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Winter Journey, il mare non bagna l’Europa

Winter Journey, il mare non bagna l’Europa
Fermata Spettacolo

È sempre un evento un’opera in musica contemporanea, in fondo una speranza per l’avvenire, una scommessa che un domani ci sarà, nonostante tutto. Se poi l’autore dell’impresa è Ludovico Einaudi, su libretto di Colm Tóibín, per la regia di Roberto Andò, la prima al Teatro San Carlo di Napoli assume enorme valore: racconta, Winter Journey, la storia di una migrazione disperata da paesi tormentati e devastati dalla guerra verso l’Europa, con tutto il suo carico di speranza e dolore, indifferenza e rifiuto, un ulteriore tassello, un diverso punto di vista sull’argomento, che si incrocia sorprendentemente con il grande successo che sta incontrando al cinema, in questo momento, il film di Matteo Garrone, Io capitano: in tutta evidenza, l’epopea della Grande Migrazione – probabilmente l’unico motivo per cui i posteri ricorderanno quest’epoca – si fa poesia, arte, epica del nostro tempo, in cui si cimentano e combattono, per la propria vita, eroi e demoni, luce e tenebre, mente e cuore.

Se Ludovico Einaudi si pone nel solco dei grandi musicisti italiani della nostra contemporaneità, da Nino Rota a Ennio Morricone, di solida formazione classica ma che ha saputo accogliere nella sua musica suggestioni e modalità diverse, Colm Tóibín è scrittore che per una vita ha saputo raccontare storie di gente comune facendole diventare leggende e miti narrate secondo il nostro proprio lessico familiare, le nostre più comuni e vive espressioni; in questo caso la storia è raccontata dal punto di vista di tre personaggi: un Uomo (Badara Seck, fuoriscena Mamadou Dioume) decide di lasciare il suo paese devastato dalla guerra per una vita migliore in Europa, lasciando dietro di sé una Donna (Malia) e un Figlio (voce di Leslie Nsiah Afriyie, interpretato sul palco da Fabio Boateng). Dapprima la donna, non avendo notizie del marito, teme che l’uomo sia annegato in mare, i messaggi di testo intermittenti tra i due trasmettono disperazione, sollievo e speranza che le cose possano migliorare.

Mentre l’uomo viaggia verso il nord e la Germania, inizia l’inverno in Europa, nello stesso tempo la guerra civile nel paese africano da cui è partito si aggrava, lasciando la donna e il bambino in una situazione sempre più disperata mentre le reti elettriche, idriche e telefoniche vengono distrutte una dopo l’altra. Le scene che coinvolgono questi tre personaggi si alternano ai discorsi dei leader politici occidentali (interpretati con forza da Jonathan Moore) che implorano simpatia o, più spesso, condannano i rifugiati per aver osato attraversare i confini, mentre un Coro – talvolta cantando (Coro del Teatro San Carlo di cui è Maestro Aggiunto Vincenzo Caruso), talaltra recitando (Allievi ed ex Allievi della Scuola del Teatro di Napoli/Teatro Nazionale), la cui Voce recitante è Elle van Knoll, ripete frasi chiave come: The boat cannot dock at our port, Why should we deal with this problem?, We do not want strangers on our streets.

Il regista Roberto Andò, che a buon titolo includerei tra gli autori, perché sua l’idea e sicuramente anche il coordinamento di questa impresa, coprodotta dal Teatro San Carlo e dal Teatro Massimo di Palermo, ha dichiarato in una intervista che l’idea di partenza è un pretesto, una citazione: il mondo che Franz Schubert ci ha consegnato nella Winterreise è il modello “alto” di questo lavoro, soprattutto perché il capolavoro schubertiano sottintendeva anche l’idea che l’Europa si trovasse in quel momento in un inverno, quello della reazione e della Restaurazione, che gelava tutte le istanze nuove del mondo d’allora.

Oggi l’Europa è nello stesso inverno, è la tesi degli Autori, il protagonista del viaggio era, ed è, un Fremd, parola dai molteplici significati – singolare, strano, straniero, ostile – che, oggi come allora, ha qualcosa da insegnare a noi che rimaniamo tranquillamente seduti sui nostri divani, al calore delle nostre case, è un visionario che guarda ciò che ha in serbo il futuro, un estraneo che sembra trionfare sulla meschinità. Winter Journey è dunque prima di tutto un viaggio, reale e insieme metaforico, nel desolato inverno europeo contemporaneo, nella disperata solitudine di chi è costretto ad abbandonare il proprio Paese per imbarcarsi verso terre dove mendicare e guadagnarsi da vivere, è una storia che va oltre i confini ordinari dell’amore, sia esso definito come una storia d’amore tra un uomo e una donna o tra un bambino e i suoi genitori: perdita, dolore, solitudine, disperazione, ironia, questi i toni delle voci che si rincorrono, in un significato tragico, che assume a volte il tono febbrile del desiderio, altre volte quello lirico e commovente dell’assenza.

Beninteso, ci sono enormi rischi nel condurre avanti un’operazione del genere, ben presenti agli autori, che l’hanno dichiarato in molte interviste: il primo, e più importante, è quello della retorica, perché se è vero che esiste e prospera enormemente oggi una diffusa e variamente tinteggiata enfaticità del cinismo e dell’efficienza, che facilmente assume i toni aggravati della xenofobia se non del razzismo, è altrettanto certa l’esistenza di una verbosità della filantropia, una ipocrita pelosa carità che poi alla fine acquieta le coscienze senza provocare alcun cambiamento. In altre parole, è facile toccare certi argomenti nella certezza di provocare superficiali emozioni che non solo non ci toccano profondamente ma che vengono poi frettolosamente archiviate nel novero dei cosiddetti “buoni sentimenti” di cui, come le buone intenzioni, son lastricate le strade dell’inferno.

Credo, tuttavia, che la prova sia stata brillantemente superata e che tal pericolo in questo caso non sussista, pur tenendo conto, sempre, che il timore di cadere nel cosiddetto “buonismo” o il pudore nel mostrare obiettive verità non può esimere nessuno dal toccare certi argomenti “scomodi”, altrimenti si lascia del tutto il campo a chi, invece, non si pone alcun problema a parlare alla “pancia”, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Il secondo rischio consiste nel fatto che, poiché gli argomenti sono di stringente attualità, può accadere che si faccia cronaca piuttosto che ripensamento dei fatti, inchiesta giornalistica piuttosto che arte, il cui oggetto non è, non dovrebbe essere, la realtà ma la sua trasfigurazione: ma certamente, anche questo pericolo è stato brillantemente evitato, lo stile generale della narrazione non ha nulla di realistico, anzi spesso, nel corso della rappresentazione, ho avuto la sensazione che gli autori, più che riportare la cronaca aberrante dei fatti, descrivessero invece la nascita di un Mito, narrazione tramandata di fatti reali che tuttavia diventano sacri proprio in quanto possibile risposta ad esigenze vitali e generali.

Costruisce, allora, Einaudi, un vero e proprio tappeto sonoro che non solo accompagna le situazioni che vediamo svolgersi sotto i nostri occhi, ma spesso evoca emozioni, sensazioni, attese; ancora più frequentemente, con l’uso sapiente dei leimotive, riesce a creare direttamente un mondo emotivamente coinvolgente, drammaticamente avvincente e catartico, pur nell’approccio minimalista che da sempre contraddistingue la musica sua, questa volta arricchita da elementi delle tradizioni musicali africane: le voci non liriche degli interpreti, sovrapposte alle sonorità minimaliste occidentali seguono il viaggio cantando nella maniera tradizionale africana, improvvisando liberamente entro il contesto musicale fornito dall’Orchestra del Teatro San Carlo, diretta da Carlo Tenan.

È ovvio che siamo ben lontani dall’opera lirica tradizionale, se per questa s’intende uno spettacolo dove voci liriche cantano un testo raccontando una storia dall’inizio alla fine: il modello dichiarato di Einaudi è, naturalmente, più astratto e contemporaneo, e cita Steve Reich o Philip Glass. Anche il libretto di Tóibín è costruito in modo non strettamente sequenziale, è piuttosto un insieme di quadri che vanno a costituire sette sezioni che segnano piuttosto un travagliato cammino dell’anima, un percorso non lineare che si raggruma in taluni essenziali nodi dolorosi, una modalità del tutto anomala rispetto ad una storia che segua, invece, una ben definita cronologia o una logica serrata degli eventi: protagonista della prima sezione è allora, a mio modo di vedere, il mare, della seconda la memoria, della terza l’isolamento, della quarta l’inverno, della quinta il viaggio, della sesta la morte, della settima la solitudine.

Non c’è happy end, in Winter Journey, ma la conclusione rimane sospesa, nella neve che prende lenta a cadere, coprendo le disillusioni e le solitudini di ognuno dei tre protagonisti, solo un profondo atto di fede può farci credere che questo non chiuda definitivamente alla speranza di un avvenire migliore per tutti. La regia di Roberto Andò, con la complicità delle scene disegnate da Gianni Carluccio e i costumi di Daniela Cernigliaro, organizza lo spazio scenico su piani distinti, in cui agiscono separatamente i tre protagonisti, cui si aggiunge uno spazio ulteriore per il politico e per il coro, con uso intensivo di video, anzi diremo che le proiezioni sono il centro propulsivo della messinscena: la cosa, contrariamente a molti altri allestimenti che ne abusano, non dà alcun fastidio, perché scopertamente lo spettacolo è stato concepito esattamente in questo modo, mostrandoci di volta in volta il mare, le città, il viaggio in treno, le guerre, topoi eterni e quasi rituali dove noi umani esercitiamo, nel bene e nel male, la concretezza del vivere, angustiati delle nostre speranze e delle nostre disillusioni, certi soli della nostra morte.

Perché poi, alla fine, ciò che rimane negli occhi e nelle orecchie, ciò che persiste nella memoria dopo che la musica è finita, gli applausi ci sono stati, e molti e molto intensi, quel che resta impresso è the sound of Europe’s cry, il grido dell’Europa che costruisce sogni e possibilità per le persone che vogliano muoversi, ma pure, al tempo stesso, modi per fermarle, per rimandarle indietro, per impedire che partano e basta: make hope, make despair, the winter journey to the north. È l’Europa, alla fine, la protagonista di questo lavoro, l’Europa della cui anima sentiamo echi nelle millenarie città, nei Parlamenti, nei luoghi dove a dream of equality and human rights is debated and refined: the dream has becomes a way of life: è l’Europa che abbiamo sognato, il fragile luogo in cui viviamo, di cui purtroppo oggi stentiamo a mantenere the memory buried deep in its heart, le memorie e le speranze giù in fondo al cuore, la camera buia cui si ripensa sempre, come nei versi di quel poeta dimenticato anche lui, il cortile antico dove s’apriva l’alba.

Siamo noi i protagonisti, che questa nostra patria abitiamo e amiamo, e che sempre più vediamo precipitare in una fine oscura e ottusa che sembra ineluttabile, preda di spinte populiste e reazionarie, di un gelido inverno che congela i nostri cuori in un bara impermeabile di ghiaccio, fortezza che ormai chiude se stessa e le proprie idealità all’interno dei propri confini, come una cittadella murata, aspettando, in armi, immaginari Tartari oltre il deserto che ormai è diventato il mare. È, il mare, da sempre apportatore di vita che più non riconosciamo, diventato mero liquido amniotico in cui affonda la memoria, fonte di uno spaesamento, una nevrosi, un male oscuro tanto simile a quello che deve aver provato Anna Maria Ortese tanti anni fa, di fronte alla sua Napoli – di fronte al suo mondo – in cui si disfacevano, dopo una guerra rovinosa, idealità e speranze: sì, anche oggi, come allora, il mare non bagna (più) l’Europa, l’inverno è appena cominciato.

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