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Barbie, il film geniale che non t’aspetti

Barbie, il Film geniale che non t’aspetti
Fermata Spettacolo

E’ vero, Greta Gerwig è una firma che sarebbe bastata come aspettativa positiva sul film Barbie, pellicole meravigliosamente fuori dagli schemi come Lady Bird e Piccole donne d’altra parte avevano già mostrato il talento registico di questa straordinaria donna, anche interprete, vista la lunga gavetta come attrice, prima di approdare al suo sogno dietro la macchina da presa. Eppure una certa malcelata reticenza nell’entrare in sala circondata da un’esplosione di rosa, declinato in tutte le tonalità possibili, ammetto di averla provata. Qualcosa tuttavia già nel foyer di un piccolo cinema della periferia romana mi aveva in qualche modo colpita: il fatto che oltre all’esercito di mamme e figlie, perlopiù bambine, ci fossero anche molti uomini. Giovani dell’ultimo spezzone della famigerata “genZ”, anche loro in tenute schiaparelli, ma anche padri-millenials, coppie dai venti ai quarant’anni.

Sarà stata forse la necessaria revisione concettuale del colore rosa, da sempre associato alla femminilità diciamo non proprio affrancata dal tradizionalismo, che non di rado ha suscitato in chi scrive quasi un senso di “doveroso” rifiuto, a suscitare quello strano senso di imbarazzo sociale. Ebbene il film Barbie è probabilmente riuscito nell’intento di rovesciare il costrutto, riappacificando perfino la stessa Margot Robbie, protagonista e produttrice del film, a questa tonalità così bistrattata, come ha avuto modo lei stessa di dichiarare, offrendo peraltro alle premier mondiali dei meravigliosi outfit a tema.

Ma cosa c’è di così speciale in questo film? Banalmente gli “ingredienti” di qualità, come una schiera di attrici e attori assolutamente fantastici. Su tutti naturalmente Margot Robbie, che irradia luce e bellezza a pale, senza abbandonare quel sorriso nient’affatto rassicurante alla Harley Quinn, così come Ryan Gosling, che oltre un pettorale di marmo abbronzatissimo, offre pure un Ken francamente irresistibile, senza lesinare performance canterino-danzerecce niente male, per finire sugli immensi Will Ferrell e America Ferrara.

E’ soprattutto lei a vincere lo scettro di reginetta per niente scontata, di un mondo di plastica patriarcale, dove spesso le donne sono spinte o semplicemente invitate a entrare dentro una scatola, tanto per citare un’altra scena memorabile. La ex protagonista della fortunata serie Ugly Betty, in Barbie interpreta Gloria, nome che la stessa Gerwig ha confessato avrebbe voluto dare a una figlia, se ne avesse avuta una. E’ suo il monologo più intenso ed emozionante del film, in cui dichiara al mondo fra rabbia e ostinazione perché “è quasi impossibile essere una donna”. Menzione d’onore a Helen Mirren nel ruolo della voce narrante, per noi doppiata dalla bravissima Ada Maria Serra Zanetti.

Ryan Gosling e Margot Robbie in Barbie di Greta Gerwig

Ma sì sa che i soli interpreti non bastano, è soprattutto il costrutto drammaturgico, coadiuvato da una regia eccellente, a fare da solidissima impalcatura a questa piccola grande perla cinematografica, che non stonerebbe fra le prossime nomination agli Oscar. E’ un vero e proprio viaggio dell’eroe, è meglio dell’eroina, con tutti i crismi del caso, dove praticamente non manca nulla.

Il racconto è divertente, pieno di ritmo, zeppo di citazioni cinefile e soprattutto intelligente. Sì perché se per alcuni, per fortuna pochi, Barbie è “un film per ragazze”, la verità colta dietro quella che solo all’apparenza poteva sembrare una parodia, è la semplice evidenza di quanto un mondo dominato da un solo sesso finisca inevitabilmente per generare decadenza, disforia, caduta.

Barbie è un film femminista nel senso più genuino del termine, laddove si voglia intendere con questo termine la necessaria, costante, inesauribile ricerca di un equilibrio fra sessi. E’ una pellicola che parla all’umanità tutta, ricordandoci proprio quanto sia complesso e affascinante essere umani e lo fa mettendo in piazza in primis le contraddizioni stesse create da Ruth Handler a partire da quel lontano 1959, quando regalò al mondo la prima Barbie.

In una società dominata dall’idea della donna moglie e madre, perfino nel mondo del gioco, con bambolotti e riproduzioni di utensili da lavori domestici, Ruth, co-fondatrice della Mattel, fa esplodere i cervelli con una mini pin-up; non a caso la scena iniziale del film ha il sottofondo musicale straussiano di 2001 Odissea nello spazio. E’ solo l’inizio, da quel momento la Barbie attraverserà le epoche e la Storia, insegnando, sulla carta, alle bambine di tutto l’universo noto, la possibilità di poter essere qualsiasi cosa: da medico ad astronauta, da ginnasta a bagnina di Baywatch, ma anche costringendole ancora una volta dentro la “scatola” di un corpo perfetto e inverosimile.

La logica dell’azienda aderisce perfettamente all’idea di riproducibilità di massa e sforna in serie Barbie e Ken “Stereotipo”, lasciando fuori serie le bambole meno omologabili, dal pioniere Alan, interpretato da uno straordinario Michael Cera, alla “troppo strana” Barbie incinta, o all’inquietante Skipper a cui cresceva nientemeno che il seno. Così come il famigerato Ken parlante “fidanzato perfetto” dei primi anni 2000, non citato nel film, che però a memoria personale fece pure il suo bello scandalo, nell’essere stato creato apposta per pronunciare quelle che dovevano essere state immaginate come le parole che ogni donna voleva sentirsi dire.

Già perchè il machone aragosta in questione, con tanto di magliettina attillata a favore di pettorale, possedeva in buona sintesi un registratore e ripeteva a pappagallo. Nella pubblicità la frase più gettonata era, manco a dirlo: “ti amo”,  quando poi in realtà le future donne precarie di quella generazione avrebbero probabilmente desiderato sentire piuttosto qualcosa come: “bonifico effettuato”, magari da un “Ken datore di lavoro dai pagamenti puntuali”.

Ma ecco una nuova trappola. Anche qui, fra esclusi non omologabili e uomini ai vertici di un’azienda che ha creato un mondo in cui Barbie comanda tutto, si ricade ancora una volta nel baratro sessista. E forse non è stato sufficiente neppure che la Mattel virasse di recente verso altre barbie dalle caratteristiche più inclusive. Come uscirne? Probabilmente quell’ignavo geniaccio indiano che ha proiettato il film Oppenheimer con Cillian Murphy nei panni del padre della bomba atomica, la sapeva più lunga di tutti i noi che abbiamo popolato il web di meme fantasticamente ridicoli, inequivocabilmente affascinati dal fenomeno ibrido Barbienheimer.

Insomma che dire, Barbie è un film assolutamente imperdibile, da vedere a tutti i costi e non per dare slancio a slogan anti-patriarcali ripetuti a pappagallo come il Ken di cui sopra, ma per riflettere sulla nostra stessa natura umanamente ipocrita. Chi d’altro canto, mano sul cuore, uomo o donna, può affermare di non aver mai distrutto o deturpato una barbie in vita sua? In entrambe i casi possiamo interpretarlo tanto come rifiuto di una schema, se è stata una ragazzina a farlo, tanto quanto come germoglio maschilista se è stato invece un “little bad boy”.

Forse a un certo punto dobbiamo fare a pezzi perfino i nostri miti, come rito di passaggio, di crescita e consapevolezza della nostra unicità. Magari allora la verità sta nel mezzo, siamo tutti un po’ “weirdos”, come la barbie ossessivamente tesa alla spaccata che nel film ha il volto di Kate McKinnon, un po’ pink e un po’ dark, a giorni alterni e per fortuna non c’è niente di male in questo. Non resta che ballarci su, salutando amabilmente i mezzi busti dell’ex wrestler John Cena-Tritone e Dua Lipa-sirena, letteralmente incastonati dentro un durissimo quanto azzurro cemento oceanico, che assieme a Lizzo, Billie Eilish e molti altri artisti, fra i più acclamati del panorama musicale, coesistono in una colonna sonora da movimento d’anca assicurato.

E se rimane ancora tristemente riconoscibile l’assunto di Ariana Greenblatt, nel film Sasha, la figlia di Gloria, per cui “tutti odiano le donne: donne e uomini”, possiamo tentare di fuggire semplicemente anche noi dalla nostra personale Barbieland fantascientificamente libera da cellulite, o Mojo Dojo Ken House infestata di cavalli e testosterone, intesi entrambe come inscatolamenti mentali, per cui dobbiamo dimostrare per forza di essere migliori dell’uomo o della donna di turno, per accettare di essere solo noi stessi, imperfezioni e ripensamenti inclusi. Magari ci basta semplicemente essere Barbara dai piedi piatti in birckenstock rosate, o “solo” Ken (Kenough) in autonomia, senza sentirsi l’accessorio di nessuna… Sfrecciando liberi su pattini fluo, nella Venice Beach dei nostri sogni off course!

In fondo è questo il messaggio di questo bel film da ben 145 milioni di dollari, che immaginiamo già campione d’incassi, grazie a Greta Gerwig per avercelo ricordato.

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