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Nozze di sangue, quasi un monologo bicefalo

Nozze di Sangue, quasi un monologo bicefalo
Fermata Spettacolo

Un vecchio portone di legno, il lunotto in alto in ferro battuto, un’icona, a ben vedere, di tutto il mondo mediterraneo, chiude la scena in fondo. Di fronte, un cerchio di sedie Nella notte, antiche storie di amori e sangue, giovani vite stravolte, le rose e le zagare, più avanti ancora le crete aride che si disfano in cenere, cenere alla cenere, le radici che si fanno terra e paese, stagioni che inseguono stagioni. Un cerchio di sedie nella notte, il racconto di una memoria, nasce così il teatro, fatto di ombre in cammino, inconsistente tela che si tesse e si disfa, narrazione di un’idiota, che porta in sé strepito e furore e nessun significato se non se stesso, e la luna è ormai nel pozzo fondo dove l’acqua è cobalto e lapislazzulo, la notte è ancora piccola, balla e canta.

Lluís Pasqual rivolta come un calzino quel classico del Novecento che è Bodas de Sangre, capolavoro del teatro di Federico García Lorca, cercando di restituirlo alla sua ispirazione sorgiva sottraendolo alla polvere annosa che si è via via accumulata sopra formando, come spesso succede, una coltre come di neve già indurita. Concepisce allora, il talentuoso regista, tutta la tragedia come una lunga analessi, un racconto nella notte attorno al fuoco, una rievocazione di cose già avvenute, dolore rinnovato, memoriale della passione, partendo dal momento magico in cui il teatro chiude attori e spettatori nel cerchio ideale provvisoriamente inviolabile delle proprie incrollabili credenze, prima che si disfi la notte, trascolorando, improvviso, nel giorno, la parola diventi canto, il canto musica, la musica danza, comincia il rito, la liturgia, la rappresentazione  – il canto del trago – dell’antica tragedia.

Il secondo sguardo sul mito della maternità, dopo la madre vindice di Clitennestra, qui al Teatro Grande di Pompei, per il Pompeii Theatrum Mundi, implica assoluta, cieca, inamovibile fedeltà alla terra, alla terra posta lì, non a caso, davanti ai nostri occhi, terra Madre che si identifica con gli antichi vincoli della famiglia e del sangue, Madre forte e costante, paziente di fronte alle avversità, divorante tuttavia, simbiotica, carnefice e vittima al tempo stesso del fondamentalismo incapace di staccarsi da quella terra che è sì, fonte di vita, di prosperità, di fecondità, ma che può diventare altresì schiavitù e morte. Bodas de Sangre nacque come una luce nella mente dell’allora trentenne Federico García Lorca: un fatto di sangue letto sul giornale, una curiosità che diventa ossessione e furore poetico, con vere lagrime scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano, un po’ come Ruggero Leoncavallo con Pagliacci, prima di lui, Arthur Miller e Uno sguardo dal ponte, Bernard-Marie Koltes e Roberto Zucco dopo di lui, irruzione della vita, della realtà, nell’immaginario dell’artista, un fatto di sangue, una violenza, una forzatura, in fondo, della storia, che diventa occasione di rimeditazione e di ricerca di ulteriori significati.

Nel caso nostro ciò che colpì il giovane García Lorca avvenne in Andalusia, riguardava una ragazza, Francisca Cañadas, che la notte del 22 giugno 1928 scappò con il cugino Francisco Montes, l’amore della sua vita, fuggendo dalle nozze appena celebrate con il fidanzato Casimiro, immolata dalla famiglia sull’altare della dote e della “roba”. La fuga di Francisca diventa per il giovane poeta andaluso un atto di profonda ribellione alle convenzioni sociali e ai suoi potenti condizionamenti, emerge l’urgenza di descriverne la tragedia in un crescendo in piena riversando dentro la sua composizione tutto l’epos e il mito andaluso, in forma teatrale, perché è questo anche il tempo de La Barraca, dell’avvicinamento al popolare, dei problemi psicologici degli uomini, soprattutto delle donne, e della loro frustrazione.

La composizione di Bodas de Sangre nasce in contemporanea al grande sogno di portare il teatro classico spagnolo nelle zone più sperdute della Spagna, nei villaggi chiusi al mondo e alla storia, un programma politico, una scommessa sociale, nella certezza che portare Miguel Cervantes, Calderón de la Barca, Lope de Vega e Tirso de Molina in terre interne e dimenticate, a un popolo ignorato, alla massa contadina, alle persone più umili, più ignoranti e incolte, che raramente hanno mai assistito a uno spettacolo teatrale, costituisca una autentica rivoluzione, capace di cambiarlo, quel mondo e quella storia.

Non a caso, allora, Bodas de Sangre risulterà intrisa di temi come l’amore, la passione, la vendetta e la morte, anzi carne e sangue e ossa sono la tragedia stessa, ne costituiscono la ragione e il fine, perché il teatro è poesia che nasce dal libro e si fa umana. E quando ha finito, parla e grida, piange e si dispera. Il teatro ha bisogno che i personaggi che compaiono sulla scena indossino un abito da poesia e allo stesso tempo vedano le loro ossa, il loro sangue. Il tal modo l’evento concreto, la cronaca di un delitto di paese, viene trasfigurato, diventa paradigma di un mondo atavico e immutabile, narra la storia di una sposa che, nonostante il suo matrimonio imminente, è ancora innamorata di un altro uomo di un sentimento irrefrenabile che sfida le regole della società e l’autorità delle famiglie.

Questo amore proibito e passionale la porta a prendere una decisione che avrà conseguenze tragiche per tutti i personaggi coinvolti, diventando mito, idealizzazione di istanze e sentimenti che, nell’attimo in cui prendono carne e sangue dei personaggi, si pietrificano contemporaneamente, diventano archetipi, perdono ogni riferimento alla vita e all’opera degli uomini: non è un caso se tutti i personaggi non hanno un nome proprio – tranne uno, Leonardo – e sono identificati con il loro ruolo, sono maschere, forze inamovibili della natura, cristallizzati in eterno nella loro funzione sociale. Leonardo è il solo che abbia un nome, è in fondo il primo uomo, una sorta di Adamo che, nonostante le sue scarse doti umane e morali, è capace, in piena libertà, di compiere un atto di per sé rivoluzionario, al di là del bene e del male.

La riduzione e la regia di Pasqual sottolineano la forza delle emozioni e dei conflitti presenti nell’opera di Lorca, utilizzando una combinazione di elementi visivi, musicali e coreografici per creare un’atmosfera sicuramente suggestiva e coinvolgente, cercando di mettere al centro della sua riflessione il duende, elemento chiave per trasmettere l’atmosfera tragica e la potenza emotiva dell’opera, che ha enorme importanza nella genesi di Bodras de Sangre, spirito, forza misteriosa che risiede nell’arte e che ne incarna l’autenticità e l’intensità emotiva. Lorca riteneva che il duende fosse essenziale per la creazione artistica e credeva che fosse presente in particolare nelle espressioni artistiche autentiche e profonde, come il flamenco e la poesia, sorta di forza oscura e primitiva che può scuotere profondamente artisti e pubblico, che non può essere insegnato o appreso razionalmente, ma deve essere colto intuitivamente e profondamente sentito.

E tuttavia avverto un che di irrisolto e di emotivamente incongruo, nell’allestimento di stasera, un quasi impercettibile noice che mi impedisce un’adesione completa e totale, e questo nonostante la scena essenziale ma potentemente evocativa disegnata da Marta Crisolini Malatesta, i costumi come sempre ricchi ed elegantissimi dovuti alla matita di Franca Squarciapino, le coreografie di Nuria Castejon, le musiche eseguite da Riccardo Garcia Rubì, Carmine Nobile e Gabriele Gagliarini: mi sorprendo spesso a pensare, nel corso della rappresentazione, al mix di parole, canto e danza come non sempre adeguato a cogliere tutte le infinite sfumature possibili di questa tragedia, che Lorca concepì come una sorta di Gesamtkunstwerk, perfetta anche nella sua forma esteriore, spesso paragonata, pure nella scansione ritmica di scene ed atti, alla matematica esattezza della partitura di una sinfonia.

Il colore dell’Andalusia, così necessario a rendere vivida e palpabile la tragedia irrisolta di una condizione esistenziale, l’ho visto ieri sera esaurirsi spesso in una esteriore esibizione di spirito folklorico che, poi, è il miglior modo per rendere (in)giustizia alla scrittura di Lorca, al suo metodico, ossessivo insistere sulle metafore e i contenuti simbolici, che sublima sul serio il crudo realismo e toglie la sua opera da ogni possibile ipotesi di mero costumbrismo. Vive di imperfetti e spesso sdrucciolevoli equilibri, Bodas de Sangre, è creatura fragile che un nonnulla può ammaccare, ferire, rompere con risultati disastrosi. Così, anche per il cast degli attori vale lo stesso ragionamento: Giacinto Palmarini riesce ad essere un credibile Leonardo, personaggio come già detto complicato ma vero motore della tragedia e, al tempo stesso, predestinato capro espiatorio della voglia di sangue che corre inesausta dalla prima all’ultima scena; così anche Roberta Amato e Giovanni Arezzo, rispettivamente Sposa di Leonardo e Sposo sono credibili nel loro obbedire, in fondo, ad un copione già scritto che li vuole vittime, docili e conformiste pedine mosse dal destino che è il vero artefice del tutto.

Naturalmente, poi, c’è Lina Sastri. L’attrice napoletana ci mette tutta la sua anima in questa sorta di sacra rappresentazione, tutto il suo indubbio talento, tutta la sua forza irresistibile, tutta se stessa, insomma. Sospettavo già qualcosa quando, scorrendo la locandina dello spettacolo, non ho trovato l’interprete della Sposa, ero quindi in qualche modo preparato a vederla interpretare, oltre il già importante ruolo della Madre, anche questo personaggio non certo secondario. Che dire, occorre intendersi, su questo punto, due ruoli di primo piano possono anche essere interpretati dallo stesso attore, purché la cosa abbia un senso, purché sia, in altre parole, giustificata da una drammaturgia che aiuti chi, ignaro, siede in platea, a capire qualcosa in più rispetto a quello che comprenderebbe normalmente, a entrare anche emotivamente in un mondo alieno, sia cioè, in definitiva, teatralmente non solo giustificabile ma addirittura necessario.

E, a dirla tutta, in questo preciso caso, questa possibilità c’era, per nulla remota, per nulla pretestuosa: se la Madre è anche Sposa inevitabilmente si può aprire una strada obliqua rispetto alla “retta” interpretazione, si agita un fantasma edipico che forse non è del tutto fuori luogo in questo spazio e in questa storia, potrebbe cercare e trovare, questa ipotesi, una sua cittadinanza; oppure, e non è certo novità pensarlo, Madre e Sposa, soprattutto nel tragico finale di fatto si identificano, cosa che del resto avviene per diversi personaggi della tragedia, accomunati da non troppo sotterranee correnti, si comprende facilmente come esse altro non siano che facce della stessa medaglia, chiamate a recitare lo stesso identico copione, immutabilmente fisso nei secoli, vittime e carnefici al tempo stesso.

Ma qualunque sia la motivazione, essa deve in qualche modo risultare chiara ed evidente, non basta che la Madre sciolga i capelli per diventare una Sposa credibile, occorre mandare al pubblico qualche altro segnale, qualche gesto che spieghi, che denunci, creare una tensione che sottenda a quel pensiero, che lo sostenga, altrimenti, detto sommessamente, si trasforma il tutto in una sorta di monologo bicefalo, tenendo conto pure del fatto che il particolare taglio scelto da Pasqual per raccontare questa storia prevede pure un inedito prologo, sempre recitato dalla stessa attrice – e sempre con la medesima enfatica intonazione, con un’unica eccezione – per cui ci si inventa per lei di fatto un terzo ruolo, una specie di voce narrante, e il risultato è che alla fine non esiste scena in cui non sia presente, correndo il rischio che si trasformi in Mattatrice, o che venga da gran parte del pubblico percepita come tale – in teatro è la stessa cosa – accentrando tutta l’attenzione e sbilanciando paurosamente una trama così fragile come quella scritta con lacrime e sangue dal poeta andaluso.

Ma poi si arriva al Terzo Atto – a quello che era il Terzo Atto – della fuga e del sangue, nella bellezza della notte, e qui avviene, finalmente, l’epifania aspettata con ansia fin dall’inizio: si ripete, ancora una volta, il miracolo del teatro, per cui una delle pagine di più alta poesia del Secolo breve viene resa in modo esemplare sulla scena, Giacinto Palmarini smette, correttamente, i panni del macho e Lina Sastri i toni gonfi e infiammati, gli amanti in fuga vivono la perfezione cristallina del loro amore inserito in una (sur)realtà morbida e passionale, grazie anche agli apporti della Luna di Elvio La Pira, morbidamente impressionistica e quasi crepuscolare, e della Mendicante di Floriana Patti, la Morte che sa attendere, che vigila, che accompagna, e tutto è allora bisogno e attesa, sete e fame di un qualsivoglia ordine nel caos che è gioco infinito di specchi, di prismi, di riflessi, risonanze, rifrazioni: la luce lunare, la ricerca della luce e della morte si fa desiderio, fame e brama, si ridesta nell’oro e nel bronzo, i colori dell’antico Omero, si frammenta e si frantuma in aspre gocce d’echi infiniti e, in parte, sovrapposti, si placa, temporaneamente, nell’azzurro e nel bruno dell’acqua e della terra, elementi primigeni resi nella loro essenziale natura, senza sbavature, reali e sbalzati come il liquido e il metallo di cui son costituiti. L’universo intero si specchia, allora, per un attimo lungo una vita, in questo trascurabile brandello di mondo che noi, temporaneamente, occupiamo.

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