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Vivere: Anna Piscopo, la signora Cecioni e le altre

Vivere: Anna Piscopo, la Signora Cecioni e le altre
Fermata Spettacolo

C’è una canzone di Lucio Dalla che dice: In guerra con noi stessi, tra video e giornali e noi sempre più lessi a farci abbindolare, con la nostra indifferenza, la passione per le cose che non possiamo stare senza, anche le pericolose… Le cose pericolose sono quelle dalle quali non riusciamo più a separarci: oggetti inutili, ridicoli, talvolta rattoppati, scrigno di ricordi lontani, di un tempo in cui siamo stati felici e che non possiamo o vogliamo più dimenticare.

Che importa dopotutto se quel bel vestito dove abbiamo ballato al mare, quando eravamo giovani e senza pensieri, non ci entra più, o se quella tessera scaduta della biblioteca dell’università, l’abbiamo conservata solo per ricordarci di quel timido ragazzetto che fissavamo in silenzio, andando a studiare per finta nella facoltà sbagliata.

Ma che succede quando quei ricordi diventano un castello di stracci putrescente? Quando come novelle Miss Havisham, finiamo intrappolate nella trama del passato che noi stesse abbiamo intessuto? E’ quanto accade a Calimba “di” Luna, Calimba con la C, che si lava a secco in una scatola di cartone, straccia le lettere della Asl mentre fa le dirette su instagram e intanto tesse una relazione pseudoromantica con un presunto spasimante, che minaccia di ucciderla o sposarla.

Ci sono già tutti gli ingredienti per una sonata della solitudine contemporanea coi fiocchi, ma Anna Piscopo in Vivere, data secca il 4 febbraio a Centrale Preneste, fa di più e ci ficca dentro pure un po’ della signora Cecioni, i tacchi e le telefonate de Le cinque rose di Jennifer, i fuseaux di “chi è Tatiana?”. Un testo triste e brillante che ci tuffa con ironia nel mondo di una donna spostata, ma più in senso letterale che psicotico. Sì Calimba si è spostata da una vita all’altra, la sua o quella di altri, inventata, rubata, sofferta, arresa.

“Vivere” in scena al Centrale Preneste Teatro

E’ un pastiche dialogico-dialettale, dove il pugliese si mischia col romano e forse non sempre a dovere, le storie si intrecciano e ci confondono e non si capisce più dove finisce la verità e inizia la farsa. Ma è proprio un po’ di disagio in fondo che ci chiede di provare questo personaggio femminile che assorbe battute, immagini, ritratti multipli, come le “cose”, quelle pericolose della canzone di Dalla, che lei non smette di accumulare. Perché Calimba è un’accumulatrice compulsiva, come Orsina di “Tante belle cose“, un piccolo grande capolavoro di Edoardo Erba di cui la Piscopo raccoglie l’eredità, come pure quella del primo Ruccello.

Ma a differenza della dolce e timida Orsina-Maria Amelia Monti, che pure doveva scontrarsi con l’ostilità del “Condominio”, un’idra di umanità rabbiosa e scostante, Calimba è una donna dell’internet, come direbbe qualcuno, che ricerca un’altra sé stessa fuori, proprio perché quella vera, autentica e spaventata, è rimasta chiusa dentro. La casa diventa prigione e non resta allora che nuotare nel cinismo del delitto di un cane, o perfino di un genitore, fino ad annegarci.

Ottima la drammaturgia, di quando in quando zoppicante verso il grottesco-gringe, specie nella filosofia “della patata”, piatto dei poveri, in tutti i sensi, che ha viaggiato pericolosamente sul filo dell’esacerbazione, ma alla fine senza cadere. Buona pure la performance recitativa, che tradisce qui e lì un poco di tensione e mangia i tempi delle pause, piccole debolezze d’artista che si mischiano col personaggio e magari per questo ci fanno amare di più entrambe. Una danza di vuoti umani riempiti alla bell’e meglio con scettri di plastica e parrucche al guinzaglio, conditi da una mimica facciale e una gestualità indimenticabili, che esprimono un talento coltivato con sudore e ambizione.

La regia è a totale servizio, funzionale, della protagonista, docciata di luce calda con riverberi e rimandi al pink schiaparelli, che rimbalza pure dall’armadio sfatto rovinato in terra in mille “pezze”, per poi chiudersi nell’ombra fredda proprio di una doccia, anche se finta, nei momenti di maggior impatto drammatico.

Ecco solo un po’ di pathos in più, o partecipazione emotiva che sfonda, come lo sguardo della Piscopo, la quarta parete, avrebbero messo la ciliegina sulla torta di questa bella pièce, il cui finale ci scivola invece fra le dita, lasciandoci più che inqueti, docilmente amareggiati. Questo Vivere di Piscopo-CarrozziBAM teatro/Nutrimenti Terrestri tuttavia vince la sfida del contemporaneo non autoreferenziale e ci restituisce la genuinità di una creatura scenica credibile e interessante. Piacerebbe dopotutto vederne di più, in più repliche, occasioni, spazi, per osservarla crescere con attenzione e rispetto questa “creatura” debuttante e mangiare con più audacia le assi del palcoscenico. Probabilmente lo farà, nel frattempo un applauso e un arrivederci, speriamo a presto, anche in capitale.

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