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Die Walküre: il dramma borghese dentro una autentica tragedia

Die Walküre: il Dramma Borghese Dentro una autentica tragedia
Fermata Spettacolo

Risplende di luci, il mio bel San Carlo, rimesso a nuovo fin sulla gran tela di Giuseppe Cammarano che di lassù ci guarda: ad onta di ministri e menestrelli che lamentano una proiezione non pari alla sua grande storia, torna stasera il gran teatro ad ospitare la musica con la più “italiana” delle opere di Richard Wagner, Die Walküre, con un cast di grande rilievo, a cominciare dal Sigmund di Jonas Kaufmann, che richiama un pubblico internazionale, alla prima, un sold out che rassicura: qualcuno, all’inizio, prima che tutto cominci, lancia il grido: “Grazie, Lissner”, all’indirizzo del Sovrintendente, che si fa vedere in sala, saluta alcuni amici francesi seduti accanto a me, fa insomma gli onori di casa.

L’allestimento non è nuovo, ma è uno dei migliori degli ultimi anni: la regia di un grande uomo di teatro come Federico Tiezzi – che, tra l’altro, sempre, nei suoi lavori, pone al centro l’aspetto visivo o visionario che dir si voglia e specificamente pittorico – le scene di Giulio Paolini, artista di matrice concettuale dalla classicità senza tempo, insieme ai sontuosi costumi, nella loro stupefacente e disarmante semplicità firmati da Giovanna Buzzi, portarono questo allestimento sancarliano, dell’ormai lontano 2006, a due Premi Abbiati, appunto per scene e costumi. E, certo, se la regia di Tiezzi altro non è se non riflessione sul linguaggio del teatro, in parallelo alla riflessione wagneriana sul linguaggio della musica, dove l’azione non s’invera nel “tempo reale” ma diventa invece memoria, (ri)vissuta, di tragedia atavica, di brennend Weh’, bruciante dolore che si rinnova, la scena di Paolini, per contro, chiara e tersa come una perduta innocenza, si veste dei colori dell’aurora e del crepuscolo – solo alla fine s’affocherà d’uno scarlatto che sa di sangue più che di fuoco – per ospitare segni che, da sempre, sono le viventi stigmate dell’artista genovese: ripensare, da un lato la prospettiva del Rinascimento bramantesco, dall’altro la forma classica, improvvisa manifestazione della cognizione del presente.

D’altra parte, a ben pensarci, non è certo un caso che Die Walküre risulti, tra le opere del Ring, quella più frequentemente messa in scena in Italia, probabilmente per quel suo familiare quanto stupito risuonarci dentro, anche se le giustificazioni del suo perdurante successo sono da ricercarsi, probabilmente, non solo in ragione della più ampia cantabilità dei suoi brani, che spesso sfociano in quanto più vicino alla forma chiusa possa aver concepito il Wagner maturo, ma anche e, crediamo, soprattutto, per la non scontata umanità, sentimento di calda simpatia ed empatia, che i suoi personaggi e le vicende che li vedono protagonisti, sofferenti e tormentati, suscitano tra gli spettatori.

E questa riflessione ci dà anche modo di comprendere come, nell’opera d’arte, soprattutto quando la densità e la complessità raggiungono così alti livelli, ciascun tempo e ciascuna tendenza culturale possa facilmente riverberarsi e riconoscersi, trovare un approdo, una patria da venerare e comprendere in una parte, in una scheggia, in un compiuto e felice brandello dell’Universo culturale che quell’opera abita e vivifica. Se, infatti, la tragedia della Walküre così ben s’adatta ai nostri tempi liquidi evanescenti e seduttivi, in cui le libere scelte individuali s’esaltano e provocano esse stesse altre scelte, magari rovinose, sempre più stringendo la vite senza fine che, per l’appunto, costituisce l’essenza stessa della tragedia, rimaniamo tuttavia avvertiti che non sempre è stato così.

Da quando è stato concepito e scritto, altre parti del Ring hanno, infatti, riscosso in diversi tempi maggior favore, come per esempio la favola del Siegfried nella stagione del Übermensch, anche nelle sue pericolose declinazioni storiche, o, ancora, il melò del Götterdämmerung nell’epoca morbida e vaga del decadentismo amante della morte e della bellezza, anticamera dell’inferno della Grande Guerra. Quando noi parliamo, a proposito di Walküre, di tragedia non è solo per il fatto che nel corso dell’opera ci sono svariati contrasti tra i personaggi, che alla fine uno dei protagonisti muore, che ci sono, insomma, abbastanza lacrime e sangue, abbastanza dolore e sconfitte, abbastanza rabbia e paura: Die Walküre è tragedia nel senso che aderisce, in modo pieno e consapevole, all’essenza del tragico che Schiller ed Hegel andavano definendo, proprio negli anni tempestosi e luminosi che videro la genesi del Ring, non tanto come narrazione dell’eroe nobile e probo che soccombe di fronte ad un avverso destino o ad antagonisti moralmente riprovevoli, che è fondamento, invece, del dramma borghese (e del melodramma, che di quello costituisce l’epos), ma, invece, come descrizione e puntuale risonanza di un protagonista diviso tra due o più istanze morali contrapposte, eticamente parimenti valide, in cui ogni tentativo di uscire dalla crisi ne provoca inevitabilmente una più grave e ancor più potenzialmente letale.

Se volete, questo inestricabile dilemma morale, nella estrema radicalizzazione della relativizzazione, si conserva intatto anche nell’oggi della nostra contemporanea tragedia, attraversa con noi le nostre stesse strade, ci pone di fronte, continuamente, al viluppo delle nostre inestricabili scelte, che pur dobbiamo quotidianamente compiere, tra progresso e salute, tra slancio del cuore e calcolo di sopravvivenza, tra ponti di solidarietà e muri di inquietudine, tra istanze etiche diverse e incommensurabilmente inconciliabili. In fondo, dal nostro contemporaneo punto di vista, pure l’epoca del dramma borghese può ben appartenere al passato, sì da poterla ormai osservare integra nella sua prospettiva storica, possiamo perfino tentare di trapiantare una tragedia – con tutte le sue caratteristiche – in una temperie “borghese”, sperando che l’innesto attecchisca, ed è proprio ciò che in questo allestimento Tiezzi si propose di operare.

In suo aiuto costruisce, allora, Paolini, un’enorme struttura che sepimenta lo spazio del palcoscenico per tutta l’opera, linee di fuga che consentono all’artista di costruire la figura nello spazio che risulta in tal modo suddiviso in una sorta di gabbia tridimensionale in cui trovano ricetto e patria segni e semi, simboli d’una lotta già avvenuta, circostanze e presagi d’un tempo e di uno spazio alieno in cerca di diversa storia e geografia. Uno scheletro prospettico, potremmo chiamarlo, che nella sua complessa essenza, con almeno tre stratificati livelli d’apprendimento e possibile conoscenza, crea al suo interno la possibilità di generare immagini, e dunque il mondo, utero gigantesco e in ogni istante gravido, ma, al tempo stesso, nell’atto stesso di metterle al mondo, quelle immagini, le rende visibili ma del tutto inafferrabili, concettualmente incomprensibili, se non attraverso una sofferta pedagogia e cognizione del dolore, in tutto simile a quella dei protagonisti della tragedia del Ring, redenti solo attraverso la conoscenza del dolore.

Così, nel primo atto, piatte strutture bidimensionali evocano l’arte visiva prima, la pittura, come forme semplici che abitano il primo, e più prossimo alla platea, dei livelli: diventa così, la gigantesca prospettiva, la casa sul frassino di Hunding e Sieglinde, protettiva ma segregante, barattando sicurezza in cambio di libertà, al centro la rappresentazione pittorica – e dunque bidimensionale – del frassino, forma elegante e sinuosa che, al tempo stesso, evoca anche la fiamma – immobile e buia e fredda, come l’amor coniugale che qui abita – del focolare domestico. Al suo centro, una cornice dorata, sbilenca, vuota, nel suo apparente infelice disordine indica tuttavia qualcosa: Notung, spada del dolore e della hybris, è lì, in bella vista e nondimeno invisibile all’occhio che non sappia coglierne significato e senso, opera d’arte e d’arme impossibile da raggiungere se non con un gesto estremo come un atto d’amore, incomprensibile alla logica umana, eroico come un gesto artistico che sfidi le convenzioni e le paure del mondo oscuro di Hunding, impresa che sappia vedere e creare il futuro piuttosto che ripetere il passato: “L’opera è lì, la vediamo ma non riusciamo a raggiungerla. Dunque, fissare in profondità fino a dimenticare il soggetto è la condizione necessaria per poter penetrare la superficie dietro alla quale scorgiamo il profilo sempre uguale e sempre diverso, di un modello ancora sconosciuto, capace però di risvegliare nella nostra memoria un’antica e rinnovata conoscenza”: è lo stesso Giulio Paolini che parla dell’opera sua, dell’opera d’arte in generale, della condizione necessaria per poter finalmente entrare in sintonia con le cose, aprire il sipario della rappresentazione.

E dunque, se le figure dei famigli di Hunding, sullo sfondo, si agitano nell’ombra come violenti fantasmi dell’odio, se tavolo e sedie ostentano, con la loro immacolata imbottitura e la splendente doratura il farisaico decoro borghese, der Gottheit nichtigen Glanz, il vuoto splendore della divinità che, nauseato, Wotan lascerà in eredità al figlio del Nibelungo, Wonnemond, tuttavia, la luna voluttuosa del maggio, vincerà, alla fine, le bufere invernali, diventando opaco riflesso bianco sul cielo grigio che lentamente trascolora in nero, la primavera irromperà sulla scena e nella musica mentre i gemelli valsidi conosceranno l’amore per la prima volta.

Poi, nel secondo atto, lo scheletro prospettico genera, al secondo livello, un gigantesco cippo classico – epifania della conoscenza del presente – ma lo spazio è oberato, occupato, in definitiva minacciato da gigantesche rocce oscure: se queste, in qualche modo, descrivono meramente la scena, rispondendo alla precisissima didascalia wagneriana, che fa avvenire la prima parte dell’atto su Wildes Felsengebirge, una montagna rocciosa e selvaggia, non sfugge a nessuno il significato allegorico che mostrano: la guerra che incombe, la rovina finale della stirpe degli dei, il fallimento della capacità creativa di Wotan, esplicitata significativamente da camerieri in livrea che portano in mani enormi specchi in cui si ripete all’infinito l’immagine del dio, capace di generare solo servi, null’altro che vuoti riflessi del loro creatore; tutto indica che Sigmund non è l’eroe aspettato, i piani di Wotan vanno in fumo.

Nel terzo atto, infine, lacerti di opere classiche abitano la struttura, inserite in enormi cornici: della scultura ci parla dunque il secondo livello, di brandelli di corpi smembrati degli eroi che si ricomporranno nei morti viventi del Walhalla, la reggia di Wotan sempre evocata e mai mostrata in tutta la Tetralogia, luogo indefinito dell’irrappresentabile e dell’invisibile. Sono naturalmente le Walkirie che si occupano del lavoro sporco, un corpo è su un tavolo al centro, altri vengono trascinati, aria di sala settoria, manca l’odore acre di formalina, etere e putrefazione, la scena combatte l’idea della morte con la perfetta asepsi del bianco assoluto, dello splendore dei costumi delle Walkirie, della musica eroica.

Alla fine, quel tavolo diventa un’ara sulla quale si stende Brünnhilde: il terzo livello è l’architettura, che costruisce cattedrali impalpabili di luce, nel bianco assoluto di due classiche scale gemelle, evocazione delle ali del Pergamon, che chiudono la scena, poco prima dell’invocazione di Loge e dell’arrossarsi, radioso e terribile, dell’aria e della luce insanguinata del tramonto.

Se questa è la scena, se questa è la regia, splendidamente servite dalle luci di Gianni Pollini, al successo della serata ha certamente contribuito in misura determinante, com’è fin troppo ovvio, la musica, che si invera grazie a un cast di tutto rispetto: Okka von der Damerau è una notevole Brünnhilde, dal solidissimo strumento: già ascoltata con grande interesse qui al San Carlo come Brangäne nel Tristan und Isolde dell’autunno scorso, conferma la grande intensità di cui sa essere protagonista, nei suoi toni naturali, accompagnando sempre la voce con vigoroso fervore e sensibilità drammatica; la sua voce profonda permette di dar grande pathos al personaggio, e poi si muove con disinvoltura, cambiando rapidamente la sua espressione vocale e scenica, mostrando una notevole presenza scenica in uno con grande conoscenza del ruolo, che richiede, come sappiamo, bellezza di voce, potenza e sensibilità.

Il cast di questo allestimento è comunque caratterizzato dal fatto che la maggior parte degli interpreti, a parte Okka von der Damerau e Jonas Kaufmann, è al suo debutto al San Carlo: così è per Christopher Maltman, eccezionale baritono gallese che colpisce per le sue qualità vocali e la grande personalità: dotato di voce scura e possente dalla pressoché perfetta tecnica, famoso per la sua prorompente espressività riesce comunque a ben rivestire gli eleganti panni di un Wotan umanissimo e dolente, quasi affranto, grandemente espressivo nella sua potenza trattenuta. Impressionante la Sieglinde di Vida Miknevičiūtė, cantata con emozionante abbandono e con il cuore in gola: attrice incredibile e soprano dalla naturalezza quasi spiazzante, ha interpretato Salome nel recente allestimento scaligero a firma Michieletto; qui la sofisticata espressività del soprano lituano quasi toglie il fiato, l’aspetto fragile in uno con la solidissima vocalità crea un mix di contraddittoria e indimenticabile inquietudine.

John Relyea è un ottimo Hunding dalla voce ampia e profonda e dall’adatto physique du rôle, mentre la Fricka di Varduhi Abrahamyan si segnala per interpretazione vigorosa e tuttavia molto musicale, se l’espressione vocale è impeccabile, altrettanto risulta la presenza scenica. Che dire, infine dell’indiscussa star della serata, Jonas Kaufmann nei panni, per lui consueti, dello sfortunato eroe Siegmund? Difficile vincere la tediosa sensazione del già detto, la voce è calda come sempre, potente, con eccezionali sfumature timbriche: sensibile e commovente, si fa più incisiva nella rabbia dando molto rilievo a certe sfaccettature del carattere del Wälsung, coniugando magistralmente fraseggio e musicalità che poi sono alla base di questa superba interpretazione che richiede molta flessibilità ma altrettanta intensità.

Come sempre, per finire, inevitabilmente diventa fonte di pensieri e discussioni la performance del Direttore musicale del Massimo partenopeo, Dan Ettinger: a molti, me compreso, non piace tanto il taratabum che spesso si ascolta nelle sue esecuzioni, il gran rutilar, cioè, di timpani, piatti e tamburi, il volume soventissimamente troppo alto – sì da spesso coprire le voci dei cantanti, e ieri sera non eran certo flebili vocine – il tono spesso tronfio e gonfio, i tempi troppo veloci talora, troppo lenti talaltra. Ma come non riconoscere, tuttavia, al Maestro israeliano, slancio e passione genuina che riesce a trasfondere immancabilmente in ogni nota che dirige, la grande espressività che mostra: ieri sera ho distintamente sentito la pioggia che cadeva nella tempesta iniziale, ho visto il fuoco accendersi alla fine, ho pianto per la passione d’amore dei gemelli walsidi, tutto questo dà ragione del perché Dan Ettinger, nonostante le sue innegabili imperfezioni, sia un grande musicista e un ottimo direttore. Che, tra l’altro, riesce a dare gran risalto alla sua Orchestra: ieri sera – è la prima volta che vedo una cosa del genere – ha voluto tutti i Professori sul palco, a prendersi insieme ai cantanti, condividendone l’assoluto trionfo, i lunghissimi, meritati applausi che, senza riserve, il pubblico ha voluto dedicare a questa splendida rappresentazione.

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