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Uno sguardo – inquieto e struggente – dal ponte incantato

Uno sguardo – inquieto e struggente – Dal Ponte incantato
Fermata Spettacolo

Hanno figura quasi di skyline, in controluce nella penombra del palcoscenico, mentre arrivi in teatro e ti siedi in platea, suggeriscono, sobri, un profilo di città che dorme, che a tanti sembrò – erroneamente – il paradiso, invece sono, e mai trompe-l’œil fu più ingannevole ed efficace insieme, i mobili modesti ed usati della famiglia Carbone, Brooklyn, USA, al di sotto, proprio al di sotto, delle travi d’acciaio del gran Ponte che sfida tutte le leggi della gravità. Perché poi, proprio di una sfida alla legge si tratta, a tutte le leggi, quello di cui ora mi accingo a render ragione.

Una recensione è come il sesso, ci si basa su ciò che c’è e non su ciò che manca, dice con inusitata saggezza un’importante critica gastronomica nel film Boiling Point di Philip Barantini da poco visto: massima cui un buon critico, anche al di fuori dell’arte culinaria, dovrebbe sempre attenersi e regola ferrea che chi scrive ha cercato in ogni modo di rispettare. Perché il confronto con ciò che si vede a teatro – ciò che c’è – non può mai esser confrontato con altri allestimenti già visti, o con il fantasma di ciò che pensiamo debba essere l’ideale allestimento – ciò che manca – pena l’inevitabile tradimento della mission fondamentale del recensore: riferire il più fedelmente possibile la realtà di ciò che si è visto. Ci sono casi, tuttavia, come quello di cui parliamo – Uno sguardo dal ponte, celeberrimo lavoro di Arthur Miller, visto al Teatro Piccinni di Bari, per la regia e l’interpretazione di Massimo Popolizio – in cui tener fede a questo sano proposito diventa piuttosto problematico. Ma andiamo con ordine, così sembrerà più chiaro ciò che intendo.

Arthur Miller scrisse la sua pièce nel 1955, periodo in cui il suo nome era sulla bocca di tutti per due motivi principali: il suo essere nel mirino del Senatore McCarthy e il suo matrimonio con tale Norma Jeane Baker, in arte Monroe, e pagava in tal modo il prezzo per essere, all’epoca, il drammaturgo più brillante del momento, colui che sapeva affondare il coltello senza esitazioni nelle piaghe del sistema. La storia di Eddie Carbone, immigrato italiano, conobbe una gestazione lunga e travagliata, un fatto di sangue, tutti i particolari in cronaca, avviene qualche tempo prima e rimane nella coscienza dell’Autore per molto tempo, come la tragedia di mezzagosto in Calabria nei ricordi di Leoncavallo, un nido di memorie, un atavico e anacronistico ritorno alle origini perdute, al Mito: “quando sentii questo racconto per la prima volta mi sembrò di averlo già ascoltato, tanto tempo fa… Pensai che fosse la ripetizione di un mito greco, la cui eco risuonava nel fondo della mia mente. Non sono riuscito a trovare quale mito fosse, ma la convinzione persiste…”.

Perché l’orrore per il sangue versato incide inevitabilmente sulla riflessione del poeta, gli uomini protagonisti della storia sono “clandestini”, partiti “per così dire, duemila anni fa”, l’intrecciarsi delle loro vite “sembrava quasi l’opera di un fato”. Alla fine ne scrive la storia “per scoprire i sensi reconditi, ma a tutt’oggi non li ho scoperti tutti, tanto ch’io provo ancora un certo stupore, una sensazione di attesa che deriva, credo, dal fatto di essermi in qualche modo imbattuto in un racconto incantato”. Così, insieme all’amico Elia Kazan inizia a scrivere una sceneggiatura, poi abbandonata, nei primi anni ’50, sui bassifondi portuali di New York, nell’asfittica e turbinosa metà del Secolo Breve, ma gli avvenimenti incalzano, il comitato per le attività anti americane chiama i due ex amici a deporre, in uno di quei momenti così decisivi per la vita di un uomo: così c’è chi in quelle occasioni vacilla, cede, altri resistono.

Qualche anno dopo, se Fronte del porto fu il plastico frutto della riflessione di Kazan, tragica arringa in disperata difesa della denuncia e del tradimento, Miller portò sulle scene, con Uno sguardo dal ponte, la posizione di chi non giudica e non condanna, semplicemente osserva “incantato” lo scontro fra diverse esigenze, ciascuna con le sue ferree e imprenscindibili leggi: la prima, quella dell’istinto, richiama all’insopprimibile libertà di espressione, la seconda è quella del sottomondo degli immigrati italiani, che rimanda alla dignità e all’onore degli ultimi, degli scarti della terra, l’ultima, infine, la legge dei popoli civili, fatta di tribunali e non di coltelli, perché da noi si osserva la legge, nessuno si fa più giustizia da sè. Nell’impossibilità della scelta tra queste istanze parimenti importanti e vitali, andiamo tutti in confusione, sembra dire Miller, non solo il povero Eddie, che si danna “senza sapere perché”, seguendo il filo di una tragedia che “non si propone di strappare lacrime o risate, ma di sottolineare lo stupore che ci dà la corsa di un uomo verso la completa rovina”.

Per questo tentò di narrare questa storia intrisa di sentimenti forti ma anche di sottesi interrogativi esistenziali prendendone, per quanto possibile, le distanze, affidando ad un narratore in qualche modo estraneo alla vicenda, l’avvocato Alfieri, considerazioni, pensieri, punti di vista che sono propri dell’Autore. Tuttavia, dopo le prime rappresentazioni a New York, nel settembre 1955, si rese conto che proprio l’assenza di partecipazione, la sostanziale estraneità dell’Autore rispetto ai personaggi costituiva un effettivo artifizio: per questo motivo riscrisse la pièce, portandola sulle scene, articolata in due atti, invece del primitivo atto unico, a partire dall’ottobre del 1956 a Londra e questa è la versione definitiva che conosciamo e che è stata portata anche in Italia, se ne ricorda una versione storica per la regia di Luchino Visconti al Teatro Eliseo nel 1958, poi, nove anni più tardi, nel 1967, fu Raf Vallone a portarla sulle scene da regista e interprete, e questo allestimento è significativamente importante perché Vallone era stato, due anni prima, anche interprete della versione cinematografica di Uno sguardo dal ponte, per la regia di Sidney Lumet.

Cosa che per noi, al di là del puro ricordo, potrebbe non essere di particolare interesse, se Massimo Popolizio non avesse esplicitamente indicato l’origine del suo lavoro proprio da quel film del 1965, accanto al dramma teatrale. E poi perché il Lumet degli anni Sessanta – in parte riscattato da quello successivo – è il campione del middle-brow, “piacevolmente impersonale”, come lo definiva Andrew Sarris, cui si riconosceva gran capacità nella direzione degli attori, in uno con l’efficacia astratta di filmare dal punto di vista di nessuno, lasciando purtroppo spazio eccessivo agli esibizionismi della star di turno, da Rod Steiger ad Al Pacino.

Difetti e virtù tutte che è possibile riscontrare anche nel suo Sguardo dal ponte, aggirando in qualche modo l’invece avvertita scrittura milleriana. “Tutta l’azione è un lungo flashback” dichiara Popolizio “Eddie Carbone, il protagonista, entra in scena quando tutto il pubblico già sa che è morto. Per me è una magnifica occasione per mettere in scena un testo che chiaramente assomiglia molto a una sceneggiatura cinematografica, e che, come tale, ha bisogno di primi, secondi piani e campi lunghi. Alla luce di tutto il materiale che questo testo ha potuto generare dal 1955 a oggi, cioè film, fotografie, serie televisive credo possa essere interessante e “divertente” una versione teatrale che tenga presente tutti questi “figli”. Una grande storia… raccontata come un film… ma a teatro. Con la recitazione che il teatro richiede, con i ritmi di una serie e con le musiche di un film”.

Costruisce così, con l’aiuto della matita di Marco Rossi, la scena già descritta, che molto ricorda la casa e i mobili italiani, la credenza d’abete piuttosto che i componibili del tipico American way of Life, un feticcio, un ricordo custodito come si conserva una ciocca di capelli di un bambino, in alto lassù, dominante come un’oscura divinità, il ponte di Brooklyn incrocia le povere vite che si offrono nude al nostro sguardo su su fino all’ultimo molo dove comincia il mare aperto, indicando tuttavia una strada, una direzione obbligata, dove quelle povere povere cose non hanno posto né senso. E tuttavia quei mobili diventano pure città, quartiere, Saxon Street, vicoli bui in cui gli immigrati, i clandestini di nascondono alla polizia, in un passaggio – molto efficace, lo riconosco – da scena a scena, da contesto a contesto, sempre senza cesure e soluzione di continuità, un unico brodo primordiale in cui si agitano passioni e disperazioni, culture diverse e a volte avverse.

Se Miller aveva utilizzato l’espediente dell’asettica osservazione dei fatti, come un’entomologo la lente d’ingrandimento, per costruire un provvidenziale filtro, una mediazione dovuta e necessaria tra i fatti e le emozioni, si serve invece Popolizio del registro aspro e impuro del grottesco per stemperare l’apparente dimesso realismo anni ’50 dell’Autore, sale sopra le righe, trabocca, si fa il più macho possibile per disegnare la figura di Eddie Carbone, scaricatore sulla quarantina, duro, un po’ appesantito e per render ragione a noi di come da uomo giusto, diventi lentamente, in virtù del senso dell’adolescenza, della fanciullezza di lei, e degli anni che passano, quello sbagliato, quello che fa le cose ingiuste, col passare delle settimane, mentre cresceva un tormento che non accennava a sparire.

E certo la chiave di lettura utilizzata è utile, dovrebbe esserlo, pure per leggere questa storia alla luce della nostra quotidianeità, dove ci imbattiamo ogni giorno in questo tipo di problemi e dinamiche, i migranti e il loro sogno d’integrazione, le loro esigenze e le nostre leggi, la nostra troppo corta memoria delle cose e delle situazioni: dovrebbe, il taglio e il ritmo del cinema e delle serie, in fondo aprirci una porta alla comprensione, renderci più masticabile la pillola amara, permetterci di capire e, chi può, di amare. Così il lungo flashback, i sapienti tagli di luce, i movimenti “danzanti” delle comparse, i freezer frame che interrompono l’azione; poi una sorta di soundtrack, pur se talvolta ingenuo, che quell’azione sottolinea ed esplicita, e che ama nutrirsi, vero tappeto sonoro, di contrastanti musiche, le siciliane della tradizione e il rock dei Cinquanta, in un excursus che va da Ridi, Pagliaccio al Paper Doll citato nel testo, ballabili e tragici, e poi tuoni e fulmini, il treno che passa sul gran Ponte sferragliando, fino alla grande, popolare Marcia funebre per banda di paese nel momento più tragico del sangue; tutto questo armamentario certamente più tipico del cinema che del teatro, trattato con ironia, dovrebbe permetterci di entrare meglio dentro quei tormenti e quelle inquietudini.

Certo, è sempre difficile far cinema in teatro, non è certo una novità, in molti ci hanno provato, con alterni esiti: diciamo che in questo caso il tutto mi è sembrato – e qui confesso il mio iniziale scetticismo – piuttosto efficace, ed è bene ogni tanto cambiare idea, contribuendo alla riuscita complessiva dello spettacolo. Che tuttavia poggia le sue ragioni prima di tutto sulla maestria degli interpreti nel rendere efficace e attuale un capolavoro del teatro del Secolo breve, i cui temi, dal fenomeno migratorio al sessismo, dal Melting Pot all’integrazione, sono ancora molto vivi oggi.

Così Valentina Sperlì ci restituisce una Beatrice che percorre con crescente rabbia e determinazione una parabola eguale e contraria a quella del marito, dall’indeterminazione alla consapevolezza, scandagliando con intelligenza lati meno esplorati di questo personaggio, a metà del guado verso l’integrazione col “mondo nuovo”, mentre Gaja Masciale, molto applaudita alla fine, sa trovare con sapienza smaliziata, insolita per i suoi giovani anni, il giusto tono per l’interpretazione del complesso personaggio di Catherine, colto nel passaggio tra adolescenza ed età adulta, tra abbandono d’affetti infantili e costruzione d’amori maturi, gioie improvvise e repentini corrucci.

Applausi anche per l’avvocato Alfieri, voce narrante e, come detto, personaggio dietro cui si nasconde l’Autore e la sua voglia di capire, che Michele Nani riesce, col gesto eloquente, con la voce arrochita, con la caratterizzazione d’una geniale zoppìa, a togliere dall’ipoteca del “divulgatore scientifico”, per farlo diventare una appassionata guida alla comprensione, in ogni senso, mentre i due fratelli Marco e Rodolfo trovano rispettivamente in Raffaele Esposito e Lorenzo Grilli interpreti ideali che riescono a caratterizzare a perfezione i due personaggi puntando, com’è giusto, tutto sulla fisicità, oscura e violenta nel primo caso, chiara e gioiosa nel secondo, che si segnala pure per la grande duttilità richiesta, risultando alla fine puntualmente credibile anche come cantante e ballerino.

Vero centro di tutta la pièce è naturalmente Massimo Popolizio, il cui Eddie Carbone è perfettamente centrato, tanto da meritarsi perfino applausi a scena aperta: credo che l’intento di Miller sia stato quello di presentarci un personaggio che, nonostante le sue evidenti negatività, riesce tuttavia, in qualche modo e attraverso modalità non sempre intellettivamente chiare e spiegabili, a risultare per molti versi perfino portatore, se non di istanze positive, quantomeno di dubbi e incertezze che potessero in qualche modo scalfire e incrinare le certezze del pubblico newyorkese dell’epoca.

Ebbene, credo che Popolizio sia riuscito a compiere lo stesso identico percorso nei confronti del pubblico odierno, incrociando le nostre strade, nella nostra contemporaneità. Che poi è, dovrebbe essere, il compito di ogni regia che si rispetti, al di là della trovata del momento o della soluzione piacevole, fino a farci pensare che forse esiste un paradiso – oppure qualcosa di simile – perfino per chi tradisce, per chi pecca nel nome di una legge altra, diversa, dai meccanismi incomprensibili, dipende, forse no, sarebbe troppo comodo, altrimenti, dove si va a finire?, ci sono crimini cui non è concesso altro perdono se non sangue che ribolle e che alla fine sgorga e lava, purifica, assolve: la morte ha sempre molteplici aspetti, è addio ma pure inizio, seme che germoglia, lezione impagabile che serve, nonostante tutto, la vita.

Forse, chissà, il Dio della Misericordia lascerà che fiorisca il suo sentiero pure per chi sbaglia, piangendo quest’uomo con tanta, lo confesso, inquietudine, sotto quel gran Ponte lungo il quale il nostro sguardo si perde per la lontananza  e la nostra miopia. E questo spiega – tenta, perlomeno, di spiegare – come certe volte sia difficile, forse impossibile, mettere insieme una dignitosa recensione utilizzando solo quel c’è, senza tener conto di quel quid che inevitabilmente, a volte, solo a volte, avviene in teatro, e che ti permette di andare oltre la mera apparenza dei fatti, l’asciutto resoconto di ciò che hai visto e sentito, oltre quello che tu stesso avevi in mente quando sei venuto qui, stratificazione di quel che hai visto e vissuto, oltre, perfino, un testo drammaticamente struggente dall’indicibile vitalità e attualità: si chiama, semplicemente, arte.

Uno sguardo – inquieto e struggente – dal ponte incantato
Fermata Spettacolo



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