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I minacciosi invitati al (non)Compleanno

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I minacciosi invitati al (non)Compleanno
Fermata Spettacolo

Scriveva Calvino in una preziosa recensione di tanti anni fa, quasi enciclopedia minima del fantastico, che a volte «il soprannaturale è solo in una connessione o sconnessione misteriosa che si delinea tra i fatti di tutti i giorni»: credo sia una considerazione che ben s’attaglia a questo Compleanno di Harold Pinter diretto da Peter Stein, visto qui al Piccinni di Bari. Perché ad una regia di Stein non si assiste, si è obbligati a partecipare rendendosi complici del mistero del teatro, che è fatto di mille attimi creativi che si susseguono, sempre uguali ogni sera, sempre tuttavia diversi.

Misteriose connessioni (o sconnessioni), appunto. Perché è impossibile star qui seduti sulla propria poltroncina e non ripensare alla lontana ma non smemore stagione di sogni e di utopie del sessantotto tedesco, la vecchia scuola Schaubühne am Halleschen Ufer fondata insieme a Bruno Ganz e Otto Sander, il rinnovarsi profondo del teatro germanico e della vecchia ma, evidentemente, ancora vitale, Europa, la densa e complessa interpretazione dei testi che sposa l’invenzione spaziale rivelatrice e profetica. Insieme a Edith Clever, Jutta Lampe, Michael König inseguì un miraggio in cui fosse veramente possibile, grazie al potere dell’immaginazione, disegnare un mondo nuovo, ricavato scavando crepe nel muro dell’indifferenza e del benessere sociale: metafore del potere in azione viste attraverso Brecht, Goethe, von Kleist, Shakespeare e, naturalmente Harold Pinter.

Dell’inquieto poeta inglese aveva già messo in scena, una decina d’anni fa, Il ritorno a casa, ora Il compleanno, la sua prima commedia, quantomeno la prima che abbia un canonico inizio e una fine: Il compleanno ha sessantacinque anni giusti giusti, quella che una volta era l’età d’inizio della vecchiaia. Non si può certo, dunque, considerarlo una freschissima novità, e d’altra parte gli amanti del teatro hanno sempre con relativa tranquillità accettato, almeno dopo un po’, le avanguardie nel repertorio, al contrario, per esempio di quel che è successo con la musica, considerato che quella dodecafonica è tuttora vista con illegittimo sospetto dal pubblico ai concerti. Così Ionesco e Beckett sono di routine in qualunque teatro e così pure il Nobel del 2005, in cui però solo i primi lavori, quelli della splendida giovinezza, son da considerare tra i capolavori del cosiddetto “teatro dell’assurdo” – variante “minaccia” – avendo poi per il resto scritto un po’ di tutto, usando qualsivoglia mezzo espressivo. In questo, perfetto esponente della nostra contemporaneità.

Così questo primo lavoro ha molte Delle caratteristiche del migliore Pinter, quello che di lì a poco verrà indicato come pinteresque: la suspense – che lui aveva ben studiato quando in gioventù era stato attore di una piccola compagnia che metteva in scena un po’ di tutto, anche gialli e noir – che monta in un contesto che parte da una assoluta, “innocente” normalità per condurci lentamente, rimescolando carte e situazioni e pensieri, ad un mondo che perde lentamente i caratteri d’ogni realismo per approdare alla negazione più completa d’ogni logica. In altre parole il meccanismo è quello di un noir, i contenuti rimangono invece molto più problematici, perché importante non è il racconto, la trama, la narrazione, bensì le contrastanti emozioni che l’accompagnano, le tensioni, il disagio che, al di là delle particolari situazioni, ogni abitante della contemporaneità può e sa riconoscere “sue”: la grottesca festa di compleanno dell’enigmatico Stanley è solo il pretesto per mettere in scena la follia, la miccia per far esplodere, insieme, uomini e cose. Teatro della “minaccia”.  Vediamo allora, appena entrati nella sala del teatro, sul palcoscenico la scena, semplice e impenetrabile insieme nella sua essenzialità, disegnata da Ferdinand Woegerbauer, una cornice di mattoni cinge una parete verde marcio che dà accesso, da una parte, ad una porta e ad una finestra in successione, stile inglese, griglie di vetro sepimentate da sottili lamelle di legno, dall’altra un varco e una finestra senza infissi aperta su una cucina, intravediamo all’interno un frigorifero, un lavello; al centro un tavolo con sedie: un comune soggiorno di una qualunque casa British.

Chissà se l’inferno ha la stessa apparente calma piatta di questo routinario soggiorno del bed & breakfast di Meg e Petey, dove la noia si stempera nella coazione a ripetere ogni giorno gli stessi meccanici gesti, le identiche sfumate parole, perfino i medesimi vuoti pensieri, il giornale sempre lo stesso, la colazione, il martirio dei giorni pari, la tristezza di quelli dispari, il grigio che sposa il verde marcio, i corn flakes e il pane fritto, il latte e il the, la nebbia e il cuore disabitato, stanchezza e sonnolenza; l’impossibilità di comunicare non è il silenzio, non sono le pause che, pure, come in una partitura musicale, sono distribuite ad arte nel corso delle pièce, l’incomunicabilità può nutrirsi, pure, voracemente, di parole.

Parole organizzate in discorsi meccanici, superficiali, vuoti, perché comunicare è un passo oltre: si parla di uno “spettacolo di prosa” dove non si balla, non si canta, chissà che si fa. L’unico ospite – sembra quasi che la locanda sia nata solo per lui, anzi attorno a lui – Stanley (che trova perfetto interprete nello stralunato e straordinario Alessandro Averone, che riesce ad assumere su di sé, come seconda pelle, fragilità e incertezze del personaggio) che con la sua maglia slargata sembra un malcresciuto Charlie Brown (i costumi vivaci e molto old England vengono dalla matita di Anna Maria Heinreich), accosta arroganze e tenerezze, disillusioni e trasporti, sottratto com’è al mondo esterno, quasi Hikikomori ante litteram se non fosse per la sottesa angoscia ben dissimulata che tuttavia traspare, di tanto in tanto, come l’acqua piovana dalle crepe sul tetto, goccia a goccia, tenue, insistente, irritante. È stato pianista in un passato che ormai sa quasi di leggenda, suscitando l’interesse di Meg, ma ora non suona più, non ha il pianoforte, forse non ne avrebbe nemmeno voglia, è un anno ormai che sta qua.

Meg (che Maddalena Crippa, eccezionale nella descrizione della chiassosa quotidianeità, interpreta con un che di disforica avvenenza, passando dalla sciatta e informe massaia del primo e terzo atto alla donna avvenente e quasi provocante del secondo, pur restando sempre fedele al personaggio), la padrona, ha la mezza età della donna disinteressatamente scrupolosa e querula, importuna e chiacchierona, obliquamente oscilla tra provocazione e riluttanza; Petey (restituito dall’eclatante maschera sorniona e taciturna di Fernando Maraghini, che compie, in silenzio, un lavoro tale sul personaggio tale da sembrare l’unico, alla fine, ad avere piena consapevolezza di quanto successo, pur “serbando queste cose nel suo cuore”) sembra ordinariamente assente, evita con abile slalom le possibili complicazioni, affidandosi al rito dei gesti usuali, tenendosi lontano con destrezza consumata dagli scogli e dagli ostacoli, “dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai”. Sono la perfetta sintesi del nulla universale, dietro le finestre e le porte all’inglese dai vetri lievente azzurrati, che tuttavia, e lo senti scorrere sulla tua pelle come un sottile brivido, anima le tue ossa d’una tensione sotterranea e taciuta, buia nella sua intima essenza e tuttavia come mossa da una luce lontana e spaurita che, improvvisamente, inopinatamente, irrazionalmente, arde, scompagina, violenta, spezza ogni precedente (in)certezza, qualsiasi supposta catena, qualunque argine faticoso.

La voce diventa rumore, ronzio, la calma minaccia, la nebbia abbagliante, il cuore aritmico. “Due uomini mi si sono avvicinati sulla spiaggia”, dice Petey, sembra notizia poco degna di nota, all’inizio, come l’aver incontrato il droghiere, o il postino, nonostante le esclamazioni d’esagerato stupore di Meg, possibili clienti, passeranno per vedere. E passano, infatti, Goldberg e McCann, che Gianluigi Fogacci e Alessandro Sampaoli interpretano sapendo giocare alla coppia celebre, dal poliziotto cattivo/poliziotto buono ai Blues Brothers cui anche visivamente fanno di tutto per somigliare: se Goldberg è pingue, più maturo, loquace, quasi malevolmente magniloquente nella sua sorvegliata bonarietà, da quel che dice qua e là lo diresti poliziotto o spia, McCann è, al contrario, giovane, facile alla collera, spesso incerto sul da farsi, anancasticamente riduce pagine di giornali a strisce, affiora un suo recente passato di prete spretato.

Subito la tensione s’innalza, diventa palpabile, perché Meg ha avuto cura, intanto, di inventarsi il compleanno di Stanley, faranno una festa la sera, si giocherà e si ballerà, Meg porta anche una scatola con il regalo per Stanley, un tamburo, non potendogli regalare un pianoforte. La festa del compleanno prende tutto l’atto centrale, anche se non si sa bene se è poi sul serio il compleanno di Stanley, forse no, o forse magari sì, chissà, ma a festeggiare arrivano i due signori di cui sopra e la giovane donzella amica di Meg, Lulu (cui presta spirito e avvenenza Emilia Scatigno, che sapientemente interpreta la gioventù anni ’50 un passo prima del boom, divisa in se stessa tra emancipazione e tradizione); è qui che la commedia scivola sempre più sul versante assolutamente meno realista, tra interrogatori incongrui, violenze gratuite, tentativi di stupro, mentre Meg canticchia il valzer della Vedova allegra: è qui, tuttavia, che la pièce ha il suo centro e anche la sua ragion d’essere, grazie anche all’arte, propria di Pinter, di scrivere per sottrazione, cercando di sottilmente eludere ogni possibile contingenza, al tempo stesso costruendo personaggi del tutto fuori da ogni confronto, ma al tempo stesso concreti, in cui potersi rispecchiare nonostante la follia, o forse proprio per questo, perfetta cartina al tornasole delle nostre manie e delle paure per cui spesso non dormiamo la notte. Il tutto, naturalmente, condito da una buona dose di ironia, senza la quale la tensione non reggerebbe, perennemente in bilico tra orrore e risata.

Il terzo atto, della desolazione postfesta chiude il cerchio, tornando alla (felice?) normalità dell’inizio, omaggio ad una concezione perfettamente ciclica della storia e alla indifferente capacità del Sistema di digerire ogni anomalia e ogni possibile devianza. La regia di Stein ha il gran merito di render la vicenda, per certi versi così estrema, di Pinter, trasparente, scoperta nel suo perfetto meccanismo teatrale, in tutte le sue possibilità, anche e soprattutto ironiche. Il lavoro sulla parola e sugli attori mette in luce quella che è una caratteristica peculiare del pinteresque, l’estrema cura nella costruzione dei dialoghi, in cui i desideri e le speranze, i giudizi e i lamenti continuamente rimpallano dall’uno all’altro dei sei personaggi, incrociandosi, rispecchiandosi, contraddicendosi in un gioco ambivalente in cui è del tutto inutile cercare anche solo una parvenza di verità.

Perché, come Pinter affermò nel discorso di accettazione del Nobel nel 2005, una cosa è la verità nell’arte, in cui  vero e falso sono intercambiabili ai fini dell’esplorazione della realtà, fino al paradosso in cui una stessa cosa può essere al contempo vera e falsa, altro è la verità in politica: come cittadino non posso sostenere che vero e falso siano intercambiabili, come cittadino ho l’obbligo di chiedere: cosa è vero? cosa è falso? E così non puoi fare a meno di domandarti, mentre osservi la messa in scena delle paure e delle minacce degli anni Cinquanta inglesi, quanto possano quelle stesse angosce dire qualcosa al nostro quotidiano: e basta poco per accorgerti di come siano, tutto sommato, tornate pericolosamente, inconsultamente, desolatamente attuali, da quelle più propriamente British – la perdita dell’identità imperiale allora, dopo la guerra, le incognite della Brexit oggi – a quelle universali, la paura delle epidemie mortali, della guerra, del rischio atomico, in questi nostri giorni per tanti, troppi versi così simili a quelli chiusi e asfittici della metà del Secolo breve.

Più di sessant’anni dopo siamo di nuovo nel momento massimo di tensione nucleare; negli anni appena passati le minacce erano forse altre, quella terroristica, oggi forse attenuata, e quella climatica: minacce “lente”, ma oggi il rapporto con la paura è cambiato: la prossimità che abbiamo con eventi anche lontanissimi cambia il nostro livello di angoscia, porta presto a indifferenza o anche semplicemente rimozione, meccanismi di difesa per la nostra salute mentale. Sì, gli invitati per il nostro personale (non)compleanno ci sono tutti, sarà una bella festa.

I minacciosi invitati al (non)Compleanno
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