Get Even More Visitors To Your Blog, Upgrade To A Business Listing >>

Il berretto a sonagli, una comoda, pacifica, civilissima follia

Il berretto a sonagli, una comoda, pacifica, civilissima follia
Fermata Spettacolo

Cambiano i tempi, le nostre ansie, certi fantasmi, tuttavia, incubi, tormenti, continuano a far parte dell’oggi nostro, del nostro mondo: si trattasse d’altro Autore potremmo parlare – a proposito del Berretto a sonagli che Gabriele Lavia mette in scena quest’anno e che abbiamo visto al Teatro Piccinni di Bari – di opera prima, o quasi, visto che, insieme a Liolà, ne rappresentò la primizia teatrale. Ma poiché sappiamo bene chi è l’Autore, non possiamo certo dimenticare come questa pièce – che nasce pressoché perfetta per la macchina teatrale, come Minerva già adulta con elmo e coturni dalla testa di Giove, non una sbavatura, non un’incertezza – abbia già fatto tanta strada prima di nascere: sorprende sempre come da noi, che abitiamo il presente e viviamo il passato troppo spesso appiattito in un’unica dimensione, Luigi Pirandello sia, certo, considerato soprattutto il grande drammaturgo che è, tendendo tuttavia a dimenticare che soltanto a partire dal 1916, quando aveva quasi cinquant’anni, sia sul serio entrato in contatto con la scena, quella vera, scrivendo per il teatro in lingua siciliana di Angelo Musco, attore bravo ma incolto, alcune commedie, fra cui A’ berritta ccu li ciancianeddi, diretto precursore del nostro Berretto, che ha fra gli antenati, come spesso i drammi pirandelliano, due brevi novelle, La verità e Certi obblighi.

Era un bravo attore di terra sicula, Musco, nato per la scena, «attore d’istinto» – scriveva Antonio Gramsci nelle cronache teatrali dell’Avanti – «si presenta con tutte le disuguaglianze e le impulsività di un uomo ricco di vita interiore, che in ogni interpretazione erompe selvaggiamente in manifestazioni di una plasticità sorprendente. È vita ingenua, sincera, che trova nel movimento plastico l’espressione piú adeguata». E, proprio a proposito di A’ berritta ccu li ciancianeddi: «è prodotto autentico del temperamento personalissimo dell’autore, ma non è stata elaborata, e rifinita come le altre commedie… in questi due atti il sofisma, il paradosso non acquista pregio nel dialogo, non suscita dramma originale: qualche battuta, qualche piccola scena, la vita è solo nell’interprete, in Angelo Musco, che riesce a far superare il tedio delle lunghe parlate non più interessanti spesso di quelle del più melenso scrittore di teatro». E probabilmente aveva ragione, Gramsci, a scriver quel che scriveva – si vanterà in una lettera dal carcere, una decina d’anni dopo, di aver «scoperto e contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello molto prima di Adriano Tilgher», tanto che si potrebbe «mettere insieme un volumetto di 200 pagine» – visto che, alla fine, i rapporti tra Pirandello e Musco si guasteranno, in apparenza per motivi pratici – questioni economiche prima di tutto: le sue opere restano poco in cartellone e non gli consentono incassi abbastanza elevati – benché in realtà le motivazioni siano più profonde. Pirandello, che riteneva la sua opera «cerebrale e riflessiva», era arrivato a concludere che non potesse più essere affidata al temperamento «primitivo e bestiale» del Musco, «condannato alle farse»; e poi: «non voglio più avere rapporti d’amicizia con questo signore. Per me è finita. E anche il teatro siciliano per me è finito. Se qualche altra cosa mi avverrà di scrivere per le scene, la scriverò in italiano».

Fu allora che nacque, riscritta e opportunamente riveduta, il Berretto a sonagli, tragedia in apparenza di farsa, un dei primi episodi, se si vuole, in cui il teatro del novecento abbandona definitivamente l’ipotesi verista per aprirsi ad una allegorica follia. Decide, Gabriele Lavia, di metter sulla scena un Berretto che sia anche un po’ A’ berritta, mescola insieme, cioè, un po’ della prima originaria con la seconda versione: «Non c’è dubbio» – dichiara – «che in siciliano questa “commedia nerissima” sia più viva e lancinante, “specchio” di una umanità che fonda la sua convivenza “civile” sulla menzogna. Il berretto a sonagli è il primo esempio radicale di teatro italiano “espressionista” amarissimo, comicissimo e crudele, un espressionismo feroce che vuole rappresentare una società “malata di menzogna”. La verità non può trovare casa nella “società umana”. Solo un pazzo può dirla… Ma tanto, si sa “…è pazzo!”. Così la signora Beatrice Fiorica ha svelato la verità e ora “deve” civilmente, socialmente, essere pazza».

Decisione, a proposito della lingua, che, devo dire, apporta un tanto di veridicità in più all’ormai datato dialogare dei personaggi, un po’ li libera dalla lingua inevitabilmente antica che, come una mordacchia, spesso aggrava l’orecchio di chi ascolta; adduce pure, tuttavia, un non so che di volgarotto, di risentito, come fosse linguaggio televisivo che non è più, purtroppo, quello unificante ed alto che fu di Carlo Emilio Gadda, ma quello tanto becero e disfatto dei talk, delle fiction, degli special conditi col pepe del linguaggio fintopopolare. Più interessante il recupero di alcune parti della Birritta che non si ritrovano più nel Berretto, in piccola parte già riesumate, occorre dirlo, nell’edizione degli anni Ottanta, diretta da Luigi Squarzina, con Paolo Stoppa, grazie ad Alessandro D’Amico: così alcune digressioni di Spanò, che aggiungono un pizzico di comicità, più importanti ancora alcune frasi di Beatrice che ne accentuano il carattere di vera e propria ribellione della donna di casa, e ne delineano più nitidamente la natura. La scena dello scorpione ritrovato nella biancheria di casa è efficacissima e non si comprende il motivo per cui l’Autore la tagliò, secondo Lavia è «l’abisso di tutto il testo, è il punto più alto di tutta l’opera di Pirandello: una donna che entra in camera da letto e in mezzo alle lenzuola del letto matrimoniale, del letto dell’amore e del sesso, vede uno scorpione che non c’è, tanto che dice “… il tradimento era, io l’ho schiacciato”».

L’espressionismo, poi, che Lavia ravvisa ci fa riflettere sui rapporti non scontati tra l’Uomo di Caos e certa cultura del tempo suo, più Die Brücke che Les Fauves – i legami di Pirandello, che scrisse la sua tesi in tedesco, con la Germania furono sempre intensi – e più con l’espressione figurativa del movimento che con quella letteraria. Così, come sempre, si parte dal dato di realtà, banale, anche volgare, sempre ordinario, per poi arrivare – e spesso si può individuare il punto esatto in cui ciò avviene – a un completo stravolgimento del piano narrativo, che perde ogni realismo, logica, naturalismo, per approdare, attraverso ironia che è sarcasmo e grottesco, ad una relativizzazione della realtà, che diventa apparenza, perde di obiettività fino a dare origine a diverse e multiple interpretazioni, tutte vere, tutte farlocche. Il che è esattamente quello che facevano, in anni vicini a quelli di Pirandello, Otto Dix o Georg Grostz, attraverso la raffigurazione di immagini quotidiane ma con colori innaturali, forme semplificate, annullamento della prospettiva: la realtà non è come la si vede ma come la si sente, il relativismo fatto regola e poetica.

E Lavia cerca di accentuare e tradurre tutto questo, anche visivamente, grazie all’apporto sostanziale delle scene di Alessandro Camera e ai costumi ideati dagli allievi del Terzo anno dell’Accademia Costume & Moda coordinati da Andrea Viotti: il salottino rosso dalle tonde, sinuose linee del falso rococò esprime un’opulenza ormai lontana, vecchi mobili sbilenchi e stracchi dall’aria stantia che devono aver visto giorni migliori, la grande borghesia e soprattutto la sua ipocrita mentalità, già vecchia ai tempi della lezione bunueliana, nel nostro oggi quotidiano postborghese e postutto non c’è proprio più, in tutta evidenza, rappresentarla ancora, quasi riesumarla – se pure circonfusa da un’aura di follia come questa – non può fare a meno di farcene subire, tuttavia, il fascino indigesto, perfino oggi.

Un fondale strappato, poi, ammuffito, guasto, come una vecchia bandiera onor di teatrante, alle spalle, è forse un richiamo, sempre in scena, ad una ipotesi metateatrale, o forse semplicemente il ricordo di un’idea di teatro che non c’è più, come pure i manichini che affollano i lati della scena, vestiti come borghesi inizio secolo, la vita è teatro e il teatro è la vita, la stessa recitazione è enfatizzata in modo educatamente esagerato, la corda pazza evidentemente brontola qua e là: ombre, proietta, quel fondale, personaggi che si annunciano come incubi neri, angosce che son tali perché raffigurano fantasmi che son paure senza oggetto, fino a che se ne verrà giù, quel telone consunto, cedendo alla fine al troppo carico di tormenti, rivelando il teatro nudo che c’è al di sotto e inondando il Protagonista d’annosa e cinerea polvere di palcoscenico, al suo ingresso nel secondo atto, cadaverico, con l’abito e la faccia imbrattati di terra… subito Fifì e Spanò gli si fanno attorno premurosi e costernati, e gli scuotono con le mani la polvere dal vestito, metafora fin troppo scoperta d’una macchina, d’un meccanismo che divora – di consunzione – perfino i suoi figli.

E così, meglio che altrove, riusciamo a cogliere come qui, al di là del pirandellismo un po’ scontato che, nel bene e nel male, s’insegna a scuola, l’uno nessuno e centomila, il volto e le maschere, sotto l’oliata meccanica della relatività un po’ verbosa del ragionamento, ci sia il meccanismo del dramma ottocentesco, di cui Pirandello si serve, come d’utile scheletro, per veicolare il pensiero suo, apparato macchinoso e appassionante fatto d’adulteri, tentati suicidi, colpi di pistola e di scena. Poi, tuttavia, ancora più in profondità, riusciamo a cogliere – non sempre è così – l’umanità sottesa al dramma, l’anima, potremmo dire, che si cela sotto la maschera dei demoni che, neri, s’aggirano per la scena e la coscienza nostra, apportandoci inquietudine e irresolutezza: intravediamo il dolore eterno della solitudine, il cuore d’un uomo che piange e che fa sangue… sangue davvero, la condanna originale all’impossibilità perenne di comunicare, di rendere partecipi gli altri della verità.

Così ti rendi conto, più che in altre occasioni, portato per mano dal regista-attore, di come il succo della farsa – o tragedia che sia – altro non stia che nel secolare duello tra i due protagonisti, la Beatrice tutta emotività e gelosia e il Ciampa tutto logica e raisonneur, maschio e femmina, padrona e dipendente, mente e cuore eternamente divisi ma pure inesorabilmente, grottescamente, inopinatamente attratti l’uno dall’altra, lo intuisci dalla sottile intesa sotto la corazza della chiave civile, la posizione nostra – la mia e la sua – in fondo, sono uguali, improvvisamente ascolti e intendi oltre e sotto le parole che non sono le parole, non siamo ragazzini, sotto le parole qualche cosa che la parola non dice, il resto è scusa, mezzo, terreno di cultura dove incubare e moltiplicare cattivi pensieri, in un giorno torrido in questa stagione, con questo caldo, tutto in un bagno di sudore, nel bel mezzo della Sicilia, dove il mare è solo lontano miraggio, fata morgana per gli spiriti semplici, mille miglia distante anche la Città dove s’aprono le idee, il sangue frigge nelle venesoffoco qua, signora mia, qua non c’è aria.

Gli altri personaggi, di questo meccanismo perfetto ad orologeria sono il tessuto connettivo che tiene su lo spettacolo, la gente che guarda, scruta, commenta: pupi!… pupo io, pupo lei, pupi tutti. Così è facile vedere in Assunta (Giovanna Guida) e Fana (Maribella Piana) archetipi di donne all’interno di una tradizione che le vuole remissive, subalterne, d’accanto e non di fronte, col garbo e la buona maniera si riportano gli uomini a casa, non esitano a schierarsi per il quieto vivere pure di fronte al tradimento, alla rottura dei patti, le uniche che Pirandello non caratterizza nelle sue puntualissime ed illuminanti didascalie e che vengono rese sulla scena in modo opposto, Assunta sulla nota grave del perbenismo ipocrita, Fana su quella leggera dell’ironia faceta; dei due adùlteri, l’uno, il cavalier Fiorica, non compare mai in scena – a parte la piccola sorpresa del regista di volerlo rappresentare attraverso i suoi vestiti indossati da Beatrice – siamo costretti ad immaginarcelo come vogliamo, l’altra, Nina (Beatrice Ceccherini), pulita, modesta secondo il Ciampa, più schifiltosa che modesta ce la descrive l’Autore, appare solo per un attimo, la indoviniamo molto simile alle prime due ma, più spregiudicata, sa utilizzare le armi femminili con gli occhi bassi, ma con voce chiara per ottenere autorità e accreditarsi presso il mondo dominante maschile.

La saracena (Matilde Piana), la classica persona che una signora per bene non può riceverla senza pericolo di compromettersi, che l’Autore descrive come un donnone atticciato, terribile, sui quarant’anni, sgargiante, Lavia la vede invece – più vicina a noi – femminista antelitteram, in abiti di taglio maschile e con cravatta, ma lo stile ibseniano comunque rimane funzionale al sistema. Il mondo maschile, inetto, superficiale, arrogante, quello dei discorsi da bar sport e dal vuoto disarmante è ben rappresentato da Fifì (Francesco Bonomo), bell’esemplare di giovanotto squattrinato sempre in cerca di soldi, vestito alla moda, lo immaginiamo sciupafemmine e – da quel che dice e fa — con stupidità nella norma che nasconde conformandosi al pensar comune o al suo contrario esatto, che è poi lo stesso, e ballando il tango sulla musica di un vecchio grammofono, mentre Spanò (Mario Pietramala), il delegato, sui quarant’anni, tipo buffo di Delegato paesano, con arie eroiche, barbuto, capelluto, è visivamente caricatura grottesca – sembra proprio uscito da un dei ritratti espressionisti belle époque ma le sue battute riescono ad apportare buonumore, alleggerendo la filosofia del Ciampa.

Perché poi, come detto, tutto questo mondo è quello che serve a portare avanti la vicenda, ad appassionarci all’adulterio e alle sue questioni, la collana coi pendagli, i soldi e il monte dei pegni, la chiave che passa sotto la porta, le camere comunicanti, l’arresto in flagranza che non c’è, il fedifrago in maniche di camicia lei in peccaminoso décolleté, tutto un agire, un fare e un dire che ci viene, tra l’altro, solo raccontato, e che rimane come sullo sfondo, un po’ come i mobili e il fondale, per lasciare il proscenio, invece, a Beatrice e Ciampa. La prima (Federica Di Martino) sceglie uno stile di recitazione fortemente espressivo, sopra le righe, restituendoci una moglie gelosa che è consapevole solo a tratti, fino in fondo, della sua battaglia, costruita più sulla pancia che sulla mente, d’altra parte è così che deve essere, il personaggio alla fine è quello, la fame e sete di giustizia tenta di farsi largo a forza in mezzo allo stato confusionale in cui versa la signora, che continua a bere per tutto il tempo, sbronza, smarrita, la scena dello scorpione diventa avvisaglia della follia, vera o simulata per convenienza che sia, arriviamo a pensare, noi quaggiù seduti sulla nostra poltroncina di velluto rosso, come Ciampa vorrebbe pensassero i suoi compaesani, la signora è uscita pazza, è uscita pazza per gelosia.

E comunque la costruzione del personaggio, che si muove e parla rapidamente, a scatti, non fissando l’attenzione su questo o quel particolare, in apparenza distratto perché unicamente, passionalmente proteso verso ciò che occupa completamente il suo spirito, ha questa polarità così spiccata perché in completa contrapposizione al Ciampa magnifico di Gabriele Lavia, che invece assume la lentezza e i toni bassi come nota distintiva: a tratti sornione, per poter ignorare le parti di realtà che non gli fanno comodo, in altri momenti astuto conduttore del gioco, a volte antipaticamente untuoso nella sua ostentazione d’umiltà affettata, dimesso più che mite, ragionevole più che ragionatore, si rivela alla fine spietato, attingendo linfa e forza e sangue anche dai rozzi lontani precursori del personaggio, Saru Argentu, detto Tararà protagonista de La verità, che il delitto della moglie porta a termine e Quaquèo, lampionaio di Certi obblighi che invece alla fine non lo fa quando s’accorge che l’amante della moglie è il suo capo. Cambiano i tempi, le nostre ansie, certi fantasmi, tuttavia, incubi, tormenti, continuano a far parte dell’oggi nostro, del nostro mondo, il femminicidio resta per molti, evidentemente, come per Ciampa, l’unica via d’uscita. A parte una comoda, pacifica, civilissima follia.

Il berretto a sonagli, una comoda, pacifica, civilissima follia
Fermata Spettacolo



This post first appeared on Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E, please read the originial post: here

Share the post

Il berretto a sonagli, una comoda, pacifica, civilissima follia

×

Subscribe to Fermata Spettacolo - Web Magazine Di Recensioni E

Get updates delivered right to your inbox!

Thank you for your subscription

×