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Marocchinate torna a Roma al Teatro Vittoria

Marocchinate torna a Roma al Teatro Vittoria
Fermata Spettacolo

Le pagine di storia, si sa, vengono spesso scritte col sangue, non ultimo quello di chi da quella storia finisce per essere inghiottito e dimenticato. Sono molti i fatti oscuri e per così dire “collaterali” del nostro passato recente che solo da pochi anni sono tornati a galla dall’abisso della dimenticanza. Penso alle Foibe, alle uccisioni di Andria, all’eccidio di Avola, tanto per citarne alcuni. Molte di queste vicende ci sono rimbalzate agli occhi proprio grazie ai preziosi artisti che hanno voluto parlarcene attraverso le loro opere, perché è proprio l’arte il veicolo più efficace per scolpircele a fuoco nella memoria.

Così è stato per Ariele Vincenti con il suo “Marocchinate“, tratto dal libro scritto a quattro mani con Simone Cristicchi (co-autore anche della drammaturgia) e diretto da Nicola Pistoia. Torna a Roma al Teatro Vittoria dopo un lungo viaggio che ha portato Vincenti in giro per lo stivale a raccontare i fatti della primavera del ’44 in Ciociaria. Lì fra i monti sabini e l’agro romano bonificato, terra di briganti e poi di pastori, si consumarono alcuni fra gli episodi più feroci della seconda guerra mondiale. Il conflitto sta per volgere al termine a favore degli Alleati, ma laggiù nell’isolato basso Lazio piombano implacabili i Goumiers, militari marocchini assoldati nel corpo di spedizione francese, per contribuire allo sfondamento della ferrea Linea Gustav, con la distruzione dello scudo difensivo tedesco fra i monti Aurunci e La Valle del Liri.

Quei soldati addestrati alla morte riescono nell’impresa e ottengono una ricompensa, pare, offerta dal generale Alphonse Juin: cinquanta ore di assoluta libertà nei territori ciociari. Alcune fonti smentiscono la profferta francese, ma la violenza esplode reale, incontrollata, famelica. I nordafricani fanno razzia di qualsiasi cosa sul loro cammino: cibo, vino, bestie, oro, donne, vecchi, bambini. In quell’ultimo mozzico primaverile prima dell’estate, i fiori delle valli cadono falciati da stupri, sevizie, omicidi. Sono le donne le vittime “privilegiate”, subiscono davanti ai loro mariti, fratelli, padri, ogni sorta di angheria fisica, plurima, reiterata, devastante, fino a sfinirle, svuotarle.

Moltissime muoiono, uccise da malattie veneree o dai colpi inferti, altre sopravvivono portando l’eredità di gravidanze pesanti, altre ancora soffriranno per il resto della vita indicibili tormenti interiori. Una di quelle è Silvina, la promessa sposa di Angelino, pastore locale che ci racconta la sua di storia, un piccolo tragico pezzo della grande, grondante sangue e lacrime. E’ un racconto tuttavia affatto indigeribile, ma che ci accompagna piano dalla vita semplice e genuina dei campi, fino alla tragica interruzione dentro quella pagina nera, di diavoli travestiti da salvatori.

Locandina di “Marocchinate”, il libro-spettacolo di Ariele Vincenti e Simone Cristicchi.

Sarà poi Maria Maddalena Rossi, presidentessa dell’Udi, a riportare la vicenda in Parlamento nel 1952 denunciando le oltre 60.000 richieste di risarcimento inevase, unico triste lascito a quella massa di piccole grandi comunità contadine distrutte. Vincenti, fra sorrisi e rabbiose denunce, ci restituisce un quadro del paese reale attraverso un personaggio che incanta l’uditorio, non con parole dolci da imbonitore, ma con la semplicità della nenia di un tempo, del racconto quasi cantilenante sui ritmi della calata ciociara che non chiede e non spera, ma offre.

Ariele Vincenti è uno dei pochi artisti che ha dedicato parte della sua carriera all’utilizzo del romanesco a teatro, fuori dallo stretto schema macchiettistico o sboccato, di facili battute o rifacimenti manieristici di giganti della scena e non. Marocchinate, come altri suoi lavori, disegna invece una zona franca del teatro, in cui trova spazio e asilo una lingua poetica in grado di condurci in universi artistici poco battuti, ma assolutamente affascinanti. Lo aiuta in questo il tocco registico volutamente leggerissimo di Nicola Pistoia, che mette sulla scena due covoncini di paglia e la luce delicata del giorno (luci Marco Laudando) che poco a poco si scurisce e si tinge di rosso magenta, sul culmine del patos narrativo.

Un bel lavoro, raffinato e studiato nei dettagli, soprattutto dal punto di vista storiografico, attraverso un vero e proprio percorso esperienziale fra quelle valli visitate e indagate da vicino, come racconta lo stesso Vincenti a fine spettacolo, per riportare sulle assi del palcoscenico la voce dei ricordi ancora vividi di quei giorni così ostili. Tuffo nella storia, ma pure nel monologo serrato, che come si dice in capitale “regge botta”. Bravo!

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