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Se la tragedia di Maria Stuarda diventa un melodramma

Se la tragedia di Maria Stuarda diventa un melodramma
Fermata Spettacolo

Bisognerebbe sempre evitare di parlare degli antichi, perché quand’essi vivevano erano moderni e, viceversa, noi che viviamo la modernità, un giorno rischieremmo di esser chiamati antichi: persiste, probabilmente, una perenne modernità, per chi abita il suo quotidiano, al di là Delle mode e delle beghe temporanee che ci affliggono, e così è pure per Maria Stuarda, regina di Scozia, che la storia ci ha consegnato vittima redenta dalla morte, insieme al suo contrasto con la cugina Elisabetta, sua carnefice. Benché vissute più di quattro secoli fa, la loro storia ci appare, se non moderna nelle forme, certo contemporanea nella sua intima essenza: due donne di fronte al potere e all’amore. Perlomeno così le visse l’Autore di questa tragedia, Friedrich Schiller, che scrisse, per l’appunto, Maria Stuarda nel 1800, in bilico tra lo Sturm und Drang e l’alba del Romanticismo, e che ora arriva fino a noi, a Napoli, al Teatro Mercadante, scintillante, è il caso di dirlo, nella traduzione di Carlo Sciaccaluga, che guarda caso si preoccupa, complice il regista Davide Livermore, di non far sembrare troppo antichi gli antichi, ma anzi di riportarli alla loro perduta modernità. O, meglio, di portare noi alla contemporaneità loro, così da poterci stupire con l’estrema attualità delle pene loro, degli interrogativi che pongono, delle emozioni che suscitano: e non è questo, forse, il compito del teatro, non è esattamente questo che l’Autore si prefiggeva, due secoli fa?

Come non pensare allora – e certamente questo era presente all’Autore – alla trasfigurazione che di questa storia già operò il Bardo, che visse da vicino quei fatti, osservandone le premesse, l’evoluzione, la tragedia: inferiore a Macbeth, però più grande, non come lui felice, eppure assai di più sarai padre di Re, ma tu non lo sarai, la profezia delle streghe a Macbeth e Banquo sembra adattarsi su misura a Mary Stuard, inferiore alla cugina Elizabeth Tudor, ma più felice di lei, pur nella tragedia, perché madre di Re, mentre il grembo della cugina rivale, che pure regnerà a lungo, rimarrà sterile. Nella trasfigurazione del Bardo in tanti vedono, sotto le tragiche sembianze di Macbeth, proprio lei, la Regina Vergine, e sotto quelle del fido Banquo Maria Stuarda, madre di Giacomo che sarà, per l’appunto, Re dopo Elisabetta: una vicenda complessa, un dramma familiare che richiama le grandi tragedie dell’antichità, sul filo di morti accidentali e assassinii efferati, Re e Regine, Principi e pretendenti, guerre di religione e di successione, matrimoni combinati e strumentali.

Non fu solo il Bardo, peraltro contemporaneo ai fatti, a rimanere, naturalmente, affascinato dalla storia di Maria Stuarda, di lei e di questa storia di potere e morte hanno scritto commediografi come Alfieri e Zweig, musicisti come Monteverdi, Rossini, Donizetti e Britten, oltre ad aver dato ispirazione, in tempi più vicini ai nostri, a una sterminata quantità di film e telefilm; tuttavia la storia per eccellenza riguardante il rapporto tra Maria ed Elisabetta fu scritta, per il teatro, proprio da Friedrich Schiller in quell’anno che inaugurava, anche in tal modo, il Secolo romantico: e molto amarono Maria, il Romanticismo e i romantici, che cercavano nella storia i passaggi più oscuri e intricati, donne appassionate chiuse in castelli cupi e isolati, che inevitabilmente cadevano, infine, vittime di oscure trame, magari ordite da altre donne.

Ne fece, in tal modo, Schiller, la campionessa dell’amore, della bellezza, della femminilità, contrapposta al mondo, simmetrico e speculare, d’Elisabetta, regno di politica, potere, ipocrisia, mascolinità: inevitabilmente facce della stessa medaglia, buio e luce, bontà e malvagità, Crimilde e Biancaneve, se volete, inscindibili componenti dell’eterno femminino che la mascolinità invece tende inevitabilmente, colpevolmente, superficialmente, a scindere, nell’impossibilità di accettare la complessità della donna e del suo alieno universo. E questa storia, la Storia stessa in generale, per Schiller, allora, si fa teatro, o, meglio, il teatro è il mezzo, nelle mani del Poeta, perché la storia possa in qualche modo far riflettere noi contemporanei, ne possiamo trarre insegnamenti, una volta che il filosofo e il poeta l’abbiano, in qualche modo, purificata, resa comprensibile nelle sue componenti a volte disordinate e caotiche.

Obbedendo a questo stesso imperativo, immerge, allora, Livermore, due primedonne del teatro italiano, Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi – due regine, due dive e non c’è gran differenza, nella vita come a teatro – in un brodo di coltura che è sperimentazione e gioco insieme, contesto che diventa, non tanto il corso della sua storia, resoconto imprevedibile e disorganico dei fatti, ma il corso del mondo, racconto, cioè, del senso storico delle cose, il loro significato ultimo: che importa, allora, se Maria ci appare sul palcoscenico rivestita di un’aura di sovrumana spiritualità, mentre in realtà era, probabilmente, ben usa ai maneggi di corte e alle sanguinarie imprese tal quale l’altra regina, la cugina Elisabetta?

Il gioco del destino le ha, alla fine, assegnato il ruolo di vittima, questo in qualche modo e in un certo senso l’ha redenta, ha perso la testa per acquistare un’anima, al contrario dell’altra, che, certo, è regina, ma il suo enorme potere l’ha resa arida e circospetta, incapace di un gesto disinteressato. Coglie Elisabetta e Maria, Schiller, e Livermore lo traduce a perfezione, proprio nel momento estremo della decisione finale, non gli interessa tanto ricostruire la storia delle due regine, che del resto ci viene restituita dai dialoghi, fa agire invece due donne determinate e di potere nella prova suprema, tra potere e amore – immaginando che il Conte di Leicester, favorito dell’una, s’innamorasse dell’altra, risultando alla fine conteso tra le due – e cercando di cogliere l’attimo supremo della decisione. È proprio intorno alla firma di Elisabetta in calce alla condanna di Maria che tende tutto il dramma, nasce la tragedia, e non potrebbe essere diversamente, esattamente qui, nella catatonica impossibilità della scelta, tanto che più volte ho pensato esser Elisabetta, piuttosto che Maria, la protagonista: è lei che ci appare come avviluppata in una spirale senza fine, incapace di uscire dal loop infinito in cui è finita.

Vive, ella, sospesa tra diverse istanze, parimenti importanti e degne, consapevole che qualsiasi mossa in una o nell’altra direzione sarà comunque disastrosa, aggraverà la sua posizione, si ritrova a vivere in una perfetto circolo vizioso, in cui girare a vuoto virtualmente per l’eternità, un gioco crudele che non può che concludersi tragicamente. Costruisce, allora, il regista, in uno con la matita di Lorenzo Russo Rainaldi, una scena che a tratti ritroverai sontuosa come dovrebbe esserlo una reggia, più spesso essenziale e spartana come una prigione: un praticabile in fondo, cui si accede da due scale simmetriche, è insieme un espediente che consente di lavorare su più piani sovrapposti ma ha anche lo scopo di mostrare – con tutto quello scendere e salire per quelle scale, quel darsi da fare, quell’affaccendato sottrarre tempo alle cose autentiche – quanto a volte tutto appaia a un tratto privo d’ogni senso e scopo, mentre il nostro ricordo corre inevitabilmente a tutt’altre scale, e pure ad analoghe situazioni teatrali: somiglia, in fondo, quella scala e quel passaggio, a quelle che si utilizzano per gli esperimenti con i topi in gabbia, per sondare il loro apprendere e la loro psicologia, ma che è pure pure, amleticamente, l’adatta mousetrap per catturare la coscienza del re – o delle regine, of course.

E poi la scala è da sempre simbolo dell’ascesa prima di tutto verso una sovrumana spiritualità, certo, e ciò avviene in modo tuttavia diverso nella psicologia e nel vissuto delle due donne, Elisabetta anglicana è nuda parola priva dell’involucro del corpo, Maria cattolica vive una carnalità mediterranea che si nutre dell’opulenza romana; e, ancora, è, la scala, simbolo di ascesa al potere, e due scale simmetriche possono star lì ad evocare che quello stesso potere può in un attimo perdersi, discendendo quella scala con la stessa identica sofferenza e fatica provata nel salire: sono due Regine – sono due Dive – ben avvezze al potere e ad ogni disinganno. E non può non ricordarci ogni momento, poi, la sua perfetta simmetria, l’analogo equilibrio che regge la struttura di questa tragedia, assoluta geometria che anima il gioco delle parti, tutt’uno con l’intensità del ritratto d’anime che l’Autore riesce a cogliere, insieme al regista che lo sa tradurre in un percorso drammaturgico del tutto aderente al suo pensiero: se pure lo Schiller maturo non è più solo alla ricerca della psicologia profonda dei suoi personaggi, come nelle opere giovanili, non ha tuttavia dimenticato quanto sappia entrare in perfetta sintonia ed empatia con i suoi protagonisti, li possa comprendere ben al di là di qualsivoglia giudizio storico, come soleva ricordare Jung quando affermava che il merito di Schiller per noi psicologi non è stato certo piccolo, e a volte sembra proprio che conosca come raggiungere i più profondi abissi dell’animo umano, cui solo molti secoli più tardi, e con metodo scientifico, si potrà arrivare.

Così la geniale simmetria – richiamandosi ai classici – anima ed arbitra il contrasto tra le regine, in una contesa che è tutta teatro, tutta giocata sulla rivalità tra dive, prime donne che si contendono un posto al sole in palcoscenico come nel mondo e uno sguardo carico d’amore da parte di Leichester o del pubblico: se Maria domina incontrastata nel primo e nell’ultimo atto, Elisabetta può regnare incontrastata nel secondo e nel quarto. Il terzo atto, invece, è il cuore della tragedia, riservato com’è all’incontro diretto delle Regine – perfetto esempio di racconto del corso del mondo, visto che tale colloquio, nel corso della sua storia, in realtà non avvenne mai – un faccia a faccia duro, impietoso, che non fa sconti a nessuno ma che, pure, è il trionfo della più tersa e limpida teatralità. Teatro che illumina di vivida luce il fondo, prevalentemente di rosso acceso che, nei momenti di passione s’affoca ancor più, sembrando riverberare su uomini e cose: è, il rosso, il colore fiammeggiante della passione, certo, come pure quello esigente del sangue, ma è anche, senz’altro, il colore della regalità, la porpora scarlatta del potere capace di portarti, alternativamente, dai palazzi alle prigioni, in un batter d’ali; s’alterna, il rosso purpureo, al viola oscuro e gelido, colore della morte, tuttavia pure indice del calcolo politico, che quella morte alla fine causerà.

Sì, è il teatro, la vera scena di questa commedia umana che Livermore sa così bene sottolineare, e teatro, potremmo dire, in apparenza contraddicendo quanto posto in premessa, che sa d’antico, come un melodramma, in fondo, in cui la musica segna per sempre, immutabile, tempi e modi, ma che, all’interno di una apparente eterna cristallizzazione, apre spazi immensi, invece, alla modernità che entra, che inonda, che impregna di sé ogni cosa, sanando le apparenti antinomie, le pur persistenti contraddizioni, risultando alla fine, quel che poteva essere un estenuante polpettone storico, un invito, invece, alla riflessione, una porta aperta alle emozioni, una sciamanica ricomposizione degli opposti che ricapitola tutto in sé, un gioco, in fondo, che sa prevedere anche l’imprevisto.

Così è fin dall’inizio, in un prologo di pure invenzione livermoriana, ispirato – e siamo alla radice stessa del melodramma – a Claudio Monteverdi e al suo Ritorno di Ulisse in patria: Tempo, Fortuna e Amore rispondono all’Umana Fragilità che incessantemente pone loro domande che si perdono nell’infinito, l’unica risposta possibile sta nella sorte, nella fortuna, nel gioco incessante che ci fa essere giorno dopo giorno eroi o vigliacchi, ricchi o poveri, Regine o Vittime: un angelo irridente – evocazione che è quasi beffardo simulacro di una doppia annunciazione – lascia che sia il caso, incarnato in una piuma che lascia volare libera di cadere sull’una o sull’altra delle attrici – non ancora regine – che attendono in basso.

Perché è solo il caso, il gioco del destino, che stabilisce di volta in volta, sera per sera, chi delle due impersonerà Maria, la protagonista che muore, l’altra – scartata dal destino – sarà Elisabetta, e regnerà: per noi, ieri sera, la piuma è caduta su Laura Marinoni, mentre Elisabetta Pozzi ha assunto su di sé l’onere di Elisabetta: un gioco che, nonostante quanto detto, non può non richiamarci anche alla memoria le grandi tradizioni del teatro italiano, quando i grandi attori – e le grandi attrici – si alternavano, una sera a testa, nei panni del protagonista e in quelli dell’antagonista, Gassman-Randone e Brignone-Proclemer, Cortese-Falk, gioco pirotecnico delle parti. E se il brodo di cultura dell’ambientazione sa della metà del Secolo breve, nell’aria chiusa di certe ambientazioni, nell’opprimente e asfittica atmosfera che ha sapore di fame d’aria e libertà, soprattutto nei costumi gravati di medaglie e cortigianeria disegnati da Anna Missaglia, è tuttavia all’estro di Dolce & Gabbana che dobbiamo gli abiti delle Dive Regine, eccessivi oltre misura nella ricercata eleganza che pericolosamente tende a debordare nel kitsch quasi grottesco delle croci ingemmate, dei simboli del potere inutilmente ingentiliti da lustrini e strass.

Perché tutto qui, alla fine, è teatro ed esagerazione, in uno con la musica, anzi con il particolare sound di questo allestimento, che merita un discorso a parte, perché non si può parlare qui di musica di scena ma di vero e proprio teatro in musica, a cominciare dalle voci degli attori amplificate, a tratti distorte, l’eco delle loro parole spesso riverbera e deforma, l’effetto, sul tappeto musicale creato da Mario Conte e dalla chitarra elettrica di Giua è stupefacente, la cantante, anch’essa in abito di scena, è di solito ai limiti del proscenio, ma nei momenti clou entra in scena, la sua musica accompagna, pervade, sottolinea: un contrappunto musicale che nutre e vivifica le parole e le emozioni.

La musica in scena è suggestiva tuttavia d’altre possibili ascendenze, da Henry Purcell a John Dowland, permette sottili o grossolani trait d’union, lo stesso testo autorizza una possibilità di rapporto stretto con la musica e la partitura, attraverso ricorrenti metafore d’armonia e dissonanza che, addirittura, segnano il percorso dell’intera vicenda, che trapassa presto verso la cacofonia della tragedia e della morte. L’intera pièce risponde poi ai canoni di un vero e proprio melodramma, sia perché tutto è costruito attorno ad uno degli archetipi primari del melodramma – due donne a confronto dell’amore e del potere – sia perché la cronaca degli ultimi giorni di Maria viene narrata da Schiller, con l’ausilio di Livermore, in uno stile fortemente, asperrimamente, esageratamente melodrammatico: i sentimenti straripano, le passioni trasbordano, la drammaticità esonda, le emozioni travalicano, il pathos abbonda, le situazioni si accendono, i colori abbagliano, i toni si sovraccaricano. In questo mondo dell’ambiguità e della paura i buoni son troppo buoni e i cattivi troppo cattivi, i tiranni sono spietatissimi, i leccapiedi vermi ignobili; vien da attendersi, ad ogni momento, un fortissimo d’orchestra, un rutilar di piatti, timpani e tamburi, ininterrotta ventosa tempesta che agiti menti e cuori in un crescendo inarrestabile d’orchestra.

Laura Marinoni è una Maria che, pur nell’alunnato della morte che vive, sa essere ancora seduttiva e insinuante, personificazione, se volete, della donna nel pieno della sua femminilità – con tutti i punti di forza e debolezza che questo comporta – ma anche immagine vivente della Roma papale opulenta e ridondante, barocca e corrotta, ma che sa trovare accenti più che credibili nell’evoluzione, che dà salvezza, verso l’anima bella schilleriana, che supera l’etica razionale e l’istinto sensuale, compiendo, alla fine, il dovere morale con grazia e naturalezza. L’Elisabetta di Elisabetta Pozzi è il suo esatto contrario, la Regina vergine che ostenta pubbliche virtù ma che non rinuncia, per questo, a vizi privati, gelidamente chiusa nella crisalide del potere non riesce tuttavia a nascondere qualche cedimento, rinunciando perfino alla decisione finale, scaricando tutta la responsabilità sui cortigiani o sul popolo, che tanto, così dice, la condiziona: è un modo di incarnare il potere che si sforza di essere declinato tutto al maschile, cercando di negare, almeno in apparenza, almeno in pubblico, le debolezze attribuite dallo stereotipo al sesso suo, ma che finisce per essere solo una grottesca caricatura di ciò cui aspira.

Le due Regine Dive sono aiutate in questa fatica da altri cinque attori, costretti, per dichiarata economicità dell’impresa – anche questo è il teatro oggi – a ricoprire più ruoli, alcuni anche en travesti: nonostante si sia costretti a far di necessità virtù, anche questo gioco, devo dire, funziona egregiamente, contribuisce a rendere più evidente il teatro, la teatralità, che è la cifra più macroscopica dello spettacolo. Così Sax Nicosia – che ricopre un unico ruolo, quello del favorito Leichester – ci è sembrato voler incarnare una figura tipica del sottobosco del potere, il/la belloccio/a che sfrutta l’avvenenza fisica per scavarsi la sua personale nicchia di privilegi, finendo per restare grottescamente in mutande dopo un pecoreccio approccio con Sua Maestà la Regina; al buon Cavalier Paulet, che tra i tanti dignitari è l’unico provvisto d’onestà intellettuale, dà corpo e voce una precisa Olivia Manescalchi, che pure si presta a dar vita all’Ambasciatore di Francia Aubespine e al Segretario di stato Davison, con pari diligenza.

Il gelido Burleigh, il capo del partito che vuol morta Maria è invece incarnato, con determinazione e cura, da Giancarlo Judica Cordiglia, che interpreta pure Melvil, maggiordomo di Maria; è una gran carica di energia quella che Gaia Aprea sa infondere alla fida nutrice di Maria, Anna Kennedy, e poi cimentandosi pure nell’impresa di entrar nei panni di Talbot. Ma è certamente quella di Linda Gennari la caratterizzazione più riuscita, che trasforma il solito esangue Mortimer – oltre che provvedere a rendere al meglio l’Angelo del destino e il Paggio di Elisabetta – in un giovane integralista, la nuova fede cui si è da poco convertito lo rende capace di ogni impresa, positiva o negativa non importa, è intollerante ed estremista, come spesso succede ai neofiti, volentieri sale ben oltre le righe, in un continuo stato di esaltazione caricata. E anche questo non è certo cosa che riscontravano solo gli antichi.

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