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Anna Bolena: sussurri e grida, idoli e presagi

Anna Bolena: sussurri e grida, idoli e presagi
Fermata Spettacolo

Strano destino, quello di Anna Bolena, l’opera di Gaetano Donizetti, intendo, che da stasera si mette in scena qui a Napoli, al Teatro San Carlo, che deve la sua nascita alla clamorosa invenzione del duca Pompeo Litta per il suo Teatro Carcano, in quel di Milano: il teatro di Corso di Porta Romana era a quel tempo in piena ascesa presso la Milano che contava, per la Stagione del Carnevale di quel 1830 occorreva un’opera nuova che potesse in qualche modo contrastare la – già allora – più famosa stagione della Scala. Ecco dunque l’idea di una sfida, offrire ai due giovani compositori più in vista del momento una scrittura: due opere diverse ma con lo stesso versificatore – l’indiscussa star dei librettisti del momento, Felice Romani – e gli stessi interpreti, veri divi dell’epoca, il cui successo era senz’altro paragonabile al quello delle rockstar del nostro quotidiano, Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini.

A quell’epoca Vincenzo Bellini era reduce dal gran successo del Pirata e della Straniera, presentate entrambe alla Scala, mentre Gaetano Donizetti era già impresario – oggi diremmo direttore artistico e manager insieme, come oggi Lissner, nessuno si adonti, per carità – al Teatro San Carlo, le resistenze di entrambi furono vinte dalla prospettiva di poter presentare un’opera nuova con tali eccelsi collaboratori e così, mentre Donizetti in trenta giorni scrisse la sua Anna Bolena, Bellini, per parte sua, compose la Sonnambula in sessanta, due autentici capolavori, dunque, portati a termine in tempi brevissimi. L’opera di Donizetti fu rappresentata il 28 dicembre di quel 1830, l’esito fu incoraggiante, anche se non mancarono critiche, che l’Autore raccolse, visto che passò a revisione l’intera opera, curando meglio la sua coerenza interna, riducendo al minimo gli inevitabili “salti” tra le parti, per così dire, d’azione, essenzialmente recitativi, e quelle liriche, i pezzi chiusi croce e delizia dell’italico melodramma.

E in effetti il risultato fu splendido, visto che quest’opera gli aprì le porte dei principali teatri italiani e stranieri, facendo diventare, finalmente, il compositore bergamasco, una “melostar” al pari di Rossini e Bellini e, in certo senso, rendendo possibile i successivi capolavori, L’elisir d’amore, prima, Lucia di Lammermoor, poi. Soprattutto per quanto riguarda quest’ultima, Anna Bolena ne è certamente, per tanti versi, anticipatrice, sia sotto l’aspetto musicale sia sotto il profilo dell’introspezione psicologica dei personaggi, della protagonista in particolare. Il successo dell’Anna Bolena fu grande e per almeno quarant’anni entrò nel repertorio dei teatri di tutto il mondo, poi qualcosa si ruppe, chissà, forse furono i gusti a cambiare, sta di fatto che l’ultima rappresentazione nel Secolo romantico fu alla Scala nel 1877. Poi, più nulla, come talvolta succede, l’opera cadde nel dimenticatoio.

O, meglio, non fu più rappresentata ma, per uno di quei singolari fenomeni che a volte avvengono inspiegabilmente, la sua memoria continuò, la sua musica non si disperse nel nulla, se Antonio Fogazzaro, nel suo Piccolo mondo antico, scritto in fin de siècle ma ambientato negli anni Cinquanta di quello stesso Secolo, fa cantare alla sua Luisa un “canto dell’anima, che prima scende e si abbandona poco a poco, per più dolcezza, all’amore, e poi, abbracciata con esso, risale in uno slancio di desiderio verso qualche alto lume lontano che tuttavia manca alla sua felicità piena”. Così Al dolce guidami, la struggente aria finale di Anna, condannata a morte mentre il re e la nuova regina vanno a nozze, in tutta evidenza, non era solo quanto di più adatto a descrivere quel particolare momento vissuto dalla protagonista, veniva anche a render testimonianza di quanto fosse popolare all’epoca di ambientazione del romanzo e quanto di questo fosse comunque rimasta memoria.

Dovettero, tuttavia, passare ben settant’anni per un repêchage, tra l’altro piuttosto fortuito, fu il Gran Teatre del Liceu a rimetterla in scena, nel 1947, ma sol perché cent’anni prima aveva inaugurato quel teatro, lì a Barcellona, mentre perché l’Italia si ricordasse di questo perduto capolavoro bisognò aspettare il 1957. Fu però una ripresa all star, diretta da Gianandrea Gavazzeni, le scene disegnate da Nicola Benois, la regia di Luchino Visconti, protagoniste d’eccezione Maria Callas nel ruolo eponimo e Giulietta Simionato in quello dell’amica-rivale Giovanna Seymour, mentre il re era impersonato da Nicola Rossi-Lemeni e Percy da Gianni Raimondi. Da allora Anna Bolena non è più andata via, anzi in qualche modo, per quanto detto, è uno dei ruoli più significativamente legati a Maria Callas: non per nulla, l’attuale messa in scena qui a Napoli si svolge anche in nome di questa memoria, visto che dichiaratamente è la prima rappresentazione dedicata alle celebrazioni del Centenario Maria Callas, qui in questo teatro, occorre sottolinearlo, che fu già il maggior tempio di provata fede tebaldiana. Ma il tempo passa, porta via uomini, donne, rivalità, convinzioni, rimane la memoria, il ricordo di ciò che fummo.

L’allestimento che il San Carlo mette in scena è una produzione dell’anno scorso del nostro Massimo, del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia e della Dutch National Opera: da quelle parti, nella romantica ma freddolosa Amsterdam, il belcanto non è certo di casa e con Pierre Audi, sovrintendente per un lungo trentennio, fino al 2018, non ha di sicuro avuto possibilità di esprimersi, a parte Rossini, relegando questo stile così terribilmente mediterraneo e italico nel novero delle buone cose di pessimo gusto – ma dubito che a quelle latitudini conoscano Gozzano – irrimediabilmente, per loro, datate e superficiali.

A maggior ragione bisogna dar atto alla “follia” della nuova sovrintendente Sophie de Lint che ha messo in cantiere, partendo dalla passata stagione, nientemeno che l’intera Trilogia Tudor, partendo da Anna Bolena, passando per Maria Stuarda per arrivare a Roberto Devereux, progetto ambizioso e coraggioso: evidentemente la fortuna aiuta gli audaci, perché Anna Bolena ha avuto l’anno scorso uno straordinario successo e sta attraversando l’Europa accolto ovunque con molti applausi. Forse non c’era da dubitarne: le tre opere hanno un filo conduttore comune, costruite come sono tutte su grandi figure femminili, alle prese con il potere e con l’amore, da cui vengono inevitabilmente e rovinosamente travolte, in una spirale che sa di tragedia più che di dramma borghese, ed è questo, per molti versi, il momento giusto per declinare la storia al femminile, o quantomeno per tentare di farlo, lasciando che la loro sofferenza possa trovare, infine, senso e compiutezza.

Anche al San Carlo – chissà come andrà a finire – dopo questa Anna Bolena attendiamo Maria Stuarda per la prossima stagione, tra un esatto anno, a giugno, e non possiamo che sperare di vedere Roberto Devereux nel 2025: questo, guerre politiche e istituzionali permettendo, naturalmente, e ogni riferimento a poteri capricciosi e indifferenti è quanto mai attuale. Costruisce, allora, la regista Jetske Mijnssen con l’aiuto della matita di Ben Baur un palazzo del potere caratterizzato da una disarmata semplicità che produce, invece, e per contrasto, effetti di sbalorditiva sontuosità, sbilanciato tutto verso il proscenio, oscuro nella sua stupefatta essenza che prende vita e luce solo da due enormi e gigantesche porte ai due lati del palcoscenico.

Il fondo rimane inconoscibile e buio, luogo del sussurri della corte e delle taciute grida dei nemici, che talvolta si apre rivelando tutta la sua intima, inafferrabile essenza. Celato dai loro robusti cardini, nascondono, le porte, il segreto della vita che è fatto d’innumeri nascite e d’altrettante morti, varchi che permettono, sì, l’accesso al potere – non certo alla felicità – ma anche la repentina e rovinosa esclusione, l’addio, la morte, le sontuose dorature non bastano a nascondere la fame d’aria che affanna d’ansie e d’inquieti, tormentosi pensieri; ma celano, anche, le porte, come dietro poderosi bastioni, lacrime e sangue, dolore e martirio, linfa di cui si nutre un potere capriccioso ed invidioso, bisbiglii, sommessi ascolti, inverecondi sguardi nella perpetua, ossessiva, maligna notte della ragione.

Muove, invece, in un percorso che intercetta per contrasto il buio della scena, la drammaturgia di Luc Joosten, imperniata sulle vicende d’una bambina in bianco con le sue bambole, fonte di luce come l’Infanta di Las Meninas, forse la figlia Elisabetta – quasi a vivere i prodromi d’un oscuro vaticinio – in una allucinata visione che a me ha ricordato, con una stretta al cuore, le illustrazioni di Gonin che Manzoni scelse per la prima edizione dei Promessi sposi, la vicenda dolorosa e irrimediabile di Geltrude, vittima d’un potere cieco e spietato, ingolfata in abiti più adatti agli adulti, con le sue bambole vestite in quel caso da suore, in questo da regine: idoli e presagi insieme, feticci del culto regale che portano in sé, tuttavia, il seme della futura discordia, presagendo venture abusate famiglie, e proprio una bambola dalle fattezze della regina diventerà, nelle mani di Enrico, il vero accusator del suo fiero tradimento, piuttosto che il suo ritratto.

Buone le idee di partenza, dunque, peccato poi che in tutto questo si smarrisca il senso di un percorso, soprattutto musicale, che, sotto una apparente semplicità, nasconde tuttavia inaudite complessità: perché aspirano, le eroine donizettiane, da Anna su su fino a Lucia ed oltre, al di là del principio di realtà, all’amore senza connotati, che ama contro l’amore stesso, nell’esaltazione folle della speranza – della fede – che qualcosa possa esistere, al di là del buio della notte che ormai si ama perché icona e simbolo del proprio cieco universo. Amori cresciuti in romiti castelli sperando in un futuro impossibile, nutrendosi di sospiri che si vuole attraversino i mari e le distanze e che invece s’infrangono contro la banalità del male, una fittizia storia d’amore, un matrimonio ambizioso, la follia che salva, che preserva, che estingue per sempre.

Pur derivando sicuramente da fonti storiche, il modo in cui Donizetti scrive la storia di Anna Regina è del tutto diverso da come, per esempio, comincerà a fare Verdi di lì a poco, che cercherà per tutta la vita, invece, il manzoniano equilibrio tra la Storia e le storie: poco interessa, al contrario, a Donizetti della Storia, di Enrico e di Giovanna, di Elisabetta e dei regni degli uomini e dei popoli, che rimangono molto sullo sfondo. Di più, interessa l’uomo – la donna – alla prova su questo sfondo storico, interessa carpirne i segreti, i complessi moti dell’animo, le inevitabili contraddizioni, mentre è il potere e il suo abusato esercizio che diventa il vero protagonista di questa raffinata ma un po’ superficiale mise en scène, tutta giocata, in fondo, nel continuo, ricercato scontro e sfida tra contrapposte esigenze, il bianco e il nero, il buio e la luce, l’amore e la forza, l’amicizia e l’ambizione, la vita e la morte.

Del resto, sarebbe bastato immergersi nella preziosa scrittura donizettiana per cercare autentici spunti drammaturgici e registici: proprio a partire da Anna Bolena Donizetti comincia a mettere a punto quel personalissimo stile che caratterizza i suoi capolavori, in cui l’orchestra scrive spesso storie diverse da ciò che il canto annuncia, una sorta di svelamento d’incompiute o inconfessate azioni ed emozioni, indizi taciuti di tormentose contraddizioni, presagio di ciò che troverà, anni dopo, maggiore e più consapevole compiutezza e attuazione. E invece si preferisce ricorrere a un’infinita serie di segni e simboli che pretenderebbero spiegare ciò che è già nella musica e nel dramma e che perciò risultano ridondanti, se non fastidiosi, addirittura, da Percy con le mani legate e una benda sugli occhi, cieco e impotente agli occhi del potere incarnato da Enrico, affettuoso padre che millanta e ostenta gioie paterne come spesso padrini e capomafia, pronto tuttavia ad estirpare con le proprie mani il cuore di un cervo per farne gentile omaggio alla regina, espressione d’autentica macha regalità, a Seymour cui viene offerto, ormai prossima sposa, il velo bianco che l’avviluppa e l’imprigiona come una rete entro cui si dibatte come un animale in gabbia. Schematismi, semplificazioni, superficialità che possono meglio trovar posto in certe serie televisive di gran successo proprio a questo periodo ispirate ma che a teatro lasciano del tutto indifferenti e francamente anche un po’ irritati.

Riccardo Frizza dirige con autorità l’Orchestra del San Carlo, e di certo questa autorevolezza non gli manca, parlando di belcanto e di Donizetti in particolare: Direttore Musicale del festival Donizetti Opera di Bergamo, è, da sempre, impegnato in una raffinata ricerca filologica delle migliori pagine del melodramma italico, dall’altro in una costante tensione al rinnovamento, nella convinzione che in Italia si sia troppo conservatori – e come dargli torto? – e che occorra guardare all’estero per riguadagnare il tempo perduto. In questo senso, l’allestimento di stasera è emblematico, in cerca di un equilibrio quantomai problematico tra tradizione e innovazione. E raggiunge alti livelli anche il Coro, diretto come sempre dall’ottimo Maestro José Luis Basso.

Per i quattro ruoli principali siamo a livelli veramente molto alti, e d’altra parte non si può metter in scena un’opera come questa senza pretenderlo: non saprei definire altrimenti la prestazione di Annalisa Stroppa, che riesce a ispirare simpatia anche nel ruolo francamente antipatico della classica amica rubamariti del dramma borghese: il suo canto sa nutrirsi, come sempre, di stile, profondità, tecnica raffinata, ma rende perfettamente, anche sul piano scenico, con grande immediatezza stati d’animo, complessa personalità, retropensieri, intenzioni, speranze, soprattutto in un personaggio come questo, che offre grandi possibilità per chi le sappia cogliere. Lo sprezzante Enrico di Alexander Vinogradov pure sa giungere, per vie diverse, naturalmente, al suo scopo: in un allestimento come questo, tutto centrato sull’abuso, occorre che il concetto astratto di potere possa prendere carne e sangue – e voce – e si presenti al pubblico per ciò che è: in questo senso la voce profonda, inquietante e tuttavia seducente del basso russo sa offrirci il giusto mix tra timbro ammaliante e anaffettività del personaggio. L’impervio ruolo di Percy, scritto per Giovanni Battista Rubini ha, da sempre, dato problemi ai tenori che ci si sono cimentati: René Barbera lo ha affrontato con grande cura, lo si è visto subito, fin dalle prime battute, superando ogni difficoltà con voce sicura e soprattutto raffinatissimo fraseggio, che gli ha consentito di superare ampiamente i limiti della non eccelsa presenza scenica.

L’ultima scena di Anna Bolena è di grande complessità: da un lato Anna, ormai preda della follia, va a morte, dall’altro si celebrano le Royal wedding, su un altro piano vengono condotti al patibolo Percy, Rochefort e Smeton. La regista Mijnssen risolve, finalmente mettendo a fuoco il senso del dramma, con un colpo d’ala l’impervia sfida, lasciando da parte le stinte liturgie fino a quel momento adottate, aprendo finalmente la scena completa, che ospita sul fondo – in bianco assoluto, of course – la festa del matrimonio, che tuttavia ci appare pur essa come filtrata attraverso l’ormai malata sensibilità di Anna, sentiamo le voci dei condannati a morte ma non ci vengono mostrati, è come se tutto avvenisse nella mente delirante di Anna, in scena solo lei, il personaggio e la sua stupenda interprete, una superba Maria Agresta, e, naturalmente, la musica.

Pone, Donizetti, incistata al centro di questo roboante e intricato finale, un’aria semplicissima, di cui abbiamo già detto a proposito dei ricordi di Fogazzaro, Al dolce guidami, un tremulo d’archi e versi disarmanti nella loro studiata apparente modestia, una melodia sottile che Maria Agresta ci restituisce sapendo creare la necessaria sospensione perché il miracolo possa ancora una volta avvenire: il prodigio di una scrittura musicale che, grazie solo alla voce, potesse riuscire ad esprimere, oggi come allora, nel pieno della temperie romantica, la robustezza drammatica del nuovo secolo che avanzava, rifiutando le eco stilistiche del Settecento leziosamente e artificiosamente fiorito, ma che tuttavia potesse – ed eccezionalmente, ed in sovrana misura – rivelare, nel contempo, estraneità e inaccessibilità al mondo terreno. Ieri sera quel miracolo di perfezione si è, evidentemente, ripetuto, grazie all’Autore e alla sua eccelsa interprete, per una volta ancora facendoci comprendere, in un lampo di illuminante intuizione, il perché della stessa esistenza dell’opera italiana, il senso suo, la sua necessarietà altrimenti incongrua e incomprensibile, incrociando – e illuminando – ancora una volta le strade spesso desolate della nostra lacerata contemporaneità.

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