seduto sulla mia poltroncina in platea, alla mia personale storia e geografia. E questo è per l’appunto lo scopo del teatro, grazie alla scrittura così attenta dell’Autore e alla regia che non dà nulla di scontato, riuscendo con precisione quasi millimetrica a farci “riflettere” – è proprio il caso di dirlo – come in uno specchio oscuro, nell’umana vicenda di questi personaggi, in apparenza molto lontani, così che le dinamiche familiari e le sfide emotive rappresentate possano risuonare con un pubblico più ampio, creando un ponte tra la specificità del contesto e l’esperienza umana universale.

Personalmente, per esempio, ho potuto toccare con mano, grazie alla mia personale esperienza, come alcuni momenti, come pranzi e cene familiari, anche avvenuti in contesti assolutamente non tragici come nella pièce, ma invece pure apparentemente gioiosi come il Natale o alcune ricorrenze familiari, possano con grande facilità innescare effetti collaterali dannosi e non voluti, discussioni anche violente, fungendo in qualche modo  come una sorta di catalizzatore, favorendo reazioni che in diversi contesti non sarebbero avvenute, mettendo allo scoperto antiche ferite e vecchi dissapori mai perfettamente sopiti. Il registro umoristico salva tuttavia questi personaggi altrimenti indifendibili, dalla madre belva alle figlie tigri che, ciascuna a suo modo, si difendono da questa vera e propria aggressione continua in cui sono cresciute, chi scappando più lontano possibile, chi punendosi con una vita piena di errori, chi sognando un nuovo impossibile inizio: evitano, in tal modo, i personaggi, di trasformarsi semplicemente in astratti simboli, stereotipati caratteri da manuale di psicopatologia, false incarnazioni di angosce e rancori ancestrali, rimangono invece persone reali, che effettivamente è possibile incontrare e con cui poter stabilire, in qualche modo, una comunicazione basata sulla comune umanità.

La regia di Filippo Dini scava, allora, dietro la cortina fumogena del profluvio dei discorsi inutili, nell’affannosa ricerca di trattenute e ingoiate parole e cristallizzati silenzi che fanno da contrappunto latente a urla sguaiate e stentorei proclami, espressione più di complesse e strategiche manovre d’evitamento che liberatorie valvole di sfogo delle rabbie rapprese in anni di rancorose ripicche. Dietro la scena, creata grazie alla matita di Gregorio Zurla, indovini il fiume carsico della violenza, la grande casa dei Weston s’articola su due piani entro cui si muovono i personaggi come formiche in un formicaio, restringendo o dilatando gli ambienti a seconda del bisogno, in una sorta di ombroso labirinto le cui pareti trasudano trascorsi di ansiose opacità e sottaciuti inganni, resi intollerabili dall’usura e dalla bassa autostima, che sconta gli anni delle continue svalutazioni subite: di tutto si parla e si straparla, tranne che dell’essenziale, si perde il discorso, anche quando non sia narcisistico monologo, nei mille rivoli dell’astiosa correzione sintattica o dell’ostentato perbenismo del politically correct, tutto va bene purché si eviti l’angoscia, il rifiuto evitante, il disprezzo di se stessi.

Abitano, i personaggi, questo simulacro di casa, con la stessa istintuale anaffettività di una colonia d’insetti, in cui la fame d’aria e luce ha ormai del tutto sostituito quella d’amore e di carezze, tutto avviene nell’afa e nel buio artefatto di quelle mura dove ogni umana pietà si disfa in sdrucciolevole, ipocrita rancore, aggregando e disgregando alla bisogna, come le pareti mobili del mostruoso contenitore che li custodisce e che li intrappola, emozioni e turbamenti, violenze e veleni. È quella fame d’aria e di stelle, di un contatto con la realtà che sta “fuori”, oltre il buco nero del portone centrale d’ingresso, che conduce inevitabilmente, alla fine, all’inevitabile bilancio dei propri fallimenti continui, delle ripetute speranze sprecate in innumerevoli occasioni fino a perdere ogni connotazione realistica, ogni confronto con la verità, al punto da diventare evanescenti e pericolose illusioni, effimeri percorsi verso un inappropriato e doloroso nulla, che genera a sua volta rabbiose critiche agli altri.

Così si enfatizza l’errore altrui per l’orrore di ritrovare, negli altri, tracce delle proprie sconfitte: non offre la vita, allora, altra via di scampo che la fuga, evitando accuratamente ogni possibilità di duratura e sincera relazione con chi ti è, nonostante tutto, vicino, come Narciso occorre evitare di specchiarsi per non innamorarsi della propria deformazione, di ciò che il tempo, l’egoismo, l’abitudine, ha finito, come un cancro mortale, per produrre in noi stessi. Non c’è salvezza, in questo inferno delle occasioni volutamente perdute che si perpetua per via materna, dalle madri alle figlie l’impossibile felicità trasmuta allora in simulacro di normalità, fallisce il matrimonio di Barbara, insegue sbagliati ed effimeri amorazzi Karen, s’invaghisce Ivy dell’unico uomo sulla terra che dovrebbe evitare, intuendo inconsciamente, con ogni probabilità, la natura incestuosa di quell’amore nato dalla paura e dall’evitamento.

Non sappiamo se, alla fine, Karen andrà lo stesso, come promette, a Capodanno in Belize insieme all’ormai disprezzato fidanzato, né se Ivy partirà per New York con Little Charlie fingendo di ignorare ciò che in fondo ha sempre saputo, né se Barbara cercherà, tornando in Colorado, di rimettere insieme i cocci almeno del suo rapporto con la figlia: ciò che ci è dato sapere, ciò che ci è dato vedere, è solo della grande casa ormai vuota, di Violet che come un ragno al centro della sua ragnatela instancabilmente ne percorre i corridoi bui e silenziosi, in giorni ormai indistinguibili dalle notti, sarà Johanna, l’estranea, la prezzolata, l’indiana, a raccogliere in un abbraccio ciò che resta della matriarca, ad asciugarne le lacrime, a recepire, donna da donna, quella sorta di eredità matrilineare che pesa come un macigno, lasciando che tutto finisca non già con uno schianto ma con un lamento, in una sorta d’insperata, sovrumana eppur terribile e tormentosa pietà.

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