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Don Carlo, ritratto di famiglia in dissonanza

Don Carlo, ritratto di famiglia in dissonanza
Fermata Spettacolo

Si apre la Stagione del Teatro San Carlo di Napoli  – la prima rinviata dal 26 novembre al 29, a causa della sciagura di Ischia – con Don Carlo, forse il più complesso ed enigmatico dei lavori di Giuseppe Verdi, per la prima volta qui a Napoli nella versione modenese in cinque atti del 1886, la più cara all’Autore anche se raramente rappresentata in Italia. Tappa importante nell’evoluzione artistica del Maestro, segna un punto di svolta, dopo La forza del destino, rappresentata al Teatro Imperiale di San Pietroburgo nel 1862, sostanzialmente ancora in mezzo al guado, in vista del capolavoro dell’equilibrio compositivo che sarà Aida: questo spiega la ricchezza di adattamenti, tagli, versioni che nell’arco di vent’anni Verdi andò accumulando, tra scritture e ripensamenti in Francia e Italia, con accoglienza, da parte del pubblico, non sempre favorevole. Bizet, che aveva assistito alla prima parigina del 1867, scrisse a un allievo: “Esco dal Don Carlo. È molto brutto. Sapete che io sono eclettico; adoro La Traviata e Rigoletto. Don Carlo è una specie di compromesso. Non melodia, non accento; tende allo stile, ma vi tende… soltanto. L’impressione è stata disastrosa. È un fiasco completo, assoluto […] Non è più italiano… è Wagner”.

Perché poi, anche sul piano musicale le novità sono tali da stordire: i pezzi chiusi sono di fatto aboliti, esistono cellule tematiche che, insieme, sono in perfetta armonia con il canto pur vivendo di vita propria e, quindi, sanno distaccarsi dalla linea di canto al bisogno, in piena libertà metrica, e noi sappiamo che Verdi se ne sarebbe voluto liberare del tutto: “Io credo… che per l’opera in musica moderna, bisognerebbe adottare il verso senza rima… ”. Wagner? Come spesso abbiamo notato, di questi germi “wagneriani” ce ne sono molti, nel pensiero e nella scrittura musicale di Verdi, sempre più significativi, perché in queste nuove soluzioni non c’è tanto Wagner, quanto il tempo che passa, che cambia, che naturalmente porta verso strade nuove.

Dramma di padri e figli orfani entrambi, di inusitate ipocrisie alimentate da malconsumati amori, di esercizio del potere in apparenza pieno e incontrollato ma che in realtà risiede in spazi opachi sottratti allo sguardo del mondo, Don Carlo vive obliquamente attraverso sangue e linfa che alimenta le tre principali polarità intorno alla quali si intesse la riflessione verdiana, inestricabilmente legate tra loro: l’amore di Carlo ed Elisabetta e i rapporti con Filippo, padre di Carlo e marito di Elisabetta, il potere e la questione politica della libertà delle Fiandre, caldeggiata da Rodrigo, lo scontro e l’equilibrio di poteri tra l’assolutismo sovrano di Filippo e l’autoritarismo della Santa Inquisizione. Claus Guth – celebre Theaterregisseur tedesco noto in Italia soprattutto per il Tristan und Isolde che ha inaugurato la Stagione 2017-18 al Regio di Torino – unifica questi motivi attraverso una lettura dei rapporti dei personaggi tra loro e poi nei confronti della storia, la Storia dei Popoli e dei Paesi, che si fa e si (ri)crea quotidianamente attraverso le mille storie personali dei singoli.

La scena, molto bella, in cui tutta la rappresentazione si svolge, disegnata dalla mano felice di Etienne Pluss, ci rimanda, nella cura realistica dei particolari, a uno spazio di confine, sospeso, dubbioso sul suo prossimo divenire, sulla sua stessa identità di spazio: sagrestia, o coro di monaci o cappella gentilizia dal pavimento di marmi a emiesagoni chiari e scuri e gli stalli lignei addossati al muro. Luogo d’incerto carattere, a mezza strada com’è tra chiesa e piazza e reggia, camera di decompressione del potere dove si stemperano ambizioni e vendette e si esercitano sordidi pensieri e angeliche virtù, la scena diventa di per sé un non-lieu in cui realismo e allucinazione coesistono nella sofferta compresenza degli opposti e quindi assenza di certezze assolute che è tipica della nostra civiltà della contraddizione, così come del relativismo manierista del tardo Cinquecento. Trova cittadinanza in quest’ambiente una selva di spiritelli benigni, mostruose forme oscure con artigli neri, bianche dame velate circondate d’arabeschi arabeggianti, scoloriti ricordi di ragazzi alla ricerca di tempi perduti, spose archetipe della stessa materia dei sogni, riflessi lattiginosi di finestre inferriate, alberi altissimi a guadagnare improbabili azzurri, ombre senza volto e senza espressione, lampadari che s’innalzano, apparizioni, fantasmi, personaggi che silenziosi attraversano la scena, fuochi fatui che ingannano occhio e cuore, gioco di specchi illusori, tanto che a volte si ha l’impressione che l’intera vicenda viva solo nel delirio autocentrico di Carlo. E questa sensazione è accentuata dal fatto che il regista ci fa trovare sempre Carlo addormentato a terra all’inizio di ogni scena, quasi condannato a (ri)percorrere anancasticamente un itinerario déjà vécu, guidato dal suo demone – mimo dalle molteplici apparenze – imprigionato in eterno in questa sorta di buco nero della storia, girone infernale sempre mutevole nella sua sostanza onirica.

Muove, in questo spazio claustrofobico, un percorso che mette in scena le disforie della famiglia disfunzionale dei protagonisti, il cui ritratto s’incarna emblematicamente nella Famiglia di Carlo VI, capolavoro di Goya presente sul fondo della scena per tutta la durata della rappresentazione: notoriamente il pittore spagnolo rappresentò la famiglia (allargata) reale di Spagna, di molti secoli successiva a quella di Filippo e Carlo, in modo assolutamente realista, ma ciò che effettivamente ne vien fuori è un ritratto grottesco e al limite della caricatura, che tuttavia molto ci dice sui reali rapporti tra le persone raffigurate e, poi, sull’esito di queste nella più grande Storia. Il regista ci mostra il quadro nel primo atto, nel momento stesso in cui s’interrompe bruscamente il sogno d’amore di Carlo ed Elisabetta, per poi farcelo trovare storto al centro della scena, l’inclinazione – una dissonanza – accentua ansia e fastidio in chi, seduto in platea, guarda la scena, background noise che inquina la coscienza stessa del nostro sentire, interferisce con i sensi, ci rende più recettivi a peggiori eventi ed emozioni. Nel quarto atto il quadro diventa completamente buio, assorbe ogni luce, nell’ultimo atto, poi, spariti anche gli stalli lignei, Carlo lo staccherà dalla parete per metterlo a terra: sarà la metaforica tomba di Carlo Imperatore su cui pregherà la Regina, per poi mutarsi, svolgendo fino in fondo il suo ruolo di simbolico feticcio, in buco nero che lo stesso Carlo attraverserà nel suo viaggio verso un mondo migliore.

In questo ambiente, così simile, in fondo, poi, nelle sue imprevedibili metamorfosi, a un palcoscenico teatrale, agiscono tutti i personaggi, nei costumi preziosi ideati da Petra Reinhardt, anche se naturalmente l’attenzione primaria è sul protagonista e sui rapporti e le relazioni vissuti in assoluta innaturalezza dall’Infante: tale è il legame tra Carlo e Filippo, in cui la debolezza può diventar furor, tra Carlo ed Elisabetta, ingigantito a dismisura e abnormemente dal fantasma dell’ipotesi incestuosa, l’amicizia con Rodrigo si basa soprattutto sulle ambizioni del Marchese di Posa, puramente sensuale e sostenuta sulla esplicita finzione – un sogno strano – l’attrazione di Eboli che finirà per perderlo. Malvissuti pure tutti gli altri rapporti: Filippo vorrebbe servirsi dell’ambizione e della fermezza di Rodrigo, intuiamo gelido e anaffettivo il matrimonio tra Filippo e la moglie Elisabetta. Lo spazio e il tempo del dramma è pronto a consumarsi repentinamente in tragedia e ad avviluppare uomini e cose in un vortice di morte. Una tragedia, tuttavia, può conservare al suo interno spazi di colore e speranza, angoli di pace incondizionata o che almeno sembrano tali, tempi rivolti a possibili attese d’impossibili: non così il Don Carlo secondo Guth, tutto è come congelato in un’aura fosca e opaca che assorbe ogni luce, arresta il cuore a qualsivoglia possibile fremito, un muto e assoluto dolore, chiuso a qualunque ipotetica illusione possa darsi l’uomo per continuare a vivere.

Il mondo di Don Carlo diventa oscura asfissia, delirio del potere che non ha altro fine se non il potere stesso, la concezione della Storia di Verdi, che è poi la concezione romantica, la stessa di Manzoni, di storia privata che riflette e riverbera, compiendola, la Storia politica, trova qui la sua più definitiva e drammatica e pessimistica conclusione, nell’esercizio della regalità e insieme della paternità che uccide ogni scintilla di vita. Vita che è solo un’ombra che cammina, sembrano allora ricordare queste immagini, volatili e liquide essenze d’illusioni dell’animo, chimere (ri)suscitatrici del desiderio riposto giù, nell’ambito più intimo e nero dell’Id. Il desiderio.

È il desiderio, ambigua e difforme fame e sete di stelle, il vero motore di questo Don Carlo nella visione registica di Guth, sentimento oscuro generato da privazione, amputazione d’opaco e inconsulto sentire, ciò che porta al delitto, all’ossessione, alla morte. Desiderio del potere, certo, ma desiderio, soprattutto, e imperioso e brutale, d’amore. Che permetterebbe di  perpetuarlo eternamente, questo potere, ma che continuamente, irreparabilmente, rovinosamente si scontra con l’irresolutezza, l’angoscia, la morte che si allarga dai reali ai popoli sottomessi: il dramma vive, così, immerso in un mondo oscuro e dionisiaco, perennemente scisso tra folle risata e disperata voluttà, diventano gli stalli tombe di popolo, l’integralismo sgozza da sempre miscredenti in piazza, misteri ancipiti e buie profezie, universo sfuggente ed obliquo in cui, sola illusione di speranza, è, ed opera, la volontà di potenza. Incoercibile, rozza, inumana, ma, in certo senso, rusticamente, eroica, nel suo energico, atavico e originale legame alla terra e ai suoni della terra, come il coro dei frati con cui si apre e chiude l’opera, armonia modale, arcaica, che poi ricompare spesso nel corso della rappresentazione, leitmotiv – se è lecito parlare di leitmotiv verdiani – della forza primordiale della terra che non si comprende se non in avulsa, dissonante, disturbante prospettiva di eternità. Tuttavia nulla è ottenuto, tutto è sprecato, l’appagamento del desiderio trasmuta sotto i nostri occhi, seguendo il ben noto déjà vu dell’eliminazione dei nemici e dissidenti propria d’ogni potere rubato, universo senza compassione in cui non c’è salvezza, non c’è orizzonte, non c’è più desiderio, tutto è consumato nel chiuso claustrofobico del Palazzo, la volontà di potere, suscitata dal desiderio, lo ha ucciso, trasformandosi in volontà di godimento solipsista.

Non si può non rimanere colpiti dalla parabola professionale di Matthew Polenzani, che certamente nessuno avrebbe visto nei panni di Carlo fino a qualche anno fa: magnifico tenore mozartiano dal trasparente lirismo, ha saputo nel tempo ben amministrare il suo strumento, che si è andato via via ispessendo, sì da consentirgli ruoli come Nadir e David o come Carlo, per l’appunto. Nel primo atto – tanto spesso tagliato – di Fontainebleau, il suo lirismo eccelle in deliziosa fioritura, forse l’unico momento di felicità per il protagonista, ma certo non sfigura in tutto il resto, restituendoci un Carlo appassionato, dall’eccelso timbro vocale, sicuro negli acuti, molto espressivo, preciso nel fraseggio, incerto – come dev’essere – tra nevrosi e follia. Perché se Filippo e Rodrigo sognano imperi e potere, Carlo vive straziato dall’impossibile, il desiderio incestuoso lo annienta e al tempo stesso lo esalta, fino a diventare – e desiderare di esserlo –  la prova vivente del fallimento della paternità di Filippo, che è anche certificazione del fallimento del suo potere regale.

Elisabetta è interpretata da Ailyn Perez, che ha voce piacevole ma piuttosto leggera: vocalmente sicura, ha un bel timbro chiaro, rotondo, luminoso, sostenuto da solida tecnica. Anche scenicamente il soprano statunitense riesce ad essere più che convincente il quello che forse è il ruolo più doloroso nel generale dramma del dolore che è il Don Carlo, riuscendo a portare perfino un po’ di luce in questo universo altrimenti oscuro: vive, la Regina, tra ricordi infantili d’una Francia ormai lontana e scolorita e presenti insopportabili in afose stanze senza luce, protagonista d’una favola malinconica e grigia. Nel primo atto è felice sposa promessa di Carlo, assolutamente deliziosa nella breve stagione d’amore, successivamente ci appare chiusa in una dolorosa crisalide nera che riesce a renderla del tutto opaca alla luce, nascondendo le emozioni dietro una corazza gelida di convenzione, fino al canto libero e forte, finalmente, dell’ultimo atto, il Tu che le vanità di eccezionale densità giustamente molto applaudito.

Ludovic Tézier tratteggia un Rodrigo dalla presa eccezionale, come del resto ci ha abituati ad osservare ed apprezzare: l’aderenza tra interprete e personaggio è tale che il ruolo sembra scritto su misura per lui. Rodrigo, in questo senso, nell’interpretazione di Tézier, è tutto ciò che Carlo non è – e che forse non vorrebbe essere – l’altra faccia della stessa medaglia, in una inconsapevole e rovinosa reciproca ricerca dell’ideale dell’io, in mancanza d’autentica paternità e figliolanza. Se pure la voce evidenzia un qualche sforzo qua e là, questo non riesce a pregiudicare la prova di stasera, senz’altro ben al di sopra della media, il colore della voce è bello come sempre, vellutata la linea di canto e sul piano espressivo sa ricondurci all’essenza del personaggio, che non riesce ad uscire dalla drammatica e fatale ambiguità che lo perderà.

Del resto questo vale anche per l’Eboli di Elīna Garanča, artista eccelsa dall’impeccabile qualità del canto, evidente e sicura in ogni momento: l’ottimo fraseggio, l’espressione curata in ogni minimo dettaglio, la cura e la sottolineatura di ogni possibile sfumatura delle emozioni fanno sì che arrivi ad ogni persona seduta in platea l’intimo sentire di un personaggio la cui parabola viene sviluppata e descritta in ogni più trascurabile particolare, grazie anche ad eccelse doti attoriali. Eboli diventa allora il segno e il simbolo della totale impossibilità d’amare, dell’inestinguibile sensualità che emerge e che viene inevitabilmente e disastrosamente repressa. Così, se la Canzone del velo fa emergere tutta la sensualità del canto, il timbro caldo che enfatizza ogni possibile nuance senza alcuna forzatura, O don fatale si impone per la gran potenza che riesce a mettere in campo, sfregiando la propria beltà preparandosi al chiostro e liberandosi d’orpelli e gioielli: siamo certi che questo diventerà il nuovo paradigma nella rappresentazione di questo personaggio, salutato dal pubblico con una vera e propria ovazione.

Michele Pertusi rappresenta una garanzia in quanto a ricchezza della voce, potenza del timbro, autorevolezza nell’interpretazione di un personaggio chiave come Filippo, forse il più ambiguo e sfuggente e complesso nella ricca galleria dei padri verdiani e da questo punto di vista la prova cui abbiamo assistito è veramente magistrale. In questa storia di padri e di figli in cui l’anaffettività dei sentimenti si identifica perfettamente con l’impersonalità del potere, è Filippo, non Carlo, l’anello debole, figlio che si sforza di esser degno di Carlo Imperatore cercando compenso alla sua debolezza nell’inettitudine – voluta e cercata e incoraggiata – del figlio. L’interprete ideale dovrebbe essere in grado di far arrivare questo sentire fin giù in platea: Pertusi è ormai una leggenda vivente del belcanto italico ma il tempo non sembra avere intaccato alcunché, anzi ha portato in dono un arricchimento in sfumature, mantenendo salda e potente la voce dalla straordinaria brillantezza e carattere. Il messaggio arriva chiaro e forte.

Il Coro diretto da José Luis Basso è veramente efficace e devo dire che affronta e supera una delle prove più impegnative: fuori scena e in scena, i frati, il popolo, le damigelle della Regina, di volta in volta le molteplici incarnazioni che si susseguono conservano grande pienezza interpretativa, sia sotto il profilo musicale sia sotto quello drammatico, un susseguirsi di personaggi utili alla tragedia e alla partitura in modo decisivo. In qualche modo questo Don Carlo napoletano apre un nuovo percorso ma segna anche l’addio al San Carlo di Juraj Valčuha, almeno come Direttore Musicale: sono stati anni che hanno profondamente segnato, crediamo, l’Orchestra del Teatro, portandola a migliorare sensibilmente e ad occupare degnamente il posto che le spetta come compagine musicale del più antico teatro d’opera europeo. Di questo, occorre senz’altro ringraziare il Maestro Valčuha, che del resto stasera ha mostrato il meglio di sé: veder applicata a Verdi la sua gestualità severa e misurata, in assoluto contrasto all’agitarsi spesso incongruo di certi direttori tutti intenti a sottolineare i pieni dell’orchestra in un crescendo d’enfasi ed abbandoni romantici, è, in certi frangenti, d’assoluto godimento, sapendo ritrovare, nella sobrietà ritmica e sonora del direttore slovacco il senso e il significato profondo della partitura verdiana. Per lui, alla fine, il plauso convinto del pubblico e della sua Orchestra.

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