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Uomo e galantuomo e l’eterna vitalità delle famiglie teatrali

Uomo e galantuomo e l’eterna vitalità delle famiglie teatrali
Fermata Spettacolo

C’è una particolarità del Teatro di Eduardo che, per evidenti ragioni storiche, lo differenzia da quello degli altri grandi drammaturghi del passato, Pirandello compreso: per decisione dello stesso Eduardo, possediamo tutta la sua produzione registrata dalla RAI, diretta e interpretata dallo stesso autore. Questo ha determinato, nel tempo, non saprei dire con quanta consapevolezza dello stesso Eduardo, la conseguenza che quelle registrazioni si siano ormai affermate, a livello popolare e di vissuto collettivo, come una specie di immutabile codice, di inviolabile, perenne, unica forma possibile di recitare Eduardo, avallato, in qualche modo, dallo stesso autorevole sigillo dell’autore.

La registrazione televisiva, ovviamente, se pure ci ha permesso di mantenere nel tempo una indubbia testimonianza storica del valore, anche come interprete, di Eduardo, al tempo stesso ha congelato per anni ogni possibilità di ulteriore ricerca, ogni progresso nell’intelligibilità del testo, ogni concepibile traduzione, nel mantenimento d’una incorrotta tradizione. Dico questo in premessa perché, invece, assistiamo da qualche tempo, com’è oltremodo lecito aspettarsi, un rifiorire di Eduardo sulle scene teatrali (e non solo) italiane, sia delle sue maggiori creature, sia delle minori, meno conosciute ma non per questo meno significative.

È il caso di Uomo e galantuomo, nota soprattutto al grande pubblico (soprattutto televisivo, per l’appunto), per la famosa scena della prova di Mala nova, caratterizzata dal tormentone di Nserra chella porta: arriva qui a Bari, al Teatro Piccinni, Teatro Pubblico Pugliese, messa in scena da Geppy e Lorenzo Gleijeses, con la partecipazione di Ernesto Mahieux, per la regia di Armando Pugliese, una ripresa giocata tutta sul filo di quello che dovrebbe essere il vecchio modo di far teatro, dove tutto si basa sull’improvvisazione, sulla trovata geniale, sul gioco dei calembour e dei tormentoni, fondali di carta e valigie di cartone. Uomo e galantuomo è una delle prime commedia di Eduardo De Filippo – anzi, i manuali di storia teatrale la ricordano come la prima in tre atti, anche se la storia è un po’ più complicata –  e dunque risente di una profonda influenza delle farse e delle commedie di Eduardo Scarpetta: aveva anche, in origine, un titolo diverso: Ho fatto il guaio? Riparerò e costituisce il primo titolo certo, dopo l’atto unico Farmacia di turno, alias Don Saerio o’ farmacista.

Nel 1922, quando Eduardo dice di averla scritta – ma se guardiamo a un appunto autografo sul manoscritto originale del copione, la data sarebbe diversa: Domani 16.4.926, comincerò a copiare il secondo atto, ora sono molto stanco – il suo Autore ha poco più di vent’anni e aveva cominciato adolescente il proprio apprendistato di scrittore nella Compagnia paterna proprio copiando testi e trascrivendo copioni, tanto che il padre gli regalò addirittura una scrivania. A quell’epoca il giovanotto era scritturato presso la Compagnia di Vincenzo Scarpetta, figlio di Eduardo ed erede del suo repertorio, con ogni probabilità la commedia fu scritta proprio per lui, riprendendo proprio un genere tipico della tradizione scarpettiana, la pochade, teatro di brillanti inganni di derivazione francese – equivoci, intrighi amorosi, triangoli, storia tremenda che si ingarbuglia sempre di più – al quale sia Eduardo Scarpetta sia il figlio Vincenzo si dedicavano assiduamente.

Fu al Teatro Fiorentini di Napoli che la commedia fu messa in scena per la prima volta, il 23 ottobre 1926, il giovane Autore era Alberto, il mamo, cioè il figlio di mammà, figura tipica del repertorio comico napoletano, vanesio e sciocco quanto basta, facile preda delle vessazioni dei furbi, e nelle versioni più antiche della commedia queste caratteristiche sono anche più accentuate, dovrà arrivare Luca de Filippo per fare un elegante e consapevole damerino; in origine il protagonista era Felice Sciosciammocca, maschera borghese senza maschera, ideata da Scarpetta padre che successivamente divenne personaggio anche del repertorio di Vincenzo e che ebbe nel tempo altri grandi interpreti, come Totò, modello al quale, devo dire, Geppy Gleijeses si è, secondo me, ispirato, più che al citato codice eduardiano; nel 1933 la commedia viene messa in scena dalla Compagnia di Eduardo, Peppino e Titina de Filippo, passando dai palcoscenici dei teatri di varietà e rivista a quelli di prosa, e qui subisce, come molti lavori della prima maniera, una sostanziale metamorfosi, i tre fratelli hanno bisogno di formarsi un repertorio di commedie in tre atti, e per questo, oltre a scrivere nuovi testi, rimaneggiano e rinnovano vecchi copioni che firmano, però, con pseudonimi.

La commedia subisce perciò trasformazioni e cambiamenti, si elimina un finale troppo pacificatorio, si risolvono alcuni problemi di intreccio e soprattutto si comincia a individuare una sorta di separazione tra le due linee principali dell’intreccio, quella dei tradimenti di Bice con Alberto e che coinvolge il conte, marito di Bice e quella dei comici: mentre prima i due gruppi di personaggi erano abbastanza legati e posti praticamente tutti sullo stesso piano, progressivamente, nel tempo, si assisterà ad una progressiva ipertrofia dell’avventura di fame e di miseria dei guitti, grazie a tutta una serie di soggettive improvvisazioni nate direttamente in scena, mentre la prima linea, quella del triangolo amoroso e della follia resta sostanzialmente sempre uguale.

E così arriva anche a noi ieri sera, e com’è giusto che sia, anche i Gleijeses, una delle famiglie dell’aristocrazia teatrale napoletana, ci mettono del loro, risultando alla fine il personaggio di Gennaro, il capocomico, qui interpretato da Geppy Gleijeses, senz’altro più vicino alla tradizione scarpettiana e alla maschera di Sciosciammocca, probabilmente nel tentativo, necessario e lodevole, di prender le distanze dall’ormai troppo asfissiante modello eduardiano, potremmo definirlo un Felice Sciosciammocca 2.0; così è pure per il personaggio di Alberto, interpretato da Lorenzo Gleijeses, meno damerino e sciupafemmine del solito, più ancorato alle sue responsabilità di giovane “galantuomo”. Sorprendente, poi, sia per la verve sia per il piglio, il Conte Carlo Talentano di Ernesto Mahieux che sa aggiungere un minimo di cattiveria al personaggio di questo medico dal cuore generoso che poi, man mano, scopriremo meno nobile d’animo di quanto si mostri all’inizio.

Del resto, questa è una caratteristica che il giovanissimo Eduardo non deve aver faticato molto ad apprendere: il teatro, soprattutto quando, come in questo caso, è metateatro, se pur farsesco, sa mettere allo scoperto crude verità, facendo piazza pulita di bugie e di fake news, fin dai tempi del Bardo, anche se la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione. E così, guardando la commedia, guardandola sul serio, intendo, a teatro, come stasera, seduto in platea sulla tua poltroncina rossa, scopri alcune cose che magari il mezzo televisivo, le pur pregevoli registrazioni eduardiane, non ti facevano cogliere a prima vista: sarà  per i successivi rimaneggiamenti, sarà per la non ancora perfetta padronanza della macchina teatrale da parte dell’acerbo Autore, i tre atti mi sono apparsi più tre atti unici quasi del tutto indipendenti, ciascuno conclusivo in sé, piuttosto che una organica vicenda articolata in quadri diversi, notando poi come ciascun atto abbia una sua vita propria, diverse e circostanziate motivazioni, esigenze di scrittura e di ideazione completamente difformi.

Il primo atto mette in scena, infatti, un mondo perduto, quello degli scavalcamontagne, il mondo povero di risorse ma ricco di umanità e tradizioni dei guitti, le piccole compagnie itineranti, che di lì a poco sarebbero state spazzate via dai progetti normalizzatori del fascismo. È questo un universo vitale a cui Eduardo ha sempre guardato con partecipazione, bandendo ogni disprezzo e ogni malcelata sottovalutazione, il teatro e i suoi abitanti, che pure torneranno anche in altri suoi lavori, come l’Arte della commedia, di cui diremo a proposito del terzo atto: così la commedia è una vera e propria antologia delle pratiche del teatro all’antica all’italiana, proponendone alcuni peculiari meccanismi, veri e propri mezzi per scatenare, con i tempi giusti – e ieri sera i tempi c’erano tutti – l’applauso e la risata.

Come il tormentone: dietro io tengo una buatta c’è sì la risata ma anche la riflessione del pubblico, perché inizialmente queste battute vengono dette en passant, successivamente entrano a far parte di un discorso, la terza volta diventano il tormentone, e così è successo puntualmente anche ieri sera, in cui la ripetizione della battuta provocava sempre maggiori risate.

Nella scena della prova, vero e proprio pezzo di teatro nel teatro, e che costituisce il cuore del primo atto, Eduardo mette in ridicolo Mala nova, atto unico drammatico di Libero Bovio che, occorre ricordarlo, e del resto anche alcuni recenti film su Scarpetta e il giovane Eduardo lo hanno messo ben in evidenza, era esponente di spicco di quel teatro dialettale d’arte che aveva fieramente avversato suo padre: per far questo utilizza la forma della parodia, genere largamente praticato da Scarpetta, di cui si ricorda la clamorosa parodia dannunziana del Figlio di Iorio, causa addirittura di un processo.

Anche i tre fratelli de Filippo, agli esordi, eserciteranno la parodia, prendendo di mira Sei personaggi in cerca d’autore, Guendalina o il calvario di una madre e anche perle del teatro musicale come Cavalleria rusticana o La vedova allegra, dove rovinosi interpreti deturpano irrimediabilmente l’opera originaria.

È dunque proprio a Eduardo Scarpetta il primo atto rende omaggio, al suo teatro da cui è nato, in definitiva, quello dell’Autore, al teatro della parola in contrapposizione al teatro da copione, e proprio il conflitto tra il linguaggio scritto e linguaggio orale trova il suo esito più esilarante in questa scena: il suggeritore, in questo caso un notevolissimo Gino Curcione, interprete di un discorso scritto, ne mette in luce tutta l’assurdità e quindi ogni richiamo all’attore è occasione per la ridicolizzazione e la parodizzazione della lettera del testo, per il fatto stesso di essere espressa nella sua letteralità. Nserra chella porta assurge a paradigma, allora, di come il teatro non possa e non debba essere pagina scritta, che muore sul foglio di carta, ma come, invece, e ne abbiamo avuto la più illuminante prova ieri sera sotto i nostri occhi, appunti, tracce, indizi di realtà scatenino l’azione e l’emozione perché dipendono da una perfetta impostazione che fa diventare arte – arte della commedia, appunto – tutto ciò che avviene sul palcoscenico.

Ma c’è un altro grande Autore cui Eduardo deve molto, evidentemente. Il secondo atto ha come tema centrale quello della pazzia simulata usata come espediente, via di fuga: tema che proprio in quegli anni viene trattato, in chiave drammatica, da Luigi Pirandello per esempio nel Berretto a sonagli che Eduardo conosce e apprezza da sempre, fino a tradurlo in vernacolo e portarlo sulla scena, del resto non ha mai fatto mistero del suo pirandellismo. E, inevitabilmente, il secondo atto di Uomo e galantuomo sembra parodiare proprio quel dramma: è Alberto a fingersi pazzo per non compromettere l’onore di Bice – che tra l’altro è diminutivo di Beatrice, nome della protagonista del Berretto – teatro comicissimo ma in fondo crudele, che vuole rappresentare una società “malata di menzogna”. La verità non può trovare casa nella “società umana”, solo un pazzo può dirla… ma tanto, si sa …è pazzo!. E prima o poi tutti si troveranno a dover ballare sulla musica della follia.

Il terzo atto, in cui il guitto Gennaro si confronta con un’arrogante esponente del potere, il delegato di polizia, non può non richiamare alla mente il maturo teatro di Eduardo, quell’Arte della Commedia in cui, ormai negli anni Sessanta del Secolo breve, l’arte di Eduardo si confronta con il potere: come dice Campese capocomico, vere strade e piazze appartengono al cinematografo, agli spettatori del teatro può, deve bastare la parola del poeta, scene e fondali sono menzogna dichiarata, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna: ieri sera la scena dichiaratamente finta e di carta, disegnata da Andrea Taddei, i costumi intrisi d’una fantasiosa e magnifica semplicità, dovuti alla matita di Silvia Polidori – da poco scomparsa, cui meritatamente il Capocomico Gleijeses, alla fine della serata, ha dedicato i copiosissimi applausi – hanno accolto, come meglio non si poteva, una autentica commedia dell’arte italiana che trova in sé la forza di continuamente rinnovarsi.

Mi piace pensare, allora, che Campese capocomico di Arte della Commedia abbia ereditato dai suoi genitori la Compagnia e la follia del teatro, che altri non sia, insomma, che quel bambino che la giovane attrice Viola di Uomo e galantuomo portava in grembo quarant’anni prima, nella sguaiata prova di Mala nova, facendogli assaporare, fin da prima di nascere, l’acre e benedetto sapore della polvere di palcoscenico.

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