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Clitennestra, inquieti sguardi che un fulgore ravviva

Clitennestra, inquieti sguardi che un fulgore ravviva
Fermata Spettacolo

Incespicando più volte – cercando sommessamente di evitare l’imprecazione – su per le antiche e sconnesse scale che ci portano all’improvviso aprirsi della familiare cavea dell’antico Teatro Grande di Pompei, in fila indiana tra la gran folla che si è andata formando, troviamo finalmente il nostro posto, mentre già la scena è occupata da attori e figuranti che popolano questa nuova Clitennestra, prima tappa dell’avventurosa edizione di quest’anno del Pompeii Theatrum Mundi, sesta del festival estivo del Teatro Nazionale di Napoli. La riscrittura e la reinterpretazione del mito sono, da sempre, alla base di queste incursioni nel cosiddetto mondo della classicità, cercando di individuare coordinate che ci possano guidare pure nelle geografie del mondo nostro, non meno perigliose di quelle antiche, abitate da mostri che nulla hanno da invidiare ai Ciclopi e Lestrigoni delle storie antiche, e che pure colorano d’orrido e nausea la storia nostra: se poi il tema di almeno tre degli spettacoli di quest’anno insiste sulla declinazione del maschile e del femminile e una particolarissima interpretazione della maternità, so di certo che le vicende e le parole e le emozioni (ri)vissute riusciranno ad incrociare, ancora una volta, le strade tortuose della nostra quotidianità.

E ci troviamo così a essere sbalzati da subito in medias res, la scena disegnata da Gianni Carluccio descrive l’antico palazzo del potere dell’antica Micene, certo, così potrebbe sembrare, tra grandi tavoli imbanditi, letti, antiche fontane di pietra, oppure no, chissà, alcuni particolari mi lasciano da subito interdetto, lapidi cimiteriali a far da cornice a un gran tumulo al centro, una variopinta folla che occhieggia dal fondo, in abiti di tutte le epoche, il mondo dei più, il bel pavimento di marmo mostra una vistosa crepa al centro, mancano alcune formelle che ne interrompono volutamente la classica simmetria, che poi è quella tra cielo e terra, prima che tra gli svariati accadimenti del mondo dei viventi. Perché Roberto Andò, che di questa riduzione di House of Names, gran romanzo di Colm Tóibín è autore e regista, sceglie di rappresentarne una cospicua parte, quella riguardante Clitennestra, per l’appunto, come articolata affabulazione di cose già avvenute, doloroso e a tratti delirante flashback, che rivela a poco a poco i caratteri di gigantesca analessi, piuttosto che di fabula, in cui solo alla fine si chiarisce in modo definitivo qual sia il tempo presente del racconto, situato, nell’epilogo, in una sfuggente, pallida dimensione in cui persistenti appaiono tracce, tracce di persone, di presenze, di suoni, camminando fra le ombre.

Perché questa, lo sai, è una storia di sangue e di legami familiari, più forti di qualunque amore e di qualunque odio, la rappresentazione del principale archetipo di famiglia disfunzionale, che tanto impressionò il mondo antico, ma che anche nel nostro moderno e contemporaneo non smette di appassionare poeti e artisti: la ragazza che corre tutt’intorno alla scena, attraversandola a grandi falcate affannose, non può che essere lei, l’Elettra che ti è familiare soprattutto per i versi di von Hofmannsthal, Elettra figlia di Agamennone e Clitennestra, wo sie um den Vater heult, daß alle Wände schallen, che ulula per il padre, sì che ogni muro echeggia. E così l’altra ragazza che vedi da subito, al centro della scena, seduta su un tavolo pur con il volto coperto da un telo non puoi non riconoscerla – in questo che sempre più somiglia a un non ben dissimulato viaggio agli inferi, simile a moderni scrutatori dell’aldilà – che come Ifigenia, l’altra figlia, la maggiore di quella stessa famiglia, vittima sacrificale perché i venti diventino propizi alla flotta greca, laggiù in Aulis, alle fonti stesse del mito fondatore della nostra civiltà.

Due ragazze, due figlie, l’una contraltare dell’altra, contrappeso studiato e infernale, fino al dubitar d’esser null’altro ch’espressioni della stessa, scissa, persona, con le sue pulsioni, i suoi repressi e rimossi impulsi, identificazioni fallaci, proiezioni e introiezioni d’ossessivi fantasmi, prima d’ogni altro quello del padre: un modo come un altro, certamente sublime, di regolare i conti col passato e uccidere – metaforicamente o meno – il padre, come ogni buon figlio deve fare, come ogni figlia, come Elettra, deve fare con la propria madre.

Poco lontano da qui, in questa stessa città, nella cosiddetta Casa del Poeta Tragico, fu trovato intatto un affresco, oggi al Museo Archeologico di Napoli, che rappresenta proprio il sacrificio di Ifigenia, dipinto famoso che in tanti conoscono, in cui questa storia viene raffigurata nel suo momento più tragico: accanto alla ragazza, già in mano ai suoi assassini, il pittore mostra un uomo avvolto in un mantello, con la faccia velata allo stesso modo della Ifigenia che vediamo stasera al centro della scena, non è certo un caso: dice Plinio che Agamennone, il padre, è così rappresentato perché il dolore era in questo caso irrappresentabile, superava le capacità tecniche del pur bravo pittore. In alto, poi, nel cielo azzurro, Artemide attende l’arrivo di una cerva, perché secondo una diffusa tradizione, all’ultimo momento, e di nascosto dagli uomini, gli dei risparmiarono la vita di Ifigenia e al suo posto fu sacrificata, per l’appunto, una cerva.

E tuttavia il cielo della nostra Clitennestra mai si popola di dei, Tóibín li rimuove completamente, nessuno di loro è menzionato per nome in tutto il romanzo, il cielo è cristallino e vuoto, gli dei sono distanti, alle prese con altre cose. Si preoccupano dei desideri e delle buffonate umane come io mi preoccupo delle foglie di un albero. Non posso fare niente per aiutarle o per impedire che appassiscano. I loro desideri non sono affar mio. In questo sostanziale ateismo, il sangue, l’ossessione della morte e della rivalsa prevale su tutto, permea i corpi affannati di Clitennestra e del marito, intride le menti ormai infiammate, ne segna per sempre i sensi, ho dimestichezza con l’odore della morte. L’odore nauseabondo e zuccherino che si diffondeva nel vento raggiungendo le stanze di questo palazzo. Adesso per me è facile essere serena e appagata… Guardo le ombre allungarsi… l’odore di morte permane… è qui com’è qui l’aria; torna, come torna la luce al mattino. È compagno fedele; ha ridato vita ai miei occhi, occhi che l’attesa aveva intorpidito, ma non sono torpidi adesso, occhi che adesso un fulgore ravviva.

Tutto si traduce e trasmuta, alla fine, in una storia devastosamente umana, la scena del sacrificio, privata ormai d’ogni mitica grazia, è selvaggia, sordida, credibile nella sua naturale inumanità. Potevo sentire l’odore del sangue degli animali mentre cominciava a inacidire e c’erano avvoltoi nel cielo quindi era tutta morte… Ifigenia gridò… il grido era quello di una ragazza. Ancora più autentica sembra la tortura inflitta a Clitennestra durante il sacrificio, sequestrata e sepolta viva per tre giorni: morte apparente e temporanea, perché il dolore destabilizza, insinua dubbi atroci, meglio legarlo, imbavagliarlo, seppellirlo in una buca e metterci una pietra sopra.

E suona allora vera, la voce di Clitennestra – traumatizzata al momento della morte della figlia, destinata a raccontare e ri-raccontare la sua storia senza trarne alcun sollievo – drammaticamente eversiva, all’origine ultima del suo ripiegamento emotivo, del nevrotico ritrarsi dell’anima, dell’anaffettivo, definitivo distacco da ogni immaginabile spiritualità: con me, oltre alla puzza dei miei escrementi, una puzza che credevo non mi avrebbe mai abbandonato, c’era un pensiero, nato dal nulla ma poi cresciuto… Se gli dei non vegliavano su di noi, come facevamo a sapere come comportarci? Chi altri ci avrebbe detto come comportarci? Allora ho capito che non ce l’avrebbe detto nessuno, proprio nessuno, nessuno mi avrebbe detto che comportamento assumere o non assumere in futuro. In futuro sarei stata io a decidere come comportarmi, non gli dei.

In Tóibín, allora, come nella tragedia classica, non ci sono buoni e cattivi, persiste, è vero, implacata, la struggente nostalgia per il tempo in cui gli dei venivano a svegliarci la mattina, ci pettinavano i capelli, ci riempivano la bocca di parole dolci, il tempo della preghiera cui si sostituisce la stagione asfittica dei bisbigli del quotidiano, l’elogio malinconico ad un’età dell’oro che adorava il Bello e il Buono, epoca inevitabilmente finita quando Platone afferma quanto differiscano nel loro essere la natura del necessario e quella del bene, immensa distanza che fa diventare improvvisamente gli uomini increduli allorché vedono che le cose divengono per necessità e non per i ragionamenti di una qualche volontà di compiere il bene.

È per necessità che Agamennone sacrifica la sua prima figlia, è per necessità che Clitennestra viene gettata in una tomba per poi risorgere dopo tre giorni, è per necessità che Clitennestra accoglierà Egisto nel proprio letto come Agamennone Cassandra, è per necessità che Agamennone verrà sgozzato nella vasca mischiando il suo sangue con l’acqua, è per necessità che tornerà, un giorno, il figlio Oreste e chiuderà il cerchio della tragedia. Con un linguaggio viscerale e accessibile, Tóibín ci avvicina così il più possibile al sangue guasto della casa di Atreo, i cui membri, in assenza degli dei, hanno la responsabilità delle loro azioni, senza ricorrere ad alcuna artificiosa incursione nella modernità, la vicenda – e questo è esattamente uno dei motivi principali della sua eccezionalità – resta saldamente ancorata ad una atavica, inesorabile, olimpica classicità.

Agamennone di Ivan Alovisio assume spesso i tratti di una proterva e fisica regalità che, di sicuro, è il tratto dominante del personaggio, dnax andrón, sovrano degli uomini, unico tramite tra la terra e il cielo e pertanto – com’è ovvio – primo a soccombere in questa generale negazione del cielo. Certo, il necessario taglio di Roberto Andò, concentrando su Clitennestra il focus della tragedia, molto toglie al romanzo tutto e, di conseguenza, anche alla sofferta “educazione” del giovane Oreste, dall’infanzia fino alla giovinezza, periodo completamente ignorato dai classici e che invece costituisce il vero grande contributo fantastico di Tóibín: ritengo ci sia spazio e materia a sufficienza, in House of Names, per trarne almeno altre due piecès, una dedicata ad Elettra e l’altra ad Oreste, magari se Andò ne avesse voglia potremmo vederle nei prossimi anni.

In particolare, poi, di conseguenza, il taglio totale del personaggio di Oreste porta via con sé anche una delle scene che avremmo potuto vedere stasera, secondo me, molto importante nella economia della comprensione “contemporanea” della famiglia disfunzionale, quando, appresa ormai da altri la verità sulle sorti di Ifigenia, madre e figlia attendono il colloquio chiarificatore con Agamennone. E quando lui arriva si mette a giocare il bambino, fingendo di duellare con lui, ed è un gioco che dura a lungo, perché tutti capiscono che quello è l’ultimo momento d’apparente quiete d’una famiglia serena, l’ultimo episodio felice che avrei conosciuto in vita mia… una messinscena, uno spettacolo… per un attimo mi ha colpito l’idea che gli dei con noi facevano la stessa cosa: ci distraevano con finti conflitti, con l’urlo della vita, ci distraevano con alcune immagini di armonia, bellezza, amore e intanto ci guardavano con distacco, e quando finiva, si stringevano le spalle.

Ifigenia trova in Arianna Becheroni l’interprete ideale per metterne in risalto la dolce ala della giovinezza, il mito del morire giovani che tanto caro è, da sempre, all’umanità tutta, prima di infrangersi nell’inaudita violenza della parola di Tóibín, che solo in parte trova riscontro nella traduzione scenica di Andò, credo semplicemente perché la parola scritta è sempre più sinistramente evocativa rispetto ad una qualsiasi drammaturgia. Elettra, interpretata da Anita Serafini, è creatura meno teatrale che nelle tragedie greche, in cui è spesso figura dell’adolescente virtuosa e motivata, di più somiglia sul serio alla nevrotica figlia di Hofmannsthal e Strauss e del Secolo breve più inquieto: rispetto agli dei e furie che agitano i suoi deliri, Tóibín cerca motivi più umani, la malcelata invidia della bellezza di Ifigenia – come di quella di Crisotemi in Strauss – le scarse attenzioni della madre, la sua pura volatilità, permanentemente nervosa, alternativamente timida e violenta, in cui fin troppo facilmente si intravede lo stigma della vittima della tortura e della guerra.

Certo, tuttavia, protagonista assoluta della tragedia rimane Clitennestra, una splendida Isabella Ragonese che riesce a padroneggiare con inaudita naturalezza un testo così profondamente intriso di troppo dolore senza assolutamente mai indulgere nella posa studiata, nell’artificio del mestiere o della maniera: una prova da vera Maestra, tanto più esaltante se si considera che la sua voce narrante è presente dal principio alla fine, perfetta trasposizione della pagina del romanzo, e questo, che in fondo è un limite – un difetto, se si vuole, della drammaturgia, insieme alla poca fluidità nei passaggi tra parola e coreografia (curata da Luna Cenere) e tra parola e musica (eccezionalmente bella, a cura di Pasquale Scialò) – diventa, invece un vero e proprio punto di forza grazie alla sua convincente e travolgente interpretazione.

Così, alla fine, quando la realtà tende pericolosamente a debordare nel delirio di Elettra, quando ormai i nomi, i loro nomi, non vengono più in mente, si muovono, allora, sulla scena perennemente in ombra ma come ravvivata da una tenue luce, persone straniate e tuttavia attente, entro disabitate e fosche rovine, mostrate come fossero ritratti, veristi ed impietosi, di persone di famiglia, ancelle imperturbabili affaccendate, austere altissime colonne, ricche modanature appartenute ormai ad un tempo che fu, certo, affascinante e fecondo, spazi che appaiono, nel tempo presente, deserti, certo, e rovinati, ma non abbandonati, nel loro disadorno splendore s’avverte, sommesso e come in attesa, un fremito d’inquieto e oscuro calore, che consola, per quanto possibile, dall’assenza di riverbero della luce, che fa cristallina l’aria, che muove, a volte, ma solo a volte, come in un giorno di festa, per la nostra privata allegria, un’immaginaria tenda di merletto antico. Sarò lasciata qui per le ore, i giorni o gli anni che mi sono riservati. Non di più. La perplessità e lo stupore sostituiscono la verità e la conoscenza, profezie d’un ignoto futuro travestite da evocazioni del passato che l’applauso lungo, insistito, convinto, si sforza, disperatamente, di esorcizzare e sublimare.

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