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Hybris, l’impresa Rezza Mastrella colpisce ancora al Teatro Vascello

Hybris, l’impresa Rezza Mastrella Colpisce Ancora al Teatro Vascello
Fermata Spettacolo

Antonio Rezza e Flavia Mastrella ci hanno abituati, da quasi quarant’anni ormai, a esplosioni creative transgenerazionali, con crossover fra le arti talmente geniali che è lecito domandarsi come riescano ancora e sempre a restare sulla cosiddetta “cresta dell’onda”, uno stereotipo verbale sul quale non esiterebbero a giocare, nel loro stile e come solo loro sanno fare. Difficile tuttavia rintracciare nelle loro opere, tanto teatrali che filmiche, una marca stilistica univoca in questo senso.

C’è senza dubbio, in ogni loro rappresentazione, un divertissement linguistico che qualsiasi aspirante performer degno di questo nome non dovrebbe disdegnare di approfondire con studi critici. Ma non è mai soltanto questo. Accade sempre un piccolo miracolo scenico nel loro muoversi e dialogare col pubblico, dalla sacralità del palcoscenico, una sacralità che non esitano a destrutturare, per poi ricostruire con la solidità e la raffinatezza dei grandi artisti.

E’ quanto accade anche in Hybris, in scena fino al 22 gennaio al Teatro Vascello di Roma, un’apologia del dentro-fuori di cui la porta si fa massima espressione. La porta è sempre uno stargate immaginativo stimolante e forse non se ne vedevano in scena, profondamente giustificate, dai tempi del Giulio Cesare di Baracco.

Hybris di Rezza-Mastrella al Teatro Vascello di Roma

Ma perché Hybris? La tracotanza umana che nella tragedia greca prelude alla catastrofe? Non è mai facile dare un’unica interpretazione alle visioni sceniche di Rezza e Mastrella, ma forse in questo caso l’arroganza del titolo è quella di chi si fregia della supremazia del “proprio” dentro rispetto al “fuori”, notoriamente limbo di esclusione.

Siamo tutti fuori in realtà e bussiamo ridicoli e frenetici alle porte dei “dentro”, per sentirci riconosciuti e accolti, salvo poi dover tristemente rilevare l’inconsistenza di quegli interni tanto sospirati. Allora è meglio il fuori? Non necessariamente, nell’altalena degli ammessi e degli esclusi, vince dopotutto nientemeno che la staticità corporea nel presente. Una staticità meschinamente supplice, che rincorre inutilmente il famoso “posto” nel mondo.

Dove siamo adesso? Dove saremo domani? Dentro o fuori il passaggio segnato da quella porta che dopotutto, è solo la macchietta di un muro? Che bello tuffarsi in questo limbo di incongruenze e sintassi elettrica, dove ogni cosa -pare calzare a pennello- è “luogo comune” del niente e del tutto.

Metafisica e Metateatro che danzano a braccetto mentre Rezza è già pronto a mettere qualche ignaro spettatore delle prime file alla sbarra, come da tradizione. Fischetti, lustrini, richieste di violenza gratuita e incitamenti al crederci di più, non solo nel banale “chi è?” dopo aver bussato, ma anche e soprattutto nella dialettica dell’incontro-scontro fra il noi di dentro e il noi di fuori, fra grottesche cerimonie parentali e offese per ospiti sgraditi.

Di cosa parla Hybris? Non ha senso rispondere, verrebbe quasi da nominare impropriamente questa pièce come una maratona di “illogismi”, neologismo al contrario, parente alla lontana del più banale sillogismo, d’altro canto se come lo stesso Rezza ci tiene a riportare nelle locandine, questo è uno spettacolo “mai scritto”, perché non reinventarsi perfino l’anima di un sofisma, dove il cavilloso ragionamento che non porta a niente, disvela piuttosto in quel niente il senso di tutto?

Non se ne esce. Allora forse è opportuno e doveroso assistere alle capriole sceniche di una coppia genialmente ostile a ogni forma di inscatolamento intellettuale. Rigorosamente dal vivo, in maniera immersiva ed esperienziale. Senza scampo, sin dall’incipit, niente di meno che dentro una bara, il “dentro” più estremo di tutti, ma in fondo anche il “fuori” più fuori. Bravi tutti, non solo Rezza, volutamente esasperante persino nelle improvvisazioni più spiazzanti che tuttavia riescono sempre e comunque a travolgere la coralità attoriale; belle le scene, le luci, la regia “in corsa”. Chapeau.

Una volta ho sentito dire che Rezza “o si ama o si odia”, mi schiero allora “umilmente”, tanto per creare un poco di incoerenza, fra le fila dei cosiddetti “fanatici”.

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