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La vita non è né bella né brutta, è originale

La Vita non è né bella né brutta, è originale
Fermata Spettacolo

L’enorme occhio del dottor S., proiettato sul sipario ancora chiuso de La coscienza di Zeno – neonata produzione del Teatro Rossetti di Trieste – e accompagnato dalla minacciosa prefazione del romanzo sveviano – «Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia» ma la «pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia» – lascia intendere da subito come la regia del direttore artistico Paolo Valerio abbia voluto mantenere intatta l’originaria vocazione psicoanalitica di uno dei massimi capolavori del Novecento. Un occhio beckettiano, dunque, che indaga e scruta implacabile l’orizzonte della platea, rimanda immediatamente al gioco paratestuale in cui lo spettatore sarà coinvolto, destinato presto a esser avviluppato dall’estetica surrealista che congiunge lo spettacolo al sogno e il sogno alla fragilità di una biografia. Bio-grafia intesa come atto si scrittura, di assoggettamento di una vita al linguaggio e al collasso di senso di parole che non riescono a dire, a singolarizzare l’unicità irripetibile di un’esistenza.

Non è dunque un caso che, al dischiudersi del sipario, il grande salotto borghese perimetrato da pesanti velluti ideato da Marta Crisolini Malatesta si sveli di lì a poco con la potenza di un universo-mondo, incapace di (de)limitare la coscienza del suo inquilino e apprestato piuttosto come un teatrino dell’inconscio, in cui inscenare complessi edipici e amori materni offuscati dalla malattia inutile del protagonista, incapace di vedere la verità della propria (in)esistenza. Di spalle, a ridosso del fondale, condannati a non abbandonare mai lo spazio psichico di Zeno, gli otto protagonisti della sua vita, grigio vestiti, pronti ad esser convocati dal rimosso, a riacquisire per un istante la profondità del desiderio, proprio e altrui, attraversando i territori della perdita e del fallimento.
Il padre Cosini, la madre e il fumo sono la triade psicoanalitica in cui Zeno, da principio, chiama se stesso ad essere, persuaso della convinzione che la memoria possa nevroticamente sorreggerlo nel recuperare l’unicità della propria coscienza, ovvero quella «visibilità dell’inesplicabile» di cui parlava quello Schopenhauer che Svevo tanto amava, assieme a Nietzsche e Freud.

La coscienza di Zeno_Foto di Simone Di Luca

In un oscillare tra buoni propositi e ultime sigarette, il protagonista palesa dunque dall’inizio, allo spettatore, la propria identità, quasi a fugare dubbi, a porsi, significativamente (e quindi linguisticamente), nel mondo, in modo irripetibile: «Mi chiamo Zeno Cosini, nato a Trieste, nel 1857». È la formula rituale (e dunque psicoanalitica) con cui Alessandro Haber/Zeno H. convoca a sé l’io narrante della vicenda e scende nel personaggio, da un lato riprendendo scenicamente l’artificioso meccanismo narrativo originale (che Svevo intrattiene con il protagonista, fondato sulla “falsa” rievocazione spontanea di un intreccio narrativo offerto con modalità retroattiva), dall’altro rimanendo lungamente seduto (quasi oniricamente imprigionato) su una sedia che restituisce – nella sua durezza – la malattia reale di lui uomo, Alessandro Haber; malattia vera, eppure combattuta attraverso le pagine di Svevo, vinta in fulgidi istanti di autonomia, ritagliati ora con il sostegno di un bastone, ora grazie al pronto abbraccio del suo alter ego, l’io narrato, affidato a Alberto Onofrietti.

Tutto dunque è destinato a confondersi mirabilmente, dal principio, nel colto progetto registico di Valerio, il cui dispositivo scenico esiste per rifrazioni, sogni, evocazioni psichiche ed atti mancati, magnificati nelle videoproiezioni di Marco Brugnoli. Una sorta di boîte-à-surprise, in cui Haber/Zeno evoca, dialoga, osserva, deride e abbraccia il suo giovane simulacro, fino a suggerirgli le batture, oppure a costringerlo a modificare i toni –«perché quella volta non era andata così» – mentre le parole tessono complesse relazioni parentali. Relazioni imbrigliate nell’affetto verso un padre stanco, che si trascina in scena già sull’orlo della vita e al quale mancano le parole per definire quell’aldilà che l’attende implacabile. Per un istante il dramma della fine pare allontanato dall’intervento di uno sprovveduto medico che trattiene dall’Inferno la coscienza del patriarca, catturata in una camicia di forza per quel tempo sufficiente in cui l’anziano si erge improvvisamente in piedi, a scagliare sul volto del figlio un ceffone. Poi l’addio, con il corpo del vecchio che scivola tra le braccia del figlio, in una citazione michelangiolesca in cui il trauma della morte del padre s’incista definitivamente nel cervello del figlio. «Muore mio padre. U. S.», ricorda Zeno, mentre nel disegno luci di Gigi Saccomandi il salotto si bagna di rosso, ad ospitare il non detto, il mancato appuntamento di una vita, subito offuscato dall’entrata in scena del futuro cognato Guido Speier, acclamato da una nube di familiari che il progetto coreografico di Monica Codena immagina come un osmotico organismo tragicomico, capace ora di respirare all’unisono agglutinandosi fisicamente a sostenere gli eventi di un passato forse solo sognato, ora di dispiegarsi in sinistro tribunale, foriero di ipotesi maldestre e di presunti ideali borghesi. Protagoniste indiscusse del liquido coro parentale sono le quattro sorelle Malfenti, ammaestrate all’accortezza perbenista dalla dispotica madre, che orchestra l’intera prossemica filiale alla stregua di un educato ed infelice carillon ottocentesco. “Di Ada avevo bisogno, doveva condurmi ad una sana monogamia”, ricorda Zeno, tra spirali di fumo e fallimenti, fino a quando Haber, ripensando alle richieste di matrimonio, pretendere di dichiararsi nuovamente – «Fermati, questo lo voglio vivere io» “ – come se fosse la prima volta. Ma il tempo, ci ricorda Svevo, non si può riscrivere, neppure se, come Zeno, si ricontano scaramanticamente per gioco i gradini di casa Malfenti in attesa che Ada decida di innamorarsi, tra scene che paiono fermi immagine di un film a bianco e nero e istanti da tableau vivant in cui s’annida la possibilità oscura della malattia, del pensiero che inciampa sulla psicoanalisi, del trauma che si riscrive sul trauma. Le proposte di nozze scivolano tra una sorella e l’altra, tra rifiuti ora fermi ora delicati, fino a quando quel «Io non so rassegnarmi a star da solo» naufraga nell’abbraccio accogliente di Augusta al grido di «Bravo Zeno!». Poi le confidenze alla luna, con Zeno e Guido, su sedie sospese, come giocolieri di un sogno, ad annegare nella notte acquosa del mare di Trieste.

Il timore di invecchiare, con «la prima settimana del viaggio di nozze che avvicina di una settimana alla morte», scorre tra ironiche ubriacature, fino a quando compare in scena la stessa coscienza che, affidata ad un attore, viene presentata da Zeno come il suo suggeritore, ovvero «la coscienza di Zeno che racconta la coscienza della mia coscienza». E mentre Guido inciampa tra le dita impudiche della dattilografa – inseguendo la sua teoria antieconomica di un commercio senza rischio, plasticamente inscenata nella grandiosa sequenza in videoproiezione di un turbine di circolari – Zeno si perde tra le braccia dell’amante. Amante che lo desidera cambiandogli nome, ovvero Dario, alla ricerca, pure lei, di un altro oggetto del desiderio, che sia interamente suo, di lei, in una rincorsa reciproca, in cui ciascuno scorge nell’altro la propria mancanza di senso, fino a schiantarsi, entrambi, nella passeggiata all’aria aperta di Ada, che Paolo Valerio trasforma in apparizione fantasmatica, dissolvendo il tradimento in un divino, eroico dolore. Intanto incombono le tonnellate di solfato di rame dell’azienda, la delusione di Ada, che, annientata dalla gelosia, prega Zeno affinché metta almeno in salvo l’impresa familiare dal tracollo economico causato dal suo musicista stonato. Così l’acqua lambisce nuovamente in videoproiezione l’intero palcoscenico, divenuto grembo materno in cui Zeno/Haber affoga per ritornare a sé stesso, all’io bambino del proprio personaggio che non riesce a ricordare, ma pure alla sua stessa infanzia, sovrapponendo ancora una volta realtà autobiografica e finzione teatrale, biografia letteraria e metatesto spettacolare. Vegliato ai lati dal suo giovane alter ego e dallo spavaldo suonatore di violino – in una scena che magnifica la temporalità narrativa del romanzo e il rincorrersi dei pronomi personali sveviani – Haber svela allo spettatore l’esistenzialismo sveviano che abita la sua coscienza, sussurrando come la vita non sia né brutta né bella, ma originale. E su quell’originale, indefinibile possibilità offerta a ognuno dalla sorte, la grande luna in videoproiezione affonda nel fondale, trascinando onnivora con sé la fine di Guido, già preannunciata in una maldestra conversazione su come il solfato possa, ingerito, condurre alla morte. Un suicidio che la regia restituisce attraverso il ritrovamento del cadavere del cognato, celebrandolo nei passi di una seducente coreografia di morte. Una sinfonia del lutto, di corpi e sospiri, in cui ciascun personaggio danza nel vuoto col fantasma che fu: ricordi fasulli, desideri inespressi, destini sbagliati e identità smarrite fioriscono nella pioggia di rose bianche che ricoprono il corpo del violinista.

Ma non c’è spazio per il pianto e, come vuole Svevo, le lacrime s’incrostano sul riso amaro della scena del corteo funebre sbagliato, del cimitero mancato, della sepoltura rimossa, di uno Zeno redivivo, salvatore inatteso della ditta, celebrato nell’insignificante motto «Sei il migliore uomo della nostra famiglia».

La coscienza di Zeno_Foto di Simone Di Luca

Poi tutto lentamente viene a mancare, la biografia incespica nel vuoto e il baricentro del dispositivo spettacolare torna ad essere il grande foro circolare che la regia ha collocato fin dall’inizio al centro del fondale: un buco ontologico, una lente freudiana, una serratura voyeurista in cui spiare i ricordi di Zeno, affidandosi ad un provocatorio montaggio delle attrazioni che alterna, per l’intera durata dello spettacolo, le vie segrete di Trieste e il mare accarezzato dalla bora a schiene nude di donna, rose nere accartocciate dal dolore e obliqui occhi femminili, in un omaggio metalinguistico ai capolavori Les larmes e Le violon d’Ingres di Man Ray, genio surrealista innamorato delle donne.
Ora tuttavia che la seduta psicoanalitica è giunta al termine, l’inguardabile ferita circolare – memento lacaniano della schisi tra occhio/sguardo – inghiottisce risoluta la platea, trascinandola nell’ingiallito girotondo di foto dei protagonisti, i cui tratti dei volti si trascrivono l’uno sull’altro, secondo quella poetica barhesiana della foto e del ricordo, che sfigura i vivi in morti, pietrificandoli in eterno nel ricordo di ciò che furono e che non hanno potuto essere.

Infine, l’incavo elettronico riacquista l’originaria natura di spaventoso bulbo oculare. È forse l’occhio del dottor S. che torna ad infierire sul suo paziente, o lo sguardo di Svevo che medusizza lo spettatore, imponendogli di specchiarsi nel suo romanzo per far sorgere in lui, retroattivamente, l’immagine mancante del proprio sé. La malattia di Zeno è infatti la malattia del mondo, destinato ad esplodere a causa dell’abominio di un uomo più malato d’altri. E sull’insostenibile «non si può guarire» lacaniano, in cui sprofonda il finale della Coscienza, l’occhio sfora i limiti spaziali del palcoscenico, in una umorale dilatazione carnosa che travalica i confini dell’accettabile, svelandosi organo perturbante, portatore di quel rimosso che per ogni soggetto risiede nell’azione castrante del padre, ovvero di quel linguaggio normativo che, impostoci alla nascita, non ha permesso di essere, di darci, di venire definitivamente al mondo nella nostra originale interezza.

Ed è così, nell’angosciante incontro finale con l’occhio, familiare eppure malvagio nell’ostruire ogni possibile campo scopico dell’esistenza, che la regia di Valerio espropria definitivamente lo spettatore da se stesso, dalla sua immagine, chiedendogli di ritrovare, attraverso Zeno e la coscienza di Haber, ciò che ha perso, ciò che il campo visivo della sua vigile esistenza ha escluso dalla sua vita.
Un’esplosione sigilla l’incontro con la mancanza, mentre il boato apocalittico dello scoppio finale è già una cascata di appalusi emozionati.

La vita non è né bella né brutta, è originale
Fermata Spettacolo



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