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Da Brahms a Dvořák seguendo il mutare delle stagioni del cuore

Da Brahms a Dvořák seguendo il Mutare Delle Stagioni del cuore
Fermata Spettacolo

Johannes  Brahms e la sua impronta sulla musica europea sembra essere il tema non dichiarato di questo bel Concerto qui al Teatro Patruzzelli di Bari: spesso mi sorprendo, quando assisto ai più disparati concerti, per i palesi, ma più spesso segreti legami che possono, per vie a volte singolari, accomunare brani spesso in apparenza molto distanti tra loro.

Così, Giacomo Sagripanti e Alexander Lonquich scelgono il Concerto n. 1 di Brahms per pianoforte e orchestra come brano d’apertura, partitura in mezzo al guado tra giovinezza e maturità del musicista tedesco, per poi farlo seguire da quella Sinfonia n. 7 che Antonin Dvořák compose proprio nel bel mezzo della sua “conversione” dai modi “wagneriani” degli inizi a quelli “brahmsiani” della maturità: brani dunque in cui si cercano – e si trovano – equilibri nuovi, inquietudini che accompagnano mutamenti spesso sofferti, conquiste dello spirito che non si accontenta, seguendo il mutare delle stagioni del proprio cuore.

Ma andiamo con ordine. Giacomo Sagripanti è direttore musicale dell’Opera di Stato di Tbilisi, e viene considerato uno dei direttori d’orchestra più interessanti della sua generazione nel panorama internazionale, vincitore nel 2016 degli Opera Awards come miglior giovane direttore d’orchestra dell’anno, a Londra. È un habitué del calendario di teatri come La Scala di Milano, la Royal Opera House di Londra, la Wiener Staatsoper, l’Opéra National di Parigi, oltre che l’Opera ABAO di Bilbao, il Palau de les Arts di Valencia, il Teatro de la Maestranza di Siviglia, l’Opera di Oviedo, il Gran Teatre del Liceu di Barcellona e Il Teatro Real di Madrid. Quest’estate ha debuttato anche al Teatro Colón di Buenos Aires dirigendo Il Trovatore con il soprano Anna Netrebko, recentissimamente ha diretto al San Carlo una Beatrice di Tenda belliniana in forma di concerto con gran successo e presto lo attende il debutto al Metropolitan Opera di New York.

Alexander Lonquich è un pianista e direttore d’orchestra italo-tedesco: nato nel 1960, ha iniziato i suoi studi di pianoforte in giovane età e ha rapidamente ottenuto il riconoscimento per il suo talento, esibendosi con le maggiori orchestre di tutto il mondo, tra cui la Filarmonica di Berlino, la Royal Concertgebouw Orchestra e la London Symphony Orchestra, tra le altre, e collaborando con famosi direttori ed ensemble di musica da camera. Oltre alle sue esibizioni pianistiche, Alexander Lonquich è attivo anche come direttore d’orchestra di prestigiose compagini come la Camerata Salzburg e la Stuttgart Chamber Orchestra: le sue interpretazioni di opere classiche e contemporanee sono state elogiate sia dal pubblico che dalla critica.

Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore, Op. 15, è una delle opere più famose e amate del compositore tedesco Johannes Brahms: composto tra il 1854 e il 1858, rappresenta una delle sue prime opere orchestrali significative. Sappiamo come la grande ambizione del giovane Brahms – potremmo anche parlare senza mezzi termini di ossessione – fosse scrivere una sinfonia, a ciò spinto anche dagli Schumann e la morte di Robert e l’amore per Clara sicuramente entrano nella genesi della composizione. Scrivere un concerto per pianoforte e orchestra rappresentava, probabilmente, un accettabile compromesso tra le sue ambizioni e le sue insicurezze, perché, pur restando ancorato allo strumento delle sue certezze, il pianoforte, poteva tuttavia cominciare a navigare nel più vasto mare della musica orchestrale.

La morte di Schumann cambiò le prospettive e lo sguardo del giovane: non posso non pensare, ogni volta che sento questo brano, come il pianoforte ben rappresenti la voce dell’Autore – e come potrebbe essere diversamente! – che canta le proprie emozioni, il lirismo libero e vago di raccontar le stelle, l’amore romantico, tutto preso da una arcana e diversa poesia, contrapposto in tutto alla voce dell’orchestra, che null’altro è che il mondo che drammaticamente bussa alla porta degli amanti, nel vano tentativo di riportarli a schemi più ordinari e consueti, a un certo ragionevole e rassicurante conformismo, pur nel tempestoso procedere della storia.

Com’è diversa, qui, la voce dell’orchestra, rispetto a quella – poniamo – di un concerto di Chopin, dove è solo contorno, asservita in tutto al vero protagonista: non c’è da stupirsi se il Concerto alla fine non piacque, quando fu presentato al Gewandhaus di Lipsia nel gennaio del 1859 fu subissato dai fischi, troppo emotiva quella musica, troppo lirico l’affanno, troppo esplicito il sacramento dell’amore che esprimeva e dichiarava: dovrà essere Clara Schumann, quasi trent’anni dopo, quando lo interpretò di fronte allo stesso pubblico nel 1888, a farne comprendere, in un vero trionfo, l’autentica natura, lei che di tutto quell’ingestibile e altrimenti inesprimibile amore era oggetto e insieme inviolabile santuario.

E così arriva fino a noi, stasera, il lot of surprises, come lo chiama Glenn Gould, a moral position full of contradictions, irrompe per mano di Lonquich nel turbinio del Maestoso del primo tempo con una corposità e un’autorevolezza quasi severa, che si stempera successivamente nei contrasti dinamici, emotivi e tematici che caratterizzano questa pagina, trovando poi, nella maestosa coda, espressione e forza drammatica non comune; l’Adagio del secondo movimento è occasione di un momento di calma e riflessione dopo l’intensità del primo movimento, col suo tema dolce e malinconico, seguito da variazioni e sviluppi emotivi, ma è nel vivace rondò dell’Allegro non troppo del movimento finale che il pianista italo-tedesco raccoglie e risolve la sfida tecnica e interpretativa richiesta dalla partitura, dove rifulge virtuosismo e capacità di espressione emotiva, alternando la serie di episodi musicali, spesso con cambiamenti di tonalità e ritmo, che ampiamente giustifica il tentativo – riuscito  – di autore e interprete, di bilanciare la tradizione classica con l’espressione romantica, giungendo al finale ultimo, energico e trionfante, che mostra tutta intera la volontà di Brahms di chiudere con una positiva asserzione.

Due i bis che ci vengon concessi, entrambi con grande concentrazione: il tragico Intermezzo N. 6 in Mi bemolle minore, Op. 118 dello stesso Brahms, a ribadire la possibile dedica della serata al musicista di Amburgo e la fine dell’idealità eroica beethoveniana, e poi un sognante e intenso Intermezzo N. 2 in fa diesis maggiore, Op. 36 di Chopin, così capriccioso nella sua struttura narrativa.

Dopo l’intervallo il Concerto prosegue con l’esecuzione, come detto, della Sinfonia n. 7 di Antonin Dvořák, una delle più mature e profonde del compositore boemo, anche se non così famosa come la sua Nona, Dal nuovo mondo. Se nelle prime composizioni, come tanti giovani musicisti della seconda metà del Secolo romantico, anche Dvořák subì il fascino prorompente di Richard Wagner, fu tra il 1873 e il 1875, quando aveva poco più di trent’anni, che attraversò una profonda crisi artistica che lo spinse ad affrancarsi dalle malìe giovanili e avvicinarsi, invece, a Brahms, che lo incoraggiava a scrivere musica nelle forme classiche della Sinfonia, del Concerto, della Serenata.

Così nel 1878, su sollecitazione dello stesso Brahms, l’editrice berlinese Simrock aggiunse Dvořák alio suoi autori, pubblicando i Moravian Duets (per soprano e mezzo‑soprano), seguiti con la prima serie di Danze slave per pianoforte a quattro mani, e in seguito dallo Stabat Mater e dalla Sinfonia n. 6 nel 1884: il successo fu tale che fu invitato a scrivere immediatamente una nuova sinfonia da eseguire l’anno successivo. L’invito lo infiammò di ambizione: “Proprio ora”, scriveva all’amico Antonín Rus il 22 dicembre 1884, “una nuova sinfonia occupa il mio tempo e la mia mente, e ovunque vada non penso ad altro che al mio lavoro, che deve essere capace di commuovere il mondo, e Dio mi conceda che lo faccia!”.

Giocoforza il modello dell’impresa fu la nuova sinfonia di Brahms, la Terza, l’impropria eroica del Frei aber Froh che aveva avuto modo di ascoltare a Berlino nel gennaio 1884 e che gli aveva dato un nuovo modello a cui aspirare. Ma c’era anche il diretto incoraggiamento del suo nuovo idolo, di cui è lusingato ma di cui teme il giudizio: “Sono impegnato in una nuova sinfonia da molto, molto tempo” scrive a Simrock nel febbraio 1885, “dovrà trattarsi di qualcosa di veramente importante, mentre mi ripeto le parole di Brahms: «Immagino la tua sinfonia completamente diversa da questa [la Sesta]».

Giacomo Sagripanti imprime alla Sinfonia una spinta, una chiarezza e un’integrità nella scansione dei tempi degna delle migliori esecuzioni, evitando sistematicamente ogni rigidità, incoraggiando gli esecutori a “cantare” i temi lirici con fervore, lasciando che il tempo – e la musica – respiri all’interno della misura e poi cercando di mantenere “aperte” le sonorità, senza mai lasciare che le trame si infittiscano: così i passaggi turbolenti del secondo e del quarto movimento generano drammaticità grazie a un equilibrato bilanciamento, piuttosto che con il puro clamore di fiati e ottoni.

Quando inizia in modo teso l’Allegro maestoso del primo movimento, sembra veramente di trovarsi in pieno mondo di Brahms, mentre sfocia nella tenerezza il secondo tema, creando un’atmosfera intensa. Il secondo movimento, Poco adagio, è quello in cui l’Autore riflette sulla propria crisi personale: la recente morte della madre e del figlio maggiore gli ha pesato molto, e al secondo movimento ha aggiunto una sua nota a piè di pagina: Dagli anni tristi. Non a caso è quello in cui più si fanno insistenti i richiami espliciti al mondo wagneriano della giovinezza, riccamente sottolineati da Sagripanti, fino ad una vera e propria evocazione del cromatismo del Tristan, mentre si passa, con il terzo movimento, lo Scherzo, allo spirito della danza boema.

Infine, l’interpretazione di Sagripanti del Finale è, semplicemente, una delle più gioiose che abbia mai sentito, nonostante le tonalità minori prevalenti e gli sviluppi drammatici, stemperati dalla sfida decisa della conclusione. Grandi applausi alla fine, che il Direttore dedica ai solisti dell’Orchestra, chiamati uno dopo l’altro all’attenzione del pubblico.

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