Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

La Medea dell’ambigua ninnananna tradita

La Medea dell’ambigua ninnananna tradita
Fermata Spettacolo

Illumina di luce opalina lo spazio semicircolare dell’orchestra, qui al Teatro Grande di Pompei, la luna piena che dona un che di irreale e di straniato a questa Medea di Euripide che, emblematicamente e significativamente, arricchisce la riflessione, nell’ambito del Pompeii Theatrum Mundi, su femminilità e mascolinità nel mondo antico che incrocia la nostra modernità, specificandosi in non banali declinazioni d’idee diverse di maternità. E certo non poteva mancare questa tragica icona del femminino che sottende una discorde narrazione, emblema di un’idea di maternità tradita o, al contempo, di femminilità in qualche modo tradita da una certa idea di maternità.

Nella candida luce la voce di Medea risuona ancora, allora, con le parole che Euripide ha immaginato per lei, io sono sola, dice, senza patria, oltraggiata da uno sposo che mi ha qui condotta come sua preda da una terra straniera, e non ho con me una madre, un fratello, un consanguineo, presso cui rifugiarmi in così grande sventura: grido in cui ritroviamo intatti i due nuclei problematici intorno ai quali l’Autore volle costruire e circoscrivere la storia, il mito, la parabola di Medea, da un lato il divario culturale tra lei e Corinto, tra lei e la grecità, dall’altro l’abbandono, il tradimento da parte di Giasone che, dopo averla condotta in quella città straniera, la lascia per un’altra donna; momenti interdipendenti, l’abbandono è vissuto come conseguenza del suo essere straniera – e donna straniera – per questo doppiamente in condizione di inferiorità.

Sono fuggiti, Medea e Giasone, dalla Colchide – regno di Medea e dell’irrazionale, del matriarcato, dei sacrifici umani, della magia, del dionisiaco – per approdare alla città di Corinto, allegoria dell’Occidente e della modernità, della legge e della ragione, dell’apollineo e della bellezza, in qualche modo il loro viaggio è anche metafora di quello che l’Occidente, la sua cultura, la sua civiltà ha da sempre considerato suo irrinunciabile feticcio, la missione di portare – imporre – se stesso al mondo, ciò battezzando, di volta in volta, sviluppo, religione, democrazia.

La salvezza di Giasone e l’arrivo in Grecia ha richiesto infatti un prezzo, un delitto – che trova compimento nel sacrificio rituale di Apsirto compiuto da Medea stessa, cui si riferisce probabilmente la scena iniziale con cui il regista ha voluto, non a caso, aprire questa rappresentazione – che è, in se stesso, negazione di ogni presunta razionalità, smentisce nei fatti l’innocenza vantata, non può portare con sé alcuna redenzione dall’originaria violenza, che anzi finisce, a questo punto, incorporato nello stesso atto presunto salvivico, ripetuto in forma sacrilega deviata e degradata, evolvendo in pura immanente volontà di potenza: la storia della civiltà finisce allora inevitabilmente per coincidere con questa storia di introversione del sacrificio, il civile eroismo costerà inevitabilmente un prezzo altissimo, umiliazione dell’impulso alla felicità, macchia indelebile, peccato originale che rimane nella memoria collettiva, fondamento di ogni senso di colpa che affliggerà da quel momento l’uomo bianco e l’esercizio del suo potere.

Così, quando affiora la crisi del rapporto tra Medea e Giasone, della relazione maschio-femmina che è alla base della riflessione di Euripide, questo peccato originale, alla radice stessa del patto tra pre-storia e storia, tra barbarie e civiltà, tra amore e volontà di potenza, erode ogni possibilità di mediazione, nel cuore di Medea non ci sarà più spazio che per le Furie che mutano in impulsi incontrollabili di morte, rifiuti incolleriti che qualsivoglia freudiana repressione non riesce più a incanalare e convertire in principio di piacere, il disagio di civiltà produce solo rabbia e sete di sangue, cieca opposizione al potere padronale, patriarcale, maschile, di Giasone (e del Re).

Riflessione certo non nuova, che si inserisce in un annoso percorso che vede protagonisti, a riprova dell’enorme fascino del personaggio, Corrado Alvaro e poi Pier Paolo Pasolini e poi ancora Christa Wolf e Robert Graves, e che consente di metter in scena oggi questo allestimento, uno dei migliori degli ultimi anni: la regia di un grande uomo di teatro come Federico Tiezzi – che, tra l’altro, sempre, nei suoi lavori, pone al centro l’aspetto visivo o visionario che dir si voglia e specificamente pittorico – altro non è se non riflessione sul linguaggio del teatro, dove l’azione non s’invera nel “tempo reale” ma diventa invece memoria, (ri)vissuta, di tragedia atavica, di bruciante dolore che si rinnova, grazie anche alla traduzione di Massimo Fusillo che rende il vetusto testo greco con un lessico e una sintassi comprensibili e scorrevoli, pur senza mai degradarsi nella banalità.

©ivan nocera per teatro di napoli

La scena di Marco Rossi è chiara e tersa come una perduta innocenza, sempre immersa nei colori pastello dell’alba o del giorno, solo alla fine s’arrossa del sangue del tramonto. Ospita, la gran casa, segni che riescono a diventare stigmate di un potere opprimente e falso, funzionali all’idea registica di dramma borghese di cui devono esser partecipi e testimoni. E così la vede, sull’ampio spazio circolare dell’orchestra, il pubblico che arriva al Teatro, e tavoli e sedie di legno bianco e nero a render confortevole la vita di chi ci abita; al di là della bianca scala che divide la corte esterna da quella interna, busti anticheggianti su colonne di marmo delimitano lo spazio della sala centrale, citazioni e ironici richiami ad un perduto immaginario candore classico riciclato attraverso gessi da giardino, ai due lati muri rivestiti di marmo bianco delimitano e proteggono l’area più interna, mentre esili telai di neon dalla fioca luce, sui lati estremi, tentano nell’aria geometrie felici di masse immaginate, linee ortogonali che aprono e chiudono, al tempo stesso, lo spazio d’una casa insieme principesca e vuota nel suo falso decoro.

Così anche i costumi sontuosi, nella loro stupefacente e disarmante semplicità firmati da Giovanna Buzzi, son tutti giocati sui toni dell’azzurro, del bianco del grigio e del nero, caratterizzati poi da non scontate maschere zoomorfe che espressionisticamente ci riportano ai riti magici legati all’alterità degli istinti, Medea porta spesso la maschera d’uccello, simbolo di rapina e libertà, rimpianto senz’altro della magia della terra sua e delle creature che l’abitavano, le arpie dei raccapriccianti racconti dei marinai, mezze donne e mezzi uccelli, Creonte e i suoi sgherri inossano maschere d’ipocriti e voraci coccodrilli, i bambini quelle fanciullesche di coniglietti candidi.

Grazie a tutti questi elementi, linguaggio, scene, costumi e soprattutto regia, si muovono i personaggi in una dimensione fisica e corporea molto diversa da quella della tragedia classica – si toccano, si accarezzano, si abbracciano, si baciano – e abbiamo così una più precisa e suggestiva percezione dell’interpretazione di questa tragedia classica nel senso del “dramma borghese”, idea sicuramente originale, purché si sia consapevoli dei notevoli rischi che questo comporta, nel passaggio dalle inesorabili spire della tragedia che – per necessità – avvolgono il protagonista, ad una narrazione, invece, in cui un nobile ed onesto eroe soccombe di fronte ad antagonisti riprovevoli. In fondo, dal nostro contemporaneo punto di vista, pure l’epoca del dramma borghese può ben appartenere al passato, sì da poterla ormai osservare integra nella sua prospettiva storica, possiamo perfino tentare di trapiantare una tragedia – con tutte le sue caratteristiche – in una temperie “borghese”, sperando che l’innesto attecchisca, ed è proprio ciò che in questo allestimento Tiezzi si propone di operare.

Certo, molta distanza intercorre, poniamo, tra la Norvegia della fine del Secolo romantico e la Corinto del III secolo avanti Cristo o la Napoli del secondo dopoguerra, per non parlare delle evidenti differenze tra Nora e Medea e Filomena, pure, a ben pensarci, Torvald e Giasone e Soriano sono in effetti accomunati dal comune privilegio, dalla frequentazione assidua del potere e del fascino sottile che quello promana, per cui alla fine non è così eccentrica la pretesa di (ri)creare un mondo altro, rivisitazione che evita l’impossibile operazione di risuscitar l’innocenza perduta e che si serve, invece, dell’ironia della citazione per rievocare, in modo costantemente diverso, la storia – che è narrazione del rapporto tra gli uomini – e la geografia – che è narrazione del rapporto tra le cose.

Medea antica e insieme contemporanea, quella che Tiezzi sceglie dunque di rappresentare, l’affabulazione della donna straniera in terra straniera riesce a far emergere tutte le contraddizioni della presunta superiorità della civiltà greca (e occidentale in genere), la messa al bando e l’ostracismo da parte della polis civile e ordinata, l’ostinata e cieca ricerca di moderazione (e quanto costa in umanità l’olimpica sicurezza e tranquillità), la mentalità – diremmo noi – piccolo borghese dell’eroe protagonista in cerca, in fondo, solo d’una buona sistemazione: Medea non capisce, Medea non ci sta, Medea reagisce nel peggiore dei modi, con una ritorsione spropositata, al limite della comprensione umana.

Certo, mi piace pensare che abbia ragione Robert Graves, suggestivamente affermando la storica(?) verità d’una Medea commissionata (quindici talenti d’argento il prezzo, che tanto ricordano l’esborso d’altro e più famoso tradimento) al Maestro Euripide dalla città di Corinto, per far ricadere la colpa dell’omicidio dei figli di Giasone e dei misfatti di Re Creonte sulla strega straniera, e mai macchina mediatica fu così efficace, mai menzogna detta così bene, tanto che già ai tempi di Seneca – primo di tanti a rimeditar sulla tragedia – il nome era diventato comune sostantivo ad indicar la madre che uccide i figli, distogliendo così – arma perfetta di distrazione di massa – l’attenzione dalla verità, oscena miscela invece di razzismo e sessismo violento, ch’avrebbe, in mancanza d’Euripide, diversamente colorato l’alba della civiltà greca: tuttavia, proprio perché mette in luce, per chi le sa vedere e leggere, le perenni contraddizioni del potere, Medea acquista l’eternità, ch’è sempreverde contemporaneità: la felice messa in scena di Tiezzi ne è esempio lampante.

Ovviamente anche tutto il notevole cast è al servizio di questa idea registica, Giasone è un elegante signore in abito nero inappuntabile, segno del suo status di conquistatore del Vello d’oro e prossimo Signore di Corinto, sposare la figlia del Re è solo un mezzo per avere più potere, fosse per lui si terrebbe tranquillamente la vecchia e la nuova moglie, così come dice di voler insieme i vecchi e i nuovi figli: Alessandro Averone riesce a dare credibilità a questo personaggio così comune, in fondo, mutatis mutandis, pure al giorni nostri, si distingue dai tanti che incontriamo quotidianamente forse per una maggiore sincerità, o sfacciataggine, nell’esposizione dei suoi propositi, sa trovare tuttavia accenti molto autentici nel finale, in cui prova sano dolore per la morte dei figli.

Creonte condivide con Giasone il modo di vestire, l’abito nero d’ordinanza dev’essere indice di un ben preciso posto nella gerarchia di potere, Roberto Latini ne dà una caratterizzazione acuta, facendo parlare il personaggio mediante pause studiate e frasi fatte, come certi politici cui ormai siamo assuefatti. Diversa la caratterizzazione di Luigi Tabita per Egeo, che invece si presenta, al contrario dei precedenti, vestito di bianco e con panama in testa, perfetto viveur un po’ fatuo, disposto, sì, certo, ad ospitar Medea nel suo esilio dorato prossimo venturo, purché naturalmente senza figli, evidentemente la rappresentazione dei maschi da parte di Euripide si esaurisce semplicemente, inequivocabilmente, squallidamente, in distinte ma in qualche modo omogenee modalità dell’ordinario machista esercizio del potere.

Diverso appare l’universo femmineo, dalla Nutrice di Debora Zuin, dal forte accento slavo, come le molte badanti da tempo presenti presso di noi, alla Prima Corifea Francesca Ciocchetti, che diventa una sorta di confidente di Medea, al Messaggero, per l’occasione interpretato da un’attrice, Sandra Toffalatti, con partecipazione e forza molto applaudite: tutte le donne sono, con molta evidenza, alleate di Medea, significativamente la sua rivale non viene mai mostrata, in qualche modo tutti i personaggi femminili sono, se pur per diverse strade, parti della stessa Medea, ne condividono condizione e sentimenti, vivono le stesse ansie, piangono le stesse lacrime.

Laura Marinoni è questa Medea, icona, in qualche modo, dell’intero universo femminile, pur attraverso un’esperienza che, certo, non solo non è comune – per fortuna – ma, almeno in teoria, non è nemmeno condivisibile: pure, ho avvertito ieri sera, e spesso l’ho notato nelle rappresentazione di questa tragedia, una diffusa simpatia da parte del pubblico, quella che lo stesso Fusillo chiama empatia negativa, simpatia per il personaggio di cui, pure, si è pronti a condannare comportamenti e violenza. L’attrice milanese riesce a rendere un personaggio complesso come questo con incredibile naturalezza, staccandosi dalla fredda icona della tragedia classica, perfino nello straniato finale, in cui la figlia del Sole appare in tutto il suo splendore e in tutta la sua siderale distanza, fisica, psicologica, sentimentale da noi mortali che abitiamo questo sito e questo secolo.

Ma c’è pure un altro finale, forse più intimo e vero, che vale la pena sottolineare, che Tiezzi propone con forza, prima dell’affannosa e inutile pulizia delle stigmate del decoro del Palazzo con stracci insanguinati da parte del Coro delle donne di Corinto, in tuta azzurra da donne delle pulizie: l’evocazione dell’uccisione dei bambini, in cui la luce del tramonto affoca la scena colorandola di scarlatto che evoca sì, la luce morente del sole ma pure sangue irrimediabilmente e ingiustamente versato.

Canta il Coro, in questo caso, in tedesco, uno dei Kindertotenlieder che Mahler scrisse musicando i versi di Friedrich Rückert, riuscendo a stento a coprire il pianto straziante di bambini in sottofondo: scena dall’enorme forza emotiva, che riesce, alla fine, a restituisci, intatto, il senso profondo dell’intera tragedia che, ripetuto tante volte nei secoli, ancora oggi attraversa le nostre strade, ci interroga e ci interpella. Non ci dà tregua, quel canto pure così sommesso e dolce, la musica si alza e si abbassa di tono come una ninnananna tradita e obliqua, un patto disatteso, ogni bambino morto che la storia, la nostra storia ha ucciso, con la guerra, l’incuria o la semplice banalità delle cose comuni, incurante delle infinite possibilità che la vita gli avrebbe offerto, ritorna, in quel canto, vivo e presente, ci accompagna, ci segue, popola le nostre notti inquiete, profezia d’incerto futuro.

La Medea dell’ambigua ninnananna tradita
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

La Medea dell’ambigua ninnananna tradita

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×