Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

Tannhäuser sospeso tra realismo e astrazione

Tannhäuser Sospeso Tra Realismo e astrazione
Fermata Spettacolo

Die Zeit, die hier ich verweil‘, ich kann sie nicht ermessen dice uno spaesato Heinrich von Ofterdingen – detto Tannhäuser – ad una stupefatta Venere che non crede di aver sentito bene: il tempo che ho passato qui, io non lo so misurare. Perché il tempo, la storia, è una invenzione tutta umana, sa di sudore e rughe, vecchiaia e morte, non s’addice certo agli dèi superi che abitano la dimensione sovrumana del Venusberg: se Heinrich pensa al tempo da quel particolare luogo (o nonluogo) atemporale e astorico, vuol dire che ne è già fuori e fra poco sarà di nuovo con noi mortali.

La dimensione del tempo, secondo me, del tempo che passa e cambia, che modifica per apposizione, per sottrazione, è essenziale, secondo me, per capire Tannhäuser, la sua genesi tormentata, le modifiche continue che il tempo ha apportato all’opera e al pensiero di Richard Wagner, e poi per metterlo in scena, rispettando in pieno il suo carattere musicale e ideale. Qui al Teatro Petruzzelli di Bari si mette in scena, da parte del regista Uwe Eric Laufenberg, quello che secondo me è il più irrappresentabile dei Musikdrama wagneriani, Tannhäuser, appunto, quello per cui ogni trovata registica, ogni astrusa simbologia, ogni audace drammaturgia è destinata a non riuscire quasi mai a cogliere veramente tutto ciò che si cela dietro l’apparente, quasi disarmante semplicità del testo, del percorso drammaturgico, perfino della musica.

A questo punto i pochissimi fedeli wagneriani tra i già sparuti lettori di queste mie quattro note balzeranno dalla sedia: più irrappresentabile del ponte di luce arcobaleno che conduce gli dei al Walhalla, più dell’incantesimo del fuoco della rupe di Brünnhilde, più dell’uccisione del drago Fafner, più dell’incendio del Walhalla accompagnata dall’esondazione del Reno? Tutte questi grandi topoi della mistica wagneriana, rigorosamente appartenenti alla Saga Nibelungica, meticolosamente e puntigliosamente descritti dall’Autore nei suoi libretti, di fatto non sono mai stati veramente causa di gran rovello per i metteur en scène di ogni epoca, meno che mai oggi, al tempo, parafrasando Benjamin, della riproducibilità tecnica del manufatto artistico: si tratta solo, in questi casi, di mere difficoltà tecniche e materiali, ampiamente superabili, risibili esercizi della fantasia.

Provate, invece, a rappresentare in teatro un autoritratto dell’Autore in Wort-Ton-Drama, ad esplorare ogni nota, ogni accordo, ogni parola, ogni virgola come valida in sé, certamente, ma, nel contempo, pure obliquamente rinviante, per traverse vie, ad altro e magari opposto, comunque diverso, significato, natura, sostanza, un po’ come succede nel corso della cavalleresca tenzone poetica tra i Minnesänger contenuta all’interno dell’opera – uno dei tre ruscelli che confluisce nel gran fiume del Tannhäuser – che si propone di dar significato ultimo all’essenza dell’amore: improponibile, impossibile, irrealizzabile, perché ogni definizione, per quanto convincente e apparentemente esaustiva che tenti anche solo approssimativamente di dar corpo a quella sfuggente sostanza, non può che finire per essere solo un diverso punto di vista, vero in sé, certamente, ma che non riesce a cogliere per intera la realtà.

Tannhäuser è, infatti, secondo me, esattamente questo, lo sfuggente e mai compiuto autoritratto dell’Autore e della sua concezione estetica, analogo in tutto e per tutto alla Gioconda che Leonardo portò con sé tutta la vita fino alla morte, di volta in volta aggiornando, quella tela e quel ritratto e quel sorriso, all’oggi che si faceva nuovo ogni giorno, con le conquiste della sua tecnica e della vita sua: anche Wagner fece lo stesso con quest’opera, composta nel 1843 e rappresentata a Dresda due anni dopo, ma poi nel tempo continuamente emendata e rimaneggiata: quando, quasi vent’anni più tardi, dopo aver già composto non solo Lohengrin, ma pure Das Rheingold e Die Walküre, aver lasciato Unter den Linden il povero Siegfried e perfino aver messo in scena la musica dell’avvenire di Tristan und Isolde, nel 1861, ormai ricco – ma sempre indebitato – e famoso, andò alla conquista della Capitale cui più teneva, e che più odiava, Parigi, sarà proprio Tannhäuser, nel frattempo “ristrutturato” secondo le notevoli innovazioni stilistiche post-tristaniane, che deciderà di metter sulla scena, dopo 160 estenuanti – non ho ragione di dubitarne – prove d’orchestra, andando incontro, ovviamente, ad uno dei più clamorosi fiaschi della sua carriera, lodato solo da qualche sparuto intellettuale della Parigi che non contava nulla, come un tal Baudelaire.

Dopo qualche anno, praticamente in contemporanea alla prima dei Meistersinger diretta da von Bülow, a Vienna metterà in scena quella che lui dice di considerare la versione definitiva del nostro Tannhäuser, ma che di fatto continuerà a correggere e modificare fino alla fine della sua vita, se dobbiamo credere – e non vedo perché no – a Cosima quando racconta del rimpianto di Richard, poco prima di morire, per non essere riuscito, con quest’opera, ad essere in qualche modo definitivo, perché delle tante versioni nessuna gli sembrava mai quella compiuta e perfetta e di questo si rammaricava, per essere in qualche modo debitore nei confronti del pubblico: l’autoritratto non è mai soddisfacente, infatti, come Achille rispetto alla tartaruga sarà sempre un attimo più indietro rispetto alla realtà.

E quando parlo di autoritratto mi riferisco, certo, ma non solo, al ritrovar dentro Tannhäuser un po’ di tutto, dalle vecchie forme chiuse – perfino, ed è quasi incredibile!, un bel concertato – alla tessitura contrappuntistica, dal declamato al cromatismo, naturalmente ai leitmotiv, pur se più scolpiti e meno liquidi del solito, e poi situazioni e incisi musicali che ti stupisci molto trovar qui perché teoricamente dovrebbe venir dopo – una sorta di macchina del tempo che si aggiunge ai consueti sortilegi del Mago Wagner – il risveglio di Heinrich accanto a Venere così simile a quello di Wotan accanto a Fricka nel Rheingold, il duetto del protagonista con Elisabeth che tanto riporta al duetto per eccellenza del Tristan, le giustificazione delle Walkirie in difesa della colpevole Brünnhilde così somiglianti a quelle di Elisabeth che cerca di discolpare Heinrich di fronte agli altri Minnesänger, e poter tirare avanti a lungo con gli esempi.

Tutto questo sarebbe già di per sé più che sufficiente, ma quel che più colpisce, quello a cui mi riferisco soprattutto parlando di autoritratto, quel che segnatamente è utile al fine di una fruttuosa messinscena, va riferito alle due principali concezioni interpretative della regia teatrale da parte di Wagner, attraverso il ripensamento della figura del Regisseur che, da semplice organizzatore di scena diventa, proprio con Wagner, vero e proprio reggente della performatività teatrale, passando dalla fase che potremmo chiamare “realistica”, per cui è possibile “organizzare la vita” sulla scena – che diventa il “rispecchiamento” della vita stessa – a quella che invece segue al 1854 e alla lettura del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer che è una svolta verso l’astrazione e che definisce la scena come “azione musicale divenuta visibile”.

Così, non fa che ripercorrere, Uwe Eric Laufenberg, quel percorso dell’evoluzione del pensiero wagneriano, nella non forzata coesistenza di entrambe le concezioni del teatro, in questo allestimento sospeso tra realismo e astrazione, che non sono in realtà in contrapposizione, come anche per molto tempo si è pensato, ma l’una conseguenza dell’altra, perché se il “rispecchiamento” del “realismo scenico” copia, in certo qual senso, la vita; la musica, la più astratta delle arti, rimane sempre il mezzo di “emanazione” della vita stessa. Costruisce, allora, per il suo Tannhäuser, il regista, in uno con lo scenografo Rolf Glittenberg, una scena che, di volta in volta, obbedendo solo alla legge della musica, è lussuria e preghiera, sede del Potere e poi della Pietà, l’aquila della forza e della prevaricazione – alla cui figura nera e minacciosa si sovrappone, prima quella di Elisabeth, poi, nel delirio del protagonista, quella dell’ossessivo nudo di donna – si alterna a trascurati trofei di cervo – ibrido che in sé racchiude, scissi, i due significati del trionfo della virilità e della regalità del Cristo – bosco e caverna, innevato e gelido deserto del pentimento e della redenzione.

E se i grandi divani di pelle nera senza braccioli assumono tante posizioni sul pavimento quante sono tutte le infinite possibilità, come le infinite sliding doors della vita, che possono dar origine a infiniti futuri, muovendosi senza sosta, la teca di cristallo che racchiude il metaforico corpo di Elisabeth, in una radura in mezzo ad una intatta foresta non può che teneramente ricordarci Schneewittchen, la creatura  – la nostra Biancaneve – di Jacob e Wilhelm Grimm, autori pure di una delle tante fonti utilizzate da Wagner per raccontare il suo Tannhäuser.

Così i nudi integrali assurgono a simbolo – reale e metaforico – del profondo decadimento morale del protagonista, comparendo all’inizio, com’è ovvio, nel Venusberg, e poi ogniqualvolta nella fitta trama musicale ne affiori il tema ritmato e insinuante e seduttivo, ma non risultano, alla fine, per chi siede in platea, per nulla disturbanti, perfettamente inseriti nella ridda di figure e simboli che costituiscono questo mondo che il regista va man mano descrivendo, apparentemente senza speranza, tra miti gelidi e  intransigenti nella loro gelosia e fanatici colti e amanti dell’arte propria che rifiutano chiunque tocchi i confini del loro sistema di regole, raffigurazioni sottili e precise di un mondo di valori ed emozioni in frantumi in cui tutti noi che abitiamo il presente, in fondo, possiamo riconoscerci, tra integralismi intolleranti e retorici populismi.

E non resiste, poi, il regista, alla tentazione e, lasciati i più o meno moderni costumi di un oggi senza tempo, tra zaini dei pellegrini in marcia verso Roma ed eleganti abiti da sera, veste tutti i suoi personaggi in abiti medievali per la grande scena nella Sala del Certame, quasi una rievocazione storica un po’ kitsch come quelle che vediamo ormai colpevolmente dilagare in città e borghi pittoreschi di mezza Europa, figurine di carta colorata che rimandano ad un medioevo astratto e favoloso, assolato e onirico, ad usum dei posteri turisti più che dei naturali abitanti di quei fiabeschi anni.

Ricordano molto, questi costumi, così colorati e vivaci, dovuti al disegno di Marianne Glittenberg, le illustrazioni dei sussidiari ad uso nelle scuole di tanti anni fa – non so dell’oggi – che i giovani studenti utilizzavano per render meno indigeste le lunghe pagine scritte a mano delle ricerche; meglio, ancora, al medioevo fantasioso e fantastico delle tavole del Principe Valiant di quel grande artista che fu Alex Raymond, che tanti sogni addusse ai giovani di quegli anni lontani, epoca vera solo nell’immaginario degli eterni adolescenti.

È però nell’inverno nevoso del terzo atto che il regista, secondo me, porta a compimento magistralmente il percorso articolato e impervio, nella sua complessità, della sua drammaturgia: Elisabeth attende ai piedi di una enorme croce obliquamente appoggiata sulla neve il ritorno dal pellegrinaggio a Roma di Heinrich, indossa un semplice e leggero vestitino bianco di cotone del tutto inadatto al freddo dell’ambiente, accanto a lei, sotto una minuscola canadese, il sempre fido Wolfram. Quando, dopo l’arrivo dei pellegrini, Elisabeth si rende conto che Heinrich non tornerà, perché non ha ottenuto il perdono del Papa, rivolge la sua preghiera alla Vergine e poi, semplicemente, si lascia morire: si toglie il vestitino bianco, che cade nella neve e procede silenziosa verso il fondo buio della notte, fino a sparire.

Da quel momento, il vestitino bianco, raccolto come una reliquia di Wolfram è, per sineddoche, il corpo stesso di Elisabeth, la sua santa memoria, e infatti con ogni cura Wolfram lo stende aperto sulla base della croce: quando Heinrich arriva e racconta le sue vicissitudini a Wolfram, maltratterà in ogni modo quel che sembra solo un pezzo di stoffa, letteralmente non lo vedrà, ci si siederà e ci camminerà sopra, lo getterà via come un rifiuto. Tuttavia, quando Venere, da lui evocata, tornerà col suo corteo di nani e ballerine, di nudi e di folletti, pronta a riappropriarsi, ormai per sempre, dell’anima sua, sarà proprio quell’insignificante bianco vestitino, innalzato da Wolfram come un vessillo, a dissipare i tormentosi spiriti della notte, che ormai si svelano in tutta la loro essenza, mostrando finalmente sui loro corpi nudi e bellissimi le stigmate della morte, e a salvare Heinrich, che si avvia verso il fondo ormai illuminato dalla luce di Dio, entrando per sempre in den Selingen Frieden!

Conduce strepitosamente questa complessa partitura Michael Güttler, che già avevo ascoltato dirigere, sempre qui al Petruzzelli, una estenuata Pikovaja Dama per la regia dello stesso Laufenberg l’anno scorso: tutto è al proprio posto, i corni scintillano evocando foreste e cavalli, gli archi disegnano morbide volute dove s’accoglie, tenero, il dolore, le percussioni segnano un tempo in cui la pienezza dello spirito s’alterna, grave, al vuoto esistenziale. Eppure tutto risulta, al cuore prima e all’orecchio poi, lieve e privo di retorica, suonare Wagner così, senza che all’appello manchi una sola nota o una sola, se pure sperduta, emozione, e tuttavia renderlo stupendamente depurato d’ogni inutile gravame, d’ogni noioso appesantirsi, d’ogni intollerabile improficua desolazione ha veramente del miracolo.

Anche i due protagonisti di stasera li ho già visti e sentiti nella stessa occasione e, rileggendo il giudizio di allora, non posso che confermarlo: l’interpretazione di Elisabeth da parte di Elena Bezgodkova si segnala per l’eleganza e la trattenuta passione, commovente per la fragile semplicità che sottende, per mutarsi poi in disperazione tuttavia illuminata dalla forza della fede quando comprenderà i disegni che il destino le impone, accettando la morte: la sua preghiera Allmächt’ge Jungfrau sa veramente toccare il cuore, nella sua desolata semplicità.

Aaron Cawley sa diventare un Heinrich tormentato e contraddittorio dalla voce potente e proiettante, ciò che ci si aspetta, in fondo, da questo personaggio, che il tenore irlandese sa rendere al meglio, sia sotto il profilo vocale che drammaturgico: ruolo decisamente ostico, da Heldentenor sempre in scena, reso ancor più complesso dal destino di uomo inquieto e angosciato, che vede – e lo vedono tutti – il suo destino già scritto. Vocalmente assolutamente convincente la Venere di Jordanka Milkova, la sua voce mezzosopranile riesce ad essere voluttuosa quanto deve esserlo la dea dell’amore, pur in questa versione wagneriana che si tinge decisamente di demoniaco. Anzi.

Da segnalare pure, senz’altro, gli accenti dolci e appassionati del cavalleresco Wolfram von Eschenbach di Birger Radde e la voce calda e grave dell’Herrmann di Young Doo Park, entrambi molto applauditi dal pubblico, che in generale mi sembra aver molto apprezzato questo allestimento, sicuramente molto Deutsch, con solidi riferimenti culturali nella letteratura e nell’arte tedesca, primo fra tutti certamente Goethe e il suo Faust, ma perfettamente comprensibile, in ogni suo particolare, anche da chi, in poltrona, guardava e applaudiva, per nulla stanco delle quattro ore di spettacolo.

Tannhäuser sospeso tra realismo e astrazione
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

Tannhäuser sospeso tra realismo e astrazione

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×