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Salome, nera come la luna, rossa come il sangue

Salome, nera come la luna, rossa come il sangue
Fermata Spettacolo

Guizza l’ocra dei riflessi ferrigni dell’ematite e della limonite che rifulge sulle ombre di terra e muschio: il vestito di Salome è l’unica – e vistosa – macchia di colore – oltre al vermiglioso sangue – che anima un mondo altrimenti intimamente scisso nel bianco latteo e nel nero cupo. A Bari, al Teatro Petruzzelli, arriva la tormentosa Salome di Richard Strauss riletta da Damiano Michieletto e ripresa da Tamara Heimbrock, l’allestimento che è diventato, per forza di cose, simbolo del teatro in musica in tempi di Covid: realizzata per la Scala, doveva andare in scena nel marzo 2020 quando, come ricorda lo stesso regista “ci dicevamo: forse andiamo in scena fra una settimana o due, e nessuno aveva capito niente di questo Covid”. Il suo debutto venne rimandato al 2021, ma Zubin Mehta si ammalò e venne sostituito da Riccardo Chailly che diresse da una piattaforma in platea, a teatro chiuso al pubblico, un’orchestra a ranghi ridotti in una memorabile diretta televisiva. 

L’opera è andata poi in scena alla Scala a gennaio di quest’anno e un mese e mezzo più tardi è arrivata qui a Bari, quasi a sottolineare e ribadire la rottura di un perverso incantesimo che teneva prigioniera la schön Prinzessin lontano dagli occhi di chi siede in platea, una conferma di come das Geheimnis der Liebe ist größer als das Geheimnis des Todes: veramente il mistero dell’amore è più grande del mistero della morte, soprattutto perché oggi possiamo, dopo centovent’anni dalla composizione, forse ascoltare le parole di Oscar Wilde e la musica che esse stesse “reclamano”, come dice Strauss, senza sovrastrutture di ciarpame pseudomoralistico (da una parte) e pseudolibertario (dall’altro) che ne hanno inficiato piena comprensione e fruizione per troppo tempo. 

Perché Salome è il Novecento: nel 1900 Tosca fece da battistrada, seguita da Pelléas et Mélisande nel 1902 e da Salome, appunto, nel 1905, il segnale di novità è talmente allarmante, dal punto di vista armonico, melodico, strutturale, ritmico, da essere inevitabilmente rifiutato, osteggiato, negato, denunciando la perdita di ogni conosciuto riferimento e insieme l’inevitabile spaesamento nel cercarne di nuovi. 

Così è di fatto impossibile leggere questi premiers fruits del Secolo breve indipendentemente dalla cultura che in quell’alba di secolo si andava affermando, sia in campo artistico, tendendo a “rivestire l’Idea di una forma sensibile”, sia scientifico, come “segno di processi istintivi elementari”. Nell’assumere integralmente il testo di Oscar Wilde, praticamente senza alcun taglio, di fatto Strauss ne declina, allora, integralmente, il punto di vista, la prospettiva fortemente simbolica, uno sguardo sul mito che inevitabilmente si fa epica, metafora, allegoria che “non abbraccia e non spiega, ma accenna, al di là di se stesso, a un significato ancora trascendente, inconcepibile, oscuramente intuito”. 

In questa prospettiva, lo sguardo del regista cerca per l’appunto di districarsi in mezzo alla selva di simboli, segni palesi o sottaciuti che rinviano ad una inesauribile alterità, tensione che permea tutta l’opera: sappiamo che per Damiano Michieletto, non più enfant prodige dell’italica scena – non più condannato, dunque, all’eterno stupire – cimentarsi in una regia significa avere un progetto, che non si esaurisce in mirabolanti immagini e neanche nel realizzare belle idee, ma assumere solide fondamenta interpretative e su queste cominciare a costruire una drammaturgia che si muova parallelamente alla storia e che sia in grado di seguire un percorso in sincrono con la musica e con le parole, apportando forti segni interpretativi ed estetici. 

Costruisce, allora, la scena, come una sorta di scatola bianca, la diresti una camera oscura dalle nere pareti se non fosse per il candore omogeneo che la caratterizza, invece, in alto e in basso, interrotto solo dall’intuizione di sagome di circonferenze, buche, fori, abissi pronti ad aprirsi su mondi altri: all’inizio diventa l’ampia terrazza in casa del Tetrarca mentre all’interno si svolge il banchetto, la luce bianca della luna, lo sguardo innamorato del giovane Narraboth in grigio fantasia è acuto, quasi ingenuo Nella sua tenerezza, tutto assume un colore iperealista, annoiata dai verbosi discorsi dei giudei e degli egizi e dalla protervia dei romani, Salome esce in terrazza col suo vestitino ocra. È orfana di padre, la principessa, la sua vicenda ci viene esplicitata sulla parete di fondo, prende forma di albero genealogico, la madre ha ucciso il padre e si è risposata con il cognato, in fondo è questa la radice di alcuni grandi miti che da sempre hanno nutrito la fantasia – e gli orrifici timori – degli umani. 

C’è qualcosa di molto arcaico, al di là dell’apparenza contemporanea, in ciò che si dipana sotto i nostri occhi, sul fondo della scena le angosce ancestrali di Salome, paura senza oggetto e senza volto, prendono corpo nella visione di lei bambina, il desiderio pedofilo del tetrarca, ricordi rimossi s’incarnano infine nella voce di Jochanaan, le famose quarte discendenti creano inevitabilmente una sorta di angustia misteriosa in chi ascolta ma suscitano anche curiosità, desiderio: può essere pericoloso far riemergere dal pozzo nero della storia – della propria storia – ciò che vi avevamo chiuso perché insopportabile, dolorosamente colpevole, in quell’innominata foiba la Madre serrò il Padre prima di farlo morire, l’esilio lontano dalla consapevolezza e dalla coscienza ha il suo tornaconto, consente di vivere un’apparente “normalità”. 

L’ascesa di Jochanaan dalla cisterna dov’è rinchiuso toglie ogni residuo di realismo alla scena, dall’alto, parallelamente, scende una sfera nera, luna oscura del desiderio: la regia, coadiuvata dalle scene essenziali di Paolo Fantin  – riprese da Francesca Amato – crea un algido mondo illuminato dall’esangue luce lunare e ammorbato dal frullar dell’ali nere degli Angeli della morte e rinnova, in fondo, il rito centrato sul mito lunare della luce fredda che non si scalda mai, in cui le frigide profferte di sesso della gelida principessa di Giudea, verginale reincarnazione di Lilith, miseramente falliscono di fronte all’altrettanta freddezza del profeta, riflettendo una concezione narcisista d’autoerotismo di gran lunga figlia della modernità ormai novecentesca dell’autore, com’è giusto che sia, più volentieri che del fondante evangelico, attenendo piuttosto al Mito che alla Storia: il nome di Gesù, il Cristo, non viene mai pronunciato, sebbene parlino di lui sia il profeta sia i giudei; egli è sempre Colui che verrà o che pure è qui tra noi, un profeta, fors’anche il Messia, mai una persona reale con nome e cognome. 

Così è un agnello bianco insanguinato quello che Jochanaan mostra in grembo, confermando l’intenzione di Michieletto di raccontar la storia di Salome affidandosi ai simboli piuttosto che agli oggetti reali e tangibili: strano destino, se si considera che questa è l’opera dove più che in altre la forza travolgente del kitsch ha imperversato, in questi centoventi anni di rappresentazioni, qui tutto è molto più stilizzato, prevale la forza comunicativa e universale del simbolo sul dato di realtà, sottolineandone la sua caratteristica di via di accesso più importante all’inconscio da parte della coscienza, senza perdere, tuttavia, alcunché sul versante della passione. 

Saranno dunque gli albini e ciechi angeli della morte dalle ali oscure a guidare Salome nel faticoso e doloroso tentativo di riappropriazione della vita che le è stata tolta, il calice d’oro del sangue eucaristico sarà versato sull’Agnus Dei, e alla fine, dopo aver vomitato strati e strati di terra nera la buca restituirà alla luce la tomba del re Erode, padre di Salome, in un cortocircuito che salda emotivamente il passato e il presente, tracciando un itinerario di progressiva liberazione e consapevolezza. 

In questo senso Salome assurge, da mito evangelico, a icona della presa di coscienza delle proprie personali pulsioni e dell’origine delle proprie nevrosi: disagiato percorso che culmina nella danza dei sette veli che allora, nelle intenzioni registiche, è riappropriazione del proprio passato e delle violenze subite più che strumento di seduzione per ottenere la testa del profeta, l’ultimo deformato valzer dell’estrema stagione viennese occasione – in linea perfetta con i propositi di Strauss – per esprimere finalmente, al di là di ogni possibile repressione borghese, la propria natura femminile sensuale e libera: un abito argentato si presenta all’epilogo, man mano che Salome lo trascina dal proscenio, si allungano scie di fiori rossi, suggestiva figurazione d’incolpevole perdita dell’innocenza. 

Diamo atto al regista di aver finalmente indicato, nella rappresentazione di questa scena, croce e delizia d’ogni allestimento di Salome, “non esibizionismo erotico, ma pittura del più intimo di una anima”, come dice Otto Erhardt, notando come lo stesso Autore, venticinque anni dopo la prima, bandisse, da questa scena, ogni sensualità, esigendo pose ieratiche in stridente contrasto con la sua stessa musica dionisiaca: perfetto rito iniziatico di “svelamento” di sé stessi, piuttosto che strumento di soddisfazione della pruderie voyeuristica del regista di turno. 

Sappiamo tuttavia che per il personaggio di Salome non potrà esserci salvezza, non ci sarà alcuna “nascita a vita nuova”, l’abisso si spalancherà per lei dopo il bacio fatale con il teschio paterno, perentorio e illusorio tentativo, grottesco e inane, di fusione con l’altro da sé. 

Una rappresentazione, dunque, tesa e potente, quella di Michieletto, che si serve anche di immagini e suggestioni proprie del Novecento, simboli non fallaci del disagio esistenziale che ha accompagnato l’umanità nel suo viaggio attraverso il Secolo breve, in una personale èkphrasis tutta sua: così, oltre alla nota rappresentazione de l’Apparizione di Gustave Moreau, con la testa del Battista che appare a mezz’aria contro un disco metallico e circondata da raggi di luce, perfettamente riprodotta nel finale, le atmosfere del banchetto sono ineccepibile citazione di quelle hopperiane, nella drammatica estraneità dell’iperrealismo  dell’incomunicabilità inespressiva; facile intravedere invece lo sguardo ammiccante di Balthus nella bambina oggetto del desiderio del patrigno in veste da camera, mentre ritroviamo i tratti delle maschere africane prediletti dal Picasso delle Demoiselles d’Avignon nelle minacciose figure maschili della danza dei sette veli: menzioni, frammenti, echi, contaminazioni, suggestioni che ci riportano alla solida contemporaneità novecentesca di questo allestimento. 

Che si avvale, poi, di notevoli apporti, com’è ovvio, anche sul versante più strettamente musicale. La direzione di Hartmut Haenchen, alla guida dell’ineccepibile Orchestra del Teatro Petruzzelli, ha il pregio dell’autorevole diligenza, servendo tuttavia a perfezione la ricercata passione della partitura, insieme alla sua esemplare eleganza. 

Sullo stesso piano si muovono pure gli interpreti, variamente impegnati a restituirci sangue e anima dei rispettivi personaggi, a cominciare dai comprimari: ottimo, per esempio, e molto applaudito, il Narraboth di Joel Prieto, sobrio e tenero com’è giusto che sia, pur se Michieletto lo fa morire di più modesto veleno piuttosto che d’eroico pugnale. E non è l’unica metamorfosi di personaggi, funzionale alla pervasiva regia, pure il paggio di Natalia Gavrilan si trasforma in una sorta di nutrice, al corrente d’ogni malefatta avvenuta nella reggia degli orrori, assumendo dunque toni e significati da coro che talora commenta, talaltra stigmatizza, sempre osserva e valuta. 

La coppia regale è ben assortita, la voce di Andreas Conrad, dal declamato perfetto e ben caratterizzato, rende appieno le deliranti paure superstiziose del tetrarca, e, insieme, l’irresolutezza tra il desiderio lascivo per la figliastra e la riluttanza tremebonda nel decapitare il profeta, in un crescendo di stridenti e risentiti capricci d’una ridicola personificazione del potere assoluto; Elena Gabouri interpreta la sua compagna di vita e crimini con voce che sa diventare puro brivido del suono quando si apre sulle note più alte trasudando insieme rabbia, irritazione, disprezzo, orrore. Risulta straordinariamente realistico e credibile il basso-baritono coreano Samuel Youn, nella sua umanità dolorosa, nella sua divina e terribile rabbia, senza ostentazione, grazie a una magnifica voce dal timbro seducente. 

Del tutto fuori dall’ordinario la prestazione di Jane Archibald, la cui interpretazione della protagonista è stata salutata, alla fine, da una vera ovazione: è un ruolo difficile, questo di Salome, sempre in precario equilibrio sia dal punto di vista musicale che drammaturgico, mi pare che il soprano canadese abbia ben padroneggiato le molte insidie della partitura, senza forzature e senza stanchezza. Soprattutto ne esce bene anche in quel finale, così complicato, Liebestod al contrario, come mi pare si possa a ben diritto chiamare, canto dell’amore attraverso la morte, resa dei conti definitiva tra Strauss e padre Wagner sospesa tra due dissonanze che aprono e chiudono un’epoca, in cui si è ritrovata a dialogare con un teschio, senza cedimenti all’horror, al ridicolo, al grottesco, degnamente chiudendo questa Salome, bianca come l’innocenza (perduta), nera come la luna, rossa come il sangue.

Salome, nera come la luna, rossa come il sangue
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