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Un’obi scarlatta per Madama Butterfly

Un’obi scarlatta per Madama Butterfly
Fermata Spettacolo

Dice la leggenda che a Londra, nell’ormai lontana estate del 1900, Giacomo Puccini assistette per ben tre volte, tanto ne era affascinato, alla Madama Butterfly di David Belasco, pièce teatrale che l’anno prima aveva debuttato con successo all’Herald Square Theatre di New York. Puccini si trovava a Londra per le prove di Tosca al Covent Garden, e il suo impresario inglese Francis Nielsen gli consigliò di andare in quel teatro raffinato – il Duke of York’s Theatre, in St Martin’s Lane nel West End – dove avrebbe debuttato in quello stesso anno anche Miss Hobbs di Jerome Klapka Jerome e, qualche anno dopo, il Peter Pan di Sir James Matthew Barrie. In realtà, probabilmente, dovette tornare più volte in teatro perché non conosceva bene l’inglese e si perdeva, quindi, gran parte dei dialoghi; ma, ben oltre la parola, ciò che vide, ciò che comprese, ciò che lo inebetì, lo colpì talmente da affrettarsi a chiedere all’autore, quasi implorando, i diritti per far di quell’esotica tragedia un melodramma: vi aveva visto materia che poteva, in tutta evidenza, esser fatta sua, perché l’intendere il dramma da parte di Belasco era in tutto simile al suo, indubbiamente e francamente mèlo, una concezione della teatralità del tutto affine, e così pure il sentimento poetico di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, lo stesso sentire che idealmente lo legava a Giovanni Pascoli, al di là e al di sopra di ciò che poteva esprimere la lingua: le piccole cose umili e silenziose… una tenerezza sfiorante e pur profonda come il ciel, come l’onda lieve e forte del mare.

Era sempre attento, Belasco, al teatro, dedicava una cura quasi maniacale della regia e, segnatamente, alle componenti visive dello spettacolo, in particolare alla luce e ai suoi cambiamenti, che diventava, allora, la vera protagonista della scena, descrivendo, con i suoi mutamenti delicati, il succedersi, spesso repentino, delle emozioni. Anche la musica di scena di William Furst colpì fortemente Puccini, la melodia pentatonica così spesso utilizzata, suggestioni musicali giapponesi, contrasti tra occidente ed oriente resi perfettamente in musica anticipano già quella che sarà la partitura piccinina, debitrice a Furst e Belasco anche di molto carattere della successiva Fanciulla del West. In particolare, tuttavia, fu il cuore della pièce a colpire il nostro musicista, la scena della veglia che nella sua complessità diventerà anche il centro del melodramma, il trascolorare della luce, filtrata attraverso la seta, nel passaggio dal tramonto alla notte all’alba, suoni definiti ma allo stesso tempo sfumati come i colori della sera.

Così l’attesa del definitivo tramontare del sole si esprimeva, in Belasco e Furst, nella scelta coraggiosissima di ben quattordici minuti di assoluto silenzio, l’oblio del tempo sospeso, l’assenza quasi sfacciata di parole e di suoni, un sorta di sfida al pubblico attonito, in cui risuona, tutta intera, l’ansia e la speranza, l’inquietudine e il dramma: in Puccini questo prolungato e inquietante silenzio diventerà, come tutti sappiamo, il Coro a bocca chiusa, muto nell’impossibilità assoluta di esprimere l’indicibile, l’attesa della sera e del sonno, mentre lo squarcio sinfonico che segue – uno dei più alti mai scritti da Puccini – andrà in qualche modo a rappresentar la notte, con le sue paure, i suoi slanci, i suoi sogni, i suoi incubi, fino al destarsi alla realtà nei colori dell’alba col canto dei marinai giù al porto. Questo, nel suo farsi e disfarsi, nella sua alta complessità emotiva e teatrale è il cuore pulsante di Butterfly, torneremo su questo più tardi, per analizzare come Ferzan Özpetek ha affrontato e risolto questo passaggio essenziale.

Torna infatti al San Carlo di Napoli  in questi giorni la Madama Butterfly che il regista turco già mise in scena a Napoli nel 2019, e sostanzialmente questa ripresa conferma la sensazione che provai allora: il grigiore d’ombra della scena, magistralmente disegnata, certo, dalle matite di Sergio Tramonti, ma piuttosto buia, le giudiziose luci di Pasquale Mari non illuminano più del necessario a distinguer decentemente l’ambiente, la casa di legno e carta di riso ha le travi oscurate dal tempo come quelle d’un’antica cattedrale, sembra più la polverosa baracca di Minnie che il fiorito asil del paese del sol levante, un’aria fosca sembra spirare su case e abitanti del villaggio, vestiti da Alessandro Lai di colori spenti e uniformi, tanto da far sembrare un colpo nell’occhio la candida divisa di Pinkerton.

Certo il regista si è sentito in dovere di operare qualche più che doverosa correzione, rispetto a quel primo allestimento: non si sente più, per esempio, potentissima, la voce del mare, che prima ascoltavi fin dall’inizio a sipario chiuso, quasi ouverture dell’opera, possente simbolo e icona nel mondo della nostra contemporaneità, insieme col gracidio del pubblico che, lento, prendeva posto, al saluto degli amici, agli accordi degli orchestrali che giù in buca provavano gli strumenti e i motivi. Lo si ascolta adesso solo un minuto prima che entri il direttore, il suono del suo frangersi si perde del tutto, ma il mare sulla scena ancora ci sovrasta, è una immane parete d’acqua oscura e in tempesta, che, a partire dalla linea di fondo del palcoscenico, dove la teatrale macchina a rulli ne simula lo sciabordìo a riva alla maniera antica, sale sale incrociando onde e marosi schiumosi su su fino a infrangersi in buie scogliere, che non contrastano affatto col cielo, tempestoso e nuvoloso, che le opprime, piuttosto che illuminarle, confermandole in una luce livida d’eterna penombra.

No, non ha proprio nulla di festoso, questo mare e questo cielo, e il villaggio costruito sulle sue rive è un purgatorio in terra in cui nulla di felice e vivo hai l’impressione possa accadervi, forse perché, e sarebbe da chiedersene ragione, il regista ha deciso di spostare l’azione d’una cinquantina d’anni in avanti, lasciando così gli anni tronfi e speranzosi del Secolo che s’apriva, per piombare in quelli asfittici e chiusi che inaugurano, invece, la seconda parte del Secolo breve, capitando a Nagasaki – e proprio a Nagasaki – pochi anni dopo l’unico conflitto nucleare che la storia dell’uomo abbia finora conosciuto. Non credo sia casuale, questa scelta, non può evidentemente esserlo, così importante è quel luogo in quel tempo per la storia umana in cui al massimo livello arriva il conflitto tra oriente e occidente e diverse Weltanschauung confliggono fino a esitare in morte e desolazione: dà ragione, l’umana follia di quei giorni, del cinereo e bigio ambiente, del sapore di morte che infetta uomini e cose, del tono plumbeo e opaco che assume l’intera scena, e tuttavia trovo che questo faccia singolare contrasto con la musica di Butterfly, opera che, meglio e più di tante altre coeve, è riuscita a cogliere in pieno quella deriva dell’impressionismo visivo e musicale che da noi si chiama Liberty, ma che altrove prende nomi ch’evocano la gioventù e il continuo rinnovarsi, come Jugendstil e Art Nouveau.

Voglio dire, si può essere senz’altro d’accordo col regista che, in qualche modo, ci mostra le conseguenze più atroci dell’imperialismo americano, tema che è sicuramente presente in Butterfly, d’altra parte, tuttavia, non possiamo nasconderci che se questa ambientazione dichiaratamente in bianco e nero accentua i toni tragici ed espressionisti della vicenda, toglie tuttavia spessore artistico e psicologico all’opera, finisce per semplificarne troppo i contorni accentuandone i contrasti, compie un’operazione del tutto simile ad una riduzione cinematografica, in cui i protagonisti stessi, nonostante la grande professionalità degli interpreti, e su questo torneremo, vengon di fatto ridotti a puri stereotipi, figure da paravento che non riescono a staccarsi dal lucido fondo di lacca in cui sono immersi, incarnazioni bidimensionali di una ideologia; e pazienza per Pinkerton, che è stato concepito esattamente così, per Sharpless e Suzuki, che lo sono in gran parte, ma certo è un peccato per Cio-Cio-San, che meriterebbe ben altro, e questo al netto della prestazione musicale e drammatica offerta dai cantanti dei rispettivi ruoli che, anzi, è anche risultata spesso sopra la media.

Suonano allora stranianti le parole di Özpetek in conferenza stampa, quando dice che “Madama Butterfly per me non è affatto una vittima come viene sempre vista… è una donna determinata, cosciente delle cose che fa, tutt’altro che fragile… ha in mano il suo destino”, arruolandosi così, il Maestro, alla schiera degli allegri e incauti scopritori dell’ovvio, perché nessuno, posso giurarlo, ha mai pensato a Cio-Cio-San come una vittima passiva del destino, anzi, il suo perenne fascino sta proprio nel contrasto tra delicate apparenze e ferree volontà, che ne fanno l’unico personaggio vero di questa emblematica vicenda; e vederla prigioniera di goffi obi e kimono e veli rossi alla turca, omaggio evidente, come nella Traviata mediorientale, alle origini del regista, ci lascia un po’ perplessi, come pure altre trovate e trovatine, dalle belle ragazze in kimono rosso che girano in sala, a quella, sempre di scarlatto vestita, che sale sull’alta scala a scrutar l’orizzonte quando l’Abramo Lincoln entra in porto, il cuore del dramma di cui abbiamo parlato prima “occupato” da un filmato della Cio-Cio-San che si abbandona al mare (ancora!) durante il Coro a bocca chiusa, sostituendo l’ansiosa attesa con quella che appare in tutto una rassegnata voglia d’annientamento, e per fortuna ci sono state risparmiate, stavolta, le intemperanze ambigue di Goro, quelle meno smaniose di Suzuki, l’abusato grido finale del protagonista dalla platea, una fitta serie di elementi di distrazione di massa costruiti apposta per far chiacchiera vuota o per lo sfizio di ravvivare un po’ la tristezza vitale della scena, che non s’illumina nemmeno negli atti successivi, ambientati all’interno della casa di Cio-Cio-San, più o meno aperta sul mare oscuro e tempestoso del fondo: il senso d’oppressione e d’angoscia si accentua ancor più, se possibile, con l’evolvere e lo stringere della tragedia, le pareti s’alzano altissime e ferrigne impedendo ogni spiraglio di vitalità e ogni barlume di approfondimento psicologico, affogando ogni emozione in una chiusa e opprimente claustrofobica asfissia.

Per fortuna di tutt’altro tenore è la parte musicale, che s’incarica di ridare a Butterfly ciò che è di Butterfly, lo smalto, la luce, i colori, gli obliqui trasalimenti, lo scintillio di desideri mai sopiti che deriva dell’urgente sete di stelle, e il mare, certo, anche il mare e il cielo che vi si specchia, descritti mirabilmente e interpretati da Dan Ettinger alla guida dell’Orchestra del San Carlo, un acquerello di colore e luce che tocca il suo acme proprio nell’Intermezzo sinfonico, smania di suono e colore, repentino susseguirsi di angoscia e beatitudine, sogni e paure, slanci e trasalimenti; e anche il Coro – in mezzo al guado tra José Luis Basso che ne ha da poco lasciato la guida e Andrés Máspero che ne assumerà la direzione tra poco – guidato dal maestro collaboratore Vincenzo Caruso, fa la sua figura naturalmente nei cinque minuti del Coro a bocca chiusa.

Seguiamo ormai da anni la parabola artistica di Saimir Pirgu, l’evoluzione del suo cantare, ormai giunta a maturità, ne abbiamo ancora una volta ammirato il canto corposo ed esuberante che lo ha reso particolarmente credibile in questo personaggio che in apparenza è tutto vissuto, per così dire al di fuori, consumato in una vana voglia di sentirsi vivere, ma che pure deve saper trovare una sua sincerità, anche sorprendente e contraddittoria, nel lungo duetto d’amore del primo atto, che il tenore albanese riesce a rendere a meraviglia grazie alla sua bella voce, che nessuno gli ha mai potuto negare, ora leggermente imbrunita, facendole acquisire quel tocco d’eleganza che prima le era mancato, oltre che il suo fraseggio diretto, raffinato e seducente.

Ernesto Petti, nei panni di un compreso e partecipante Sharpless ha voce notevole, oltre a presenza di spicco: sappiamo come sia importante questa figura di tranquillo carisma che deve in qualche modo mitigare l’imperialismo americano che s’incarna in Pinkerton, quasi minimizzando, forse anche colpevolmente – soprattutto dal punto di vista della nostra contemporaneità – il suo comportamento spaventoso. Il baritono salernitano riesce a apportare compassione ed empatia nel ruolo, oltre che tocchi d’autoironica arguzia, i suoi tentativi di trasmettere la sua saggezza allo spericolato Pinkerton sono ammirevoli e la naturale simpatia che prova per Cio-Cio-San è assolutamente accattivante, la voce è bella, ricca e sonora e sovrasta spesso anche l’orchestra, dove altre non possono.

Una sorpresa è stata la Suzuki di Marina Comparato, anche lei al debutto nel ruolo: invece di una sciocca cameriera sottomessa, ci ritroviamo una ragazza scontrosa la cui alleanza con Cio-Cio-san deriva dai suoi genuini sentimenti di compassione per lei e da un sincero disprezzo per Pinkerton e non possiamo fare a meno di tifare per lei. Il mezzo tono di Comparato è ricco di armonici inferiori, specialmente nella gamma media della voce e dal punto di vista drammaturgico è perfettamente in grado di dominare la scena nei momenti più drammatici dell’opera, soprattutto nel finale, pur restando lirica e tenera quando necessario.

Ha un compito molto arduo nel cantare Butterfly, Ailyn Pérez al debutto nell’impervio ruolo della protagonista, dopo essere stata una convincente Elisabetta nel Don Carlo della prima di Stagione: perché da un lato Cio-Cio-San non è, come altri ruoli pucciniani, tanto ingenua da far sì che purezza e semplicità portino il pubblico in estasi, d’altro canto non può neppure lasciarsi andare troppo facilmente a tristezze e malinconia. A me è sembrato, alla fin fine, che il soprano statunitense abbia confermato, magari migliorandola, l’impressione positiva che mi aveva suscitato vederla nei panni d’Elisabetta, perché non manca né di voce né di presenza scenica, la sensazione è che ne abbia da vendere e dell’una e dell’altre, ma che probabilmente la sua dote maggiore sia il carattere e ne dà prova soprattutto alle prese con i momenti drammaticamente intensi del secondo atto: il pubblico lo sa, lo sente e molti sono gli applausi per lei alla fine, il teatro pieno in ogni ordine di posti tributa alla nuova Cio-Cio-San l’ovazione che merita: non possiamo che darle il benvenuto, di cuore.

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