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Sei personaggi nel giuoco degli sguardi trafitti

Sei Personaggi nel giuoco degli sguardi trafitti
Fermata Spettacolo

Sono più di cent’anni – centodue, per essere precisi, dal maggio del ’21 al Valle di Roma – che continuano la Loro dolorosa, spesso incompresa, via crucis nei teatri italiani e non solo, da quando il loro autore li ideò per poi volutamente, pervicacemente, abbandonarli al loro inconsulto destino: i Sei personaggi (ancora) in cerca d’autoreinteressantissimi! Quantunque, sperduti – approdano stasera qui al Teatro Bellini, a Napoli – complice Valerio Binasco e gli allievi del Teatro Stabile dei Torino – in un finale di stagione del tutto inusuale, in questo abbondantemente piovoso maggio così anomalo, se vuoi, per la città di Partenope ma, pure, così gioiosamente in festa per la vittoria dello scudetto.

Crea, il rapido decadere delle insegne e dei trofei della vittoria, ancora presenti su strade e piazze, un così evidente e spiazzante contrasto malinconico e triste da risultare veramente in tono con il più straniante degli italici drammi, ideato – e già questo è in fondo misura della singolarità della natura sua – dapprima come destinato ad assumer forma di romanzo, solo più tardi trasmutata in quella teatrale: “Ho già la testa piena di cose nuove! Tante novelle… E una stranezza, così triste, così triste: Sei personaggi in cerca d’autore: romanzo da fare. Forse tu m’intendi. Sei personaggi presi in un dramma terribile, che mi vengono appresso, per esser composti in un romanzo, un’ossessione, e io che non voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m’importa di loro e che non m’importa più di nulla, e loro che mi mostrano tutte le loro piaghe, e io che li caccio via…e così alla fine il romanzo da fare verrà fuori fatto”.

Così scriveva Luigi Pirandello al figlio Stefano il 23 luglio 1917, testimonianza della lunga gestazione del suo capolavoro che vedrà la luce, alla fine, come detto, in teatro; e in un teatro vuoto e fuori d’ogni apparente retorica finzione. E certo lo scandalo che i Sei personaggi suscitarono alla prima loro comparsa, fu riflesso, sicuro, dell’eccesso di trasgressione rispetto ai tempi, non tanto, in fondo, a ben pensarci, per quanto concerne i temi – la famiglia, l’onore, l’incesto, il suicidio – e alla loro declinazione all’interno della società borghese del tempo, quanto piuttosto riguardo proprio alla forma teatrale che la trattazione di tali tematiche assumeva in confronto a quanto sin lì conosciuto, ad un teatro che si mostrava nudo, rispecchiando se stesso nel nulla della sua artificiosa finzione, l’illusione della realtà. E denunciando, finalmente e definitivamente, dopo il superamento della retorica realista, l’assoluta impossibilità di poter metter sulla scena, con un minimo di decenza, il decoro borghese che già perdeva la sua fragile patina dorata, per mostrare, al di sotto, l’assoluto nulla.

E allora aveva ben ragione, quel pubblico che ancora, in tutta evidenza, da quel farisaico splendore, dalle aspirazioni a una certa solida sanità morale ancora traeva vanto e forza, che si frangevano nelle risate fragorose della Figliastra, quei fischi apparivano, dal punto di vista loro, più che meritati, il cervellotico autore del Giuoco delle parti poco mancava di metter se stesso in scena, filosofeggiando a vuoto. Sconcerto. Rabbia. Incertezza. Durò poco, naturalmente, quel benefico effetto “sorpresa” sul pubblico romano: già nel corso delle successive repliche, a Milano, non solo non si ripeterono i fischi, ma si cominciò via via sempre più ad apprezzare lo spettacolo, fino a portarlo anche all’estero, prima a Londra, poi a New York.

Il 10 aprile 1923, due anni dopo la prima romana, Georges Pitoëff ne mette in scena alla Comédie des Champs-Elysées una versione tradotta da Benjamin Crémieux, presente l’Autore, che molto influirà sul futuro della pièce: entrano in scena, i personaggi, con il montacarichi di servizio, completamente vestiti di nero e avvolti da una soprannaturale luce verdastra. Lo shock, prima di tutto per l’Autore, sarà drammatico, cosa non del tutto nuova, in verità, per il Maestro, sempre curioso di qualcuno, come già successo con Adriano Tilgher, che spiegasse a lui ciò che volesse dire sul serio Pirandello. Sta di fatto che da quel momento in poi i personaggi apparterranno per sempre ad un mondo iperuranio fuori dalla portata degli uomini e dei loro volgari commerci borghesi, nasce la “strana tenuissima luce, appena percettibile, attorno a loro, come irradiata da essi” e poi “una certa loro naturale levità di sogno, in cui son quasi sospesi”, un nuovo punto di vista, insomma, tale da spingere Pirandello a scrivere addirittura un testo Come e perché ho scritto i «Sei personaggi», apparso per la prima volta su Comoedia del gennaio 1925 e da allora utilizzato come Prefazione ai Sei personaggi.

Ma passata ormai quell’epoca d’ipocrisie borghesi, passata pure la rivoluzione italica degli anni di poco successivi che di quelle tartufesche furbuzie era comunque figliastra, un po’ come un dei Personaggi dell’Autore, passata un’altra guerra e un nuovo benessere, entrati in un’età che vuole battezzarsi postmoderna, oggi, a più di cent’anni da quei giorni, è il caso di chiedersi qual sia il senso d’ancora rappresentare i Sei personaggi, al di là di una dovuta e compiuta celebrazione storica. E se lo chiede pure Binasco, in verità, nelle note che accompagnano lo spettacolo lo leggiamo ansioso di replicare e restituire in qualche modo quello sconcerto, quella sorpresa – quella paura – che provò quel primo pubblico, seduto in platea al Valle: il che, ritengo sia ciò che ogni buon regista dovrebbe proporsi, ricorrendo ovviamente a strumenti diversi da quelli dell’Autore, ma cercando di suscitare nel nostro quotidiano le stesse emozioni, le stesse percezioni, gli stessi moti dell’animo, senza, nel contempo, strapazzare più di tanto ciò che si va a rappresentare.

Difficile arte, questa, dunque, in questo caso si spinge, il regista, che interpreta pure, come d’ordinanza, il principale dei Sei personaggi, il Padre, a sentire il dovere di cambiare, in locandina, una preposizione, facendo mutar pelle a questi Personaggi, che da creature “di” Pirandello, diventano tratte “da” Pirandello, traslazione non da poco che comporta una importante riscrittura del testo che interessa anche il finale, ma che trasforma una tranquilla serata in compagnia d’un sonnacchioso e polveroso e risaputo classico in una geniale riflessione sul teatro dell’oggi, su come e perché un signore vissuto più di cent’anni fa potrebbe voler dire qualcosa di utile non tanto a un boomer come me, ma a ragazzi come quelli che, abbarbicato sulla mia poltroncina in platea, vedo sul palcoscenico: giovani attori vestiti come sono vestiti i giovani attori di oggi. Con i loro occhi liquidi, trafitti.

Se nei Personaggi “di” Pirandello l’inconsistente trama era portata avanti dai sei inconclusi parti della fantasia dell’autore, in affannosa ricerca di un ordito su cui innestarsi – gli attori della compagnia, gli interpreti, cioè, del Teatro – Binasco rovescia la prospettiva, “anche se Pirandello pare non curarsene, il plot, la trama principale, c’è. Ed è quello che vede una compagnia di attori in profonda crisi creativa”: il focus si sposta sulla giovane compagnia di attori, è attraverso il loro sguardo, lo loro sensibilità che il dramma viene filtrato, destrutturato, ricomposto, ricucito, in un infinito gioco di specchi e di rimandi – in aggiunta ai numerosissimi già presenti – che continuamente riferisce ad “altro”, ad oblique e fittizie realtà, perché è impossibile non notare come sia un gruppo di attori professionisti ad “interpretare” i personaggi, mentre i giovani “interpretano” gli attori, gioco a rimpiattino tra realtà e fantasia che ripete e riverbera, aggiornato, il giuoco pirandelliano, lo rende, di nuovo, vivo e interessante attraverso i reali dubbi dei ragazzi, le loro vere idiosincrasie, il loro scherzare e rabbuiarsi, che tuttavia, nel momento in cui viene agito su un palcoscenico, diviene teatro, superba finzione, luogo dove si giuoca a far sul serio, o dove, al contrario, è impossibile restituire, intera, la verità.

Così, come di prammatica, il sipario è aperto, entrando in sala, la scena, ideata da Guido Fiorato, non è un teatro, ma vasto e alto salone, una palestra in un seminterrato, forse, lo capisci da un canestro da basket a mezza altezza, un pianoforte in un canto, un grammofono a tromba comprato dai cinesi per far scena, un non-lieu, insomma, prodotto della nostra surmodernità e adattissimo per le prove d’una compagnia di giovani allievi d’una scuola di recitazione sotto la guida del loro Direttore. Si comincia con le luci in sala ancora accese e con qualche signora che ancora chiama il marito in ritardo – d’altra parte, non siamo, anche noi in platea, parte dello spettacolo? – e come di regola assistiamo all’arrivo dei giovani attori alle prese con le prove del Giuoco della parti, le luci in platea si abbassano e si spengono proprio mentre il Direttore mima lo sbatter delle famose uova di Leone Gala.

Sbuffano, i giovani, su questo Pirandello di una pesantezza appiccicosa e insopportabile, costretti dalla penuria di drammaturgia contemporanea a recitar sempre Goldoni, Shakespeare, Molière e Pirandello, testi morti, di autori morti, per un pubblico di morti. La dissacrazione, già presente nel testo originale, diventa qui più intensa, decisa, soprattutto più vera, fino all’arrivo dei quattro personaggi – mancano, all’inizio, il Giovinetto e la Bambina, che verranno “reclutati” tra i giovani allievi – che piombano all’improvviso, con i loro cappottoni anni Venti e gli occhi pesti e cerchiati, come morti viventi, incapaci, si vedrà alla fine, di morire. E l’immortalità, per queste creature, può essere, come si vedrà alla fine, anche una maledizione, a metà strada tra fliegende Holländer e Nosferatu.

Intendiamoci, la coraggiosa operazione di adattamento del testo che Binasco porta avanti corre il rischio di cadere continuamente in una sorta di parodia del testo, perché la rivisitazione di un classico può portare a risultati francamente ridicoli, di un umorismo ben lontano da quello pirandellinano: ben avvertito, evidentemente, del pericolo, da saggio e navigato uomo di teatro, il regista non bandisce la parodia, ne fa anzi un ben preciso strumento di comprensione del testo, circoscrivendola e denunziandola. Un esempio può essere il momento in cui, dopo che il Padre e la Figliastra hanno rivissuto la scena nella stanzetta di Madama Pace, gli attori provano ad interpretarla, giungendo, già nel testo, a risultati grotteschi: Binasco si spinge più in là, oltre alla reinterpretazione dei giovani attori ne fa metter in scena un’altra ancora da parte di due giovani, del tutto ridicola e farsesca, una rivisitazione che spinge il Direttore a consigliare i giovani interpreti di farsi visitare. Il che consente anche una critica a certo modo di far teatro nella nostra quotidianità, che è un altro del leitmotiv dello spettacolo.

I giovani allievi hanno comunque ampio spazio per provarsi, sono veramente bravi e ben guidati, sia nella realtà dal regista – credo che questo spettacolo per molti costituirà una tappa importante per la loro carriera – sia nella finzione scenica dal Direttore che Jurij Ferrini impersona a perfezione, con i suoi dubbi, le sue idiosincrasie, i suoi limiti, che poi sono i nostri, di chi sta comodamente seduto in platea e guarda. Nella riscrittura hanno certo più ampio spazio due personaggi che, per dirla col Pirandello della Prefazione, non stanno in apparenza sullo stesso piano di formazione: sono la Madre e il Figlio.

Nel primo caso Sara Bertelà cerca di render quanto più possibile questo personaggio donna, oltre che madre, anzi archetipo della Madre pirandelliana, e, pur nella stringatezza ed estrema stilizzazione delle battute che il copione le assegna, ci riesce perfettamente; nel secondo Giovanni Drago si cimenta in una caratterizzazione sofferta e scontrosa che, pur sottolineando e rimarcando quanto già scritto nel testo originale, mette in luce, fin dall’aspetto fisico, la maschera del dolore chiuso e senza possibilità di salvezza che lo caratterizza: toccherà a lui, riscrivendo in qualche modo anche il finale, dimostrare tangibilmente l’eternità del personaggio anche rispetto all’autore, perchè chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte.

Dei due Personaggi più vivi, più compiutamente creati, la Figliastra e il Padre, la prima, attraverso l’interpretazione di Giordana Faggiano, rinasce prorompente e viva come dovette apparire all’inizio, in quella serata al Valle, fatte salve le ovvie diversità dovute al tempo che passa e che cambia: taglia la scena, la sua famosa risata, brucia, mette alla berlina ipocrisie e pruriginosi e affannosi rigurgiti sessuali, insiste volutamente su una fisicità aggressiva che sa come mettere in difficoltà certo machismo di maniera e d’antan, colpisce dritto allo stomaco personaggi come il Padre, che Valerio Binasco costruisce, ben oltre e al di là d’ogni possibile fraintendimento, carico di dolore, certo, ma pure di repulsive obliquità, affranto, perfino, e franto nella parola e nell’agire, cercando rifugio all’imbarazzo nel gran fazzoletto agitato come a mascherare poco nobili retropensieri, citazione di certe interpretazioni nobilissime del passato che tuttavia, al contrario, facevano veramente sembrare il personaggio caduto solo per un momento fugace, vergognoso, in una situazione equivoca e incresciosa, ma che invece qui ne fa risaltare con chiarezza il comportamento perennemente manipolativo e seduttivo, delirio istrionico di personalità quasi da manuale di psicopatologia.

C’è pure, tuttavia, un’altra direzione in cui si spinge la ricerca del regista, ed è l’autentica tragedia dei personaggi, che, dice, straziati, non cercano solo un Autore, ma qualcuno che li comprenda, li ascolti e li accetti per come sono… gli attori: per questo l’unica famiglia veramente possibile è quella del teatro, per questo tutti insieme alla fine si stringeranno, attori e personaggi, allievi e professionisti, in un’unico abbraccio, guardando nell’unica direzione possibile: il teatro.

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