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La Cina è lontana per Turandot

La Cina è lontana per Turandot
Fermata Spettacolo

“Qui finisce l’opera”: se Arturo Toscanini avesse interrotto in Questo punto la frase, rivolgendosi al pubblico e deponendo la sua bacchetta  la sera del 25 aprile 1926, la locuzione, in seguito, col senno di poi, avrebbe acquistato maggiore e più condivisibile verità, perché con Turandot si chiude in realtà l’epoca, gloriosa e feconda, dell’opera lirica italiana romantica, se ne apre una nuova che proprio essa contribuì ad inaugurare – come ogni capolavoro che meriti tal nome – andando oltre perfino, ma non troppo, a ben pensarci, alle aspettative di chi la creò: continuò Toscanini tuttavia, “… perché a questo punto il Maestro è morto”. Era morto, Giacomo Puccini, a Bruxelles, il 29 novembre del 1924, cent’anni or sono, lasciando insoluto l’ultimo enigma della Principessa gelida, la chiave per comprendere la sua vicenda, e la storia della sua musica, ricapitolando il passato e il futuro.

Noi, cent’anni dopo, iniziamo a ricordare il grande musicista lucchese, qui a Napoli, al mio bel San Carlo, proprio con l’opera che chiuse quel mondo e quella vita, traducendo quell’incompiuto testamento spirituale in un allestimento visionario e contemporaneo che ha già scandalizzato, a fin di bene, s’intende, tanti melomani abituati all’odor di cartapesta e alle scene traboccanti specchietti per le allodole: Dan Ettinger, il Direttore musicale, conduce l’Orchestra del nostro Teatro, mentre la regia è affidata – atto di gran coraggio da parte di Stéphane Lissner – ad un quarantenne emergente regista moscovita, Vasily Barkhatov, con l’espresso mandato di saper trarre, da quest’opera che da cent’anni va in giro per i teatri del mondo con allestimenti, in fondo, sempre uguali a se stessi, qualcosa che possa legare la musica, la vicenda narrata, i vissuti emozionali e psicologici, alla nostra contemporaneità, al nostro quotidiano.

“Per me, oggi, in questo momento così drammatico, con Tutto quel che succede in Europa e fuori, bisogna che il nostro dovere sia anche intendere il nostro lavoro non soltanto come un divertimento, il piacere di sentire la musica, ma anche come una riflessione sul nostro mondo”: non lascia molti dubbi, il Sovrintendente, durante la conferenza stampa di presentazione dell’opera. E poiché l’opera lirica, da sempre, è anche costituita e costruita dai suoi grandi interpreti – è dedicata, questa Prima sancarliana, anche al Centenario di Maria Callas, che in questo Teatro cantò, nel 1949, proprio nella Turandot – sono state chiamate alcune star di prima grandezza, per ridonarci l’emozione pucciniana al massimo grado, Sondra Radvanovsky nel ruolo eponimo, Yusif Eyvazov in quello di Calaf e Rosa Feola in quelli di Liù, per citare solo i protagonisti, cui aggiungerei senz’altro Nicola Martinucci, ottimo tenore del passato, esponente di spicco della scuola di Mario del Monaco, che fu grande interprete di Calaf – proprio Turandot fu l’ultima recita prima del ritiro, nel 2009 – e che qui è stato chiamato al ruolo dell’Imperatore Altoum.

Perché quest’opera ha bisogno di grandi voci, è l’ultimo splendore al tramonto di un’epoca che è stata costruita soprattutto su eccelsi interpreti, e che Puccini scrisse, abbandonando ogni carattere realistico, dopo aver letto la fiaba teatrale di Gozzi, che lo colpì in modo drammatico: in tanti si sono chiesti come mai la protagonista di questa storia fantastica, che tanto lo impressionò, risulti alla fine così diversa dalle tante eroine pucciniane sacrificate sull’altare dell’amore e del sacrificio. Dimenticano, quei tanti, come, per un innamorato delle donne come lui, le frivole Manon, le fragili Mimì, le fiere Tosche, le delicate Cio-cio-san, siano belle immagini da amare e vezzeggiare, come Corinna, Sybil, Josy, Rose, amanti appassionate per il breve tempo d’una stagione: l’amore vero, quello cui tornar ogni volta e sempre, nonostante tutto, è sempre l’Elvira, la moglie forte e spesso dura, la donna possessiva da amare per la vita, le cui fattezze aveva intravisto, probabilmente, sotto gli abiti della Principessa crudele: personaggio incredibilmente straordinario e moderno, tanto da dover travestirsi, mimetizzarsi, dissimularsi sotto una identità fantasiosa ed esotica, nel paese delle fiabe, in contrade lontane e irraggiungibili, troppo prorompente e disturbante la sua presenza sul palcoscenico, in quegli anni e purtroppo ancor oggi.

Negli anni Venti del Secolo breve la donna cominciava infatti, fra mille difficoltà e irrisioni, ad “emanciparsi” come si diceva allora, la Grande Guerra aveva definitivamente archiviato ciò che ancora restava del retaggio ottocentesco, una nuova visione, anche pessimistica, del mondo e delle cose aveva soppiantato certe prospettive trionfalistiche d’inizio secolo, probabilmente Puccini sapeva, anche se in modo intuitivo ed oscuro, come è spesso per i poeti, che a questa nuova visione, in particolare a una certa donna moderna e salda, a un diverso modo di vivere la femminilità, a una donna in apparenza del tutto impermeabile all’amore romantico – o meglio che non avesse bisogno di questa stampella per reggersi in piedi – fosse tempo di dedicare l’arte sua, nell’unico modo in cui sapeva farlo, ma dire e fare non son la stessa cosa.

Gli sfugge letteralmente dalle mani, Turandot, impossibile scriver musica – la sua musica – per un amore così, si trincera dietro i tre enigmi la cui soluzione sembra essere ben oltre le sue capacità, l’happy end della favola non gli sembra adeguato, alla fine sembra solo un trucco, una trovatina, l’amore non può improvvisamente fiorire e trionfare sol perché qualcuno ha saputo rispondere a tre indovinelli, il fantasma dell’abuso, che agita l’animo della Principessa inquieta non può trovar pace così facilmente. E se il tempo delle favole, certo, può aiutare, tra presagi, rimandi continui alla dimensione onirica, ai fantasmi, alle apparizioni, alla deformazione di suoni e voci che provengono da aliene dimensioni, qualcosa alla fine comunque non quadra, quel finale continua ad essergli estraneo, occorrerebbe un colpo di genio da mago sopraffino, come il Gran Maestro Wagner, che risolse un’analoga favola – tali sono le stigmate di Siegfried – cantando l’amore e la morte, il sangue e la vita, l’uno e tutto: ma il Secolo Romantico è inevitabilmente perduto, il leuchtende Liebe, lachender Tod! è lontano ormai più della Cina, l’amor lucente non luce, evidentemente più, o, se lo fa – e lo fa – lo fa in tutt’altro inconoscibile modo, il cuore di Turandot non si riscalda più così, come quello di Brünnhild.

Liù nacque per questo, estremo tentativo, disegnando con pochi tratti, quasi un acquerello, un ritratto di giovane donna ancora una volta sacrificabile sull’altare, questa volta, d’un amore impossibile, nel rimpianto di non esser mai stato vissuto: in fondo la leggenda che vuole questo personaggio, d’intera invenzione pucciniana, legato alla vicenda e alla figura di Dora Manfredi non appare del tutto infondata. Perché Dora, cacciata di casa dalla tremenda Elvira, alla fine si gettò nella palude e questo provocò il rimorso d’Elvira, una lacrima, un intenerimento improvviso e provvido, forse anche il sacrificio di Liù avrebbe avuto lo stesso effetto sulla principessa, chissà: ma era comunque troppo tardi per tutto, arrivando sulla soglia dell’indicibile (in musica), lì dove il genio suo, che pure aveva vinto tante battaglie, giungendo ad un rinnovamento profondo e degno della più grande considerazione, diventava improvvisamente afasico e irrisolto, nell’incapacità di tradurre in musica – desideri, emozioni, rimpianti – ciò che tanto gli era chiaro a livello d’elaborazione intellettuale e d’analisi.

E si fermò. E noi chiamiamo oggi incompiuta l’opera sua. E cerchiamo di farcene una ragione – certo più consolante e meno inquietante – attribuendo alla malattia la morte del Maestro: non ammettendo che sia stata Turandot, a uccidere Puccini, l’Opera ad assassinar l’Autore – come succede più spesso di quanto non si pensi – il gelo della principessa a spegnere il cuore dell’artista. Così non può che essere narrata, da allora, la storia della gelida Principessa, che proiettata in un mondo esotico ed alieno, una qualsiasi Cina purché sia lontana dalla comune ordinarietà della vita, ma che possa, tuttavia, dire paradossalmente qualcosa, in questo modo, a noi che viviamo l’oggi delle nostre incertezze, dei nostri problemi, delle nostre comuni emozioni.

Prova allora, il regista Vasily Barkhatov, a cercare quell’altro esotico Paese ben lontano dalla Cina delle tronfie scenografie che ormai vengono apprezzate solo dai residui melomani rimasti in Italia: è un altrove talora oscuro e inquietante, talaltra rifugiato nella penombra degli obliqui pensieri, incerti sulla loro stessa natura e sul loro divenire: almeno tre livelli narrativi si alternano, si mescolano, fanno irruzione anche angosciosa e violenta e disturbante l’uno nell’altro. Se al primo livello si trova la favola che tutti conosciamo – la scoperta di un amore impossibile per una donna candida ed oscura, che soffre d’un trauma antico, fino alla conquista dell’amore – la scommessa del regista è che tanti dei nodi irrisolti di cui abbiamo parlato e che costituivano il rovello di Puccini, si possano in gran parte sciogliere introducendo un piano narrativo ulteriore, che preveda, attraverso un percorso aspro e doloroso, la riconquista di un nuovo equilibrio da parte di una coppia ormai in crisi, lei rifiuta di sposarsi, dopo anni di convivenza, in ragione di cattive esperienze passate, lui è esasperato e forse preda di rimpianti e amarezze per un amor di gioventù: entrambi, dunque, vivono il presente in modo parziale, nella tensione e nella provvisorietà del quotidiano, prigionieri di un passato carico di negatività e senza possibilità di apertura al futuro.

Vedremo più tardi che i livelli narrativi sono, in effetti, almeno tre e il secondo ha una doppia struttura, quel che importa ora è che Barkhatov traduce questo intento così complesso ricorrendo a filmati, citazioni, evocazioni, controscene, oggetti che diventano veri e propri feticci: inizia così, la rappresentazione, con una sorta di prologo filmato, ad epigrafe la citazione dell’Inferno di Dante, Caron dimonio, poi, in uno sgranato bianco e nero, un funerale in San Lorenzo Maggiore e a seguire un incidente, l’auto in verticale a testa in giù che diventa una sorta di moloch al centro del palcoscenico, Calaf viene portato in ospedale in barella, il suo spirito si trova sbalzato in un universo altro, una modalità e una semiologia che si fonda su modelli e linguaggi ampiamente conosciuti e noti a tutti, situazioni che ci sono familiari perché più volte metabolizzate attraverso film e telefilm.

La scena, disegnata da Zinovy Margolin, ricorda invece per certi versi il gotico di San Lorenzo da cui si era partiti, dall’altra è un po’ San Galgano senza tetto, delimitando, tra le colonne e le buie ogive che s’affacciano sul nulla, un id evidentemente alieno, una desolata geografia abitata da creature ctonie che vengono descritte, nei costumi di Galya Solodovnikova, come esseri – gnomi e satiri, spiritelli e monacelli, omuncoli e bizzarrie assortite – appartenenti a un sottobosco demoniaco e subumano, lugubre e oscuro Medio Evo che trattiene, in bilico tra la vita e la morte, il protagonista. Poi, a guardar meglio, a far caso, per chi ha occhi per guardare, all’ironia che sottende all’intero itinerario, troverai citazioni, certo dagli inferi di Hieronymus Bosch, ma pure dal cinema e dalla graphic novel, conditi con la salsa che più s’addice alla bisogna, l’horror, il fantasy e la science fiction, aspetti e figure appartenenti ad un immaginario collettivo che ci fanno capire di non trovarci di certo in un reale antinferno – per quanto possa esser reale un qualunque antinferno – ma in ciò che probabilmente Calaf, che ormai indossa un costume che ricorda quello di un oscuro supereroe, pensi debba costituire un luogo infernale, ci sono dentro i suoi ricordi, le sue suggestioni, i suoi fantasmi, le sue paure, tutto ben frullato insieme e restituito ad uso e consumo suo e del suo delirio.

Il richiamo alla “realtà” è, o dovrebbe essere, quella della sala operatoria che più volte viene calata al centro della scena, i chirurghi operano Calaf, una presenza disturbante e ossessiva. E la stessa sala operatoria comparirà più volte anche nel secondo atto in cui, preceduto da diversa epigrafe – X Libro delle Metamorfosi, nei versi di Ovidio la preghiera di Orfeo agli Dei inferi perché liberino Euridice dalla morte – è Turandot a rimaner ferita nell’incidente, rivediamo la macchina in verticale, il suo spirito rivestito d’armatura dorata, senz’altro simbolo della corazza dell’anaffetività che l’affligge e la protegge a tempo stesso. Il terzo atto – si è scelto di adottare la versione di Franco Alfano – trova invece la sua chiave di volta nella morte di Liù, com’è ovvio, del resto, vissuta come dolorosa evocazione del suicidio avvenuto in un tempo precedente: i ferri degli sgherri nulla possono contro di lei, che già appartiene al mondo dei più, come Timur, del resto, entrambi ascendono in direzione del fondo buio, verso la luce di un lontano empireo, un addio poetico e struggente che prepara il definitivo abbandono delle difese da parte di Turandot.

Sarà Calaf, naturalmente, a smontare l’armatura di Turandot, pezzo per pezzo: quando poi tutto è finito, quando i due amanti hanno ormai scoperto l’amore, rivediamo la scena della discussione in auto, questa volta l’incidente non avviene, si chiude anche il terzo livello narrativo: tutto è avvenuto, in pochi istanti, dunque, solo nelle menti dei due protagonisti, ma l’esperienza, pur se virtuale, è servita a ritrovarsi, a cominciare un nuovo percorso, su basi meno egoistiche. Non era forse questo il senso della favola? Proiettare le paure nostre in un altrove per farle meglio risaltare e trovare, se possibile, un ulteriore significato, una morale, se volete, come si diceva una volta.

Una regia piuttosto invasiva, come si vede, ricca – fin troppo, forse – di idee e simbolismi, e che dunque risulta alla fine leggermente ridondante, tuttavia il gioco riesce, nonostante tutto, fino a far sembrare assolutamente naturale quel finale che così posticcio, invece, era sembrato all’Autore, cercando e trovando un altro equilibrio pur lontano dalla scontata Cina: un linguaggio nuovo, accattivante per chi vive la contemporaneità, e quel che è più stupefacente, in tutto questo, è – miracolo d’una attentissima drammaturgia – come le parole notissime del libretto, che siamo abituati a vedere applicate a tutt’altro contesto, suonino ugualmente incredibilmente autentiche e naturali in questo ambiente così diverso e alieno, talvolta addirittura ancor più vere, più evocative, più adatte al nostro sentire. La certosina cura nella direzione dell’espressione e dei gesti degli attori – non solo i Cantanti, ma anche il Coro e i Mimi – fa il resto, restituendo intatta, dopo cent’anni, la magia della favola che affascinò Puccini.

Dan Ettinger guida l’Orchestra del Teatro San Carlo con la consueta energia, che tuttavia non stona con quest’opera e questo particolare allestimento: segnatamente riusciti, oltre ovviamente ai pieni orchestrali, la costruzione di certe atmosfere d’inquieti trasalimenti; d’altra parte il Maestro sta specificamente curando questo centenario pucciniano, cominciato per lui non oggi ma già con la scorsa Butterfly ozpetekiana, alla ricerca continua di smalti e di colori cristallini e tersi, questa volta è uscito, con successo, dalla prova con la più nera delle perle pucciniane, e non è certo impresa da poco, coadiuvato dall’Orchestra del nostro Teatro, mai come stasera perfettamente in linea con la linea del Maestro, a cominciare dal temibile suono dei corni per finire alle evidenze – che si sentono perfettamente, ove ci sia chi voglia e sappia dirigere ed eseguire – dei compagni di viaggio dell’Autore, Debussy, Strauss, Bartok e Stravinsky, perfino quel Mahler che tanto l’aveva in uggia.

Anche il Coro, guidato dal nuovo Direttore Piero Monti, in uno col Coro delle Voci bianche, diretto da Stefania Rinaldi, dimostra ancora una volta non solo l’ottima performance delle voci, ma quanto possa essere estremamente efficace una giusta presenza in scena delle masse, che non sono, evidentemente, comparse, ma protagonisti al centro della scena.

Sondra Radvanovsky è una stupenda Turandot, personaggio che trova un’interprete ideale grazie alla sua gran voce, che magari non è granché dolcissima ma che riesce a raggiungere altissima drammaticità, in uno con stupefacente intensità ed efficacia; anche sul piano più strettamente drammaturgico riesce a ben inquadrare il personaggio che, pur rimanendo ben difeso nella rilucente armatura della purezza sua, grazie a uno straordinario linguaggio non verbale – merito, certo, suo, e dell’accortissima regia – fatto di incitazioni sottese, ammiccamenti furtivi, gesti fermati a metà del guado, prepara l’accoglienza finale dell’amore, che scopri, allora, da tempo aspettato e desiderato.

Yusif Eyvazov era ieri sera leggermente indisposto, così perlomeno ci ha avvertiti una voce al microfono prima dello spettacolo, ringraziandolo per aver accettato di portare a termine tutto lo spettacolo: sarà anche perché nel Palco Reale era presente – completando così una serata di grandi protagonisti – la moglie Anna Netrebko, ma ci è sembrato che la voce, tutto sommato, non ne risentisse granché, guadagnandosi anche gli applausi a scena aperta, come di prammatica, al Nessun dorma. Il tenore azero ha dichiarato come in questo allestimento si sentisse più a suo agio nei panni del personaggio suo, rispetto al passato: dev’esser vero, perché lo abbiamo visto perfettamente in parte, molto partecipe a quanto veniva messo in scena e probabilmente non è solo bravura d’attore.

E poi c’è Rosa Feola, la Liù dei nostri sogni, che lavora sul personaggio, oltre che con la splendida voce – un grande applauso sottolinea e consacra Signore ascolta! – anche molto sul piano drammaturgico, procedendo per sottrazione, felicemente giungendo ad una semplicità assoluta, che è esattamente rispondente a quanto aveva pensato l’ideatore di questo personaggio – come abbiamo detto lo stesso Puccini – che, di fronte a un universo per lui del tutto nuovo e, in qualche modo, anomalo, pensò a Liù per sentirsi a casa, nel candore assoluto di un amore senza speranza: c’è bisogno, certo, di un’interprete che abbia l’intelligenza scenica di cogliere tutto questo, il soprano campano ha dimostrato ieri sera la sua grande sensibilità pucciniana, del resto sapevamo di non poterci aspettare nulla di meno.

Ma, di sicuro, meritano più di una citazione tutti i ruoli dei comprimari: così il Timur di Alexander Tsymbalyuk cancella l’annoso vecchio della tradizione in favore di un orgoglioso e novecentesco re in esilio in completo grigio, mentre tocca al già ricordato Nicola Martinucci dar vita all’Imperatore Altoum, con grande ironia portato in scena in una teca di cristallo: a me ha ricordato Titurel, il guardiano del Graal, miracolosamente tenuto in vita dalla Santa Reliquia, oppure quei santi imbalsamati che si conservano, apparentemente intatti, sugli altari delle nostre chiese, un po’ dovunque nella nostra Penisola, e non è né un caso che questa parte sia stata affidata proprio a lui, vera reliquia vivente dell’Opera Lirica, da pochi giorni Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

Ping, Pong e Pang, rispettivamente interpretati da Roberto De Candia, Francesco Pittari e Gregory Bonfatti si trovano più che a loro agio nella temperie ironica dell’intero allestimento, il climax viene raggiunto quando i tre dignitari entrano dentro la sala operatoria e sembrano estrarre dal corpo del paziente esanime stelle filanti, coriandoli, catene di fazzoletti, fiori di carta, mentre tocca al Mandarino di Sergio Vitale introdurre, come Caronte, i protagonisti nella sorta d’inferno in cui si trovano sbalzati, trasformandosi in un attimo da infermiere a demone in rosso.

Il pubblico reagisce in modo variabile: alla Prima ci sono state contestazioni, credo ci si debba rassegnare ormai ad avere, ad ogni allestimento che non segua la tradizione letterale, gruppi di melomani inviperiti che sonoramente fanno sentire la loro protesta. Naturalmente fischiare e contestare è un diritto sacrosanto dello spettatore, tuttavia rimane un mistero sul perché si possa andare ad uno spettacolo che si definisce porcheria e vergogna ben coscienti di ciò che si vedrà, e stavolta c’è stata perfino una diretta televisiva: si poteva vendere il biglietto o, meglio ancora, cederlo a qualche giovane che magari avrebbe apprezzato di più il linguaggio utilizzato dal regista.

Nel nostro caso, comunque, qualche sonoro mugugno c’è stato nei minuti di buio tra il primo e il secondo atto, quasi assente tra il secondo e il terzo e del tutto fugato alla fine, quando gli interpreti – non c’era, naturalmente, il regista – sono stati salutati da un uragano di applausi: forse i melomani contestatori erano andati via, forse si erano stufati; amo pensare che, alla fine, il terzo atto, più convenzionale degli altri, abbia potuto conquistarli e che la musica di Puccini abbia compiuto il miracolo, ridando vista e udito a chi li aveva tenuti ostinatamente chiusi, prodigio riservato, naturalmente, a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire; per tutti gli altri, ciechi e sordi, ce ne faremo una ragione.

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