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Il mare del desiderio di Tristan und Isolde

Il Mare del desiderio di Tristan und Isolde
Fermata Spettacolo

Torna, ancora una volta, Richard Wagner al Teatro San Carlo di Napoli: frequentazione lunga e proficua, quella tra il Massimo teatro di Partenope e il genio di Lipsia, che si allarga, più in generale, alla città e ai suoi dintorni. Banale citare Ravello e il giardino di villa Rufolo, trasfigurato nel “magico giardino incantato di Klingsor”, che ogni anno ospita un Festival Internazionale a lui dedicato, Napoli lo affascinava e spaventava, caotica e rumorosa, poi però, soprattutto in vecchiaia, si affezionò a quel respiro vitale, fino ad affermare, incredibilmente, che “Napoli è la mia città e qui tutto è vita”; a San Pietro a Majella conservano ancora la sedia dove il vecchio Maestro sedette per ascoltare il Coro dei giovani allievi, tra cui Francesco Cilea e Umberto Giordano ancora ragazzini.

Un tramonto a Sorrento divenne poi mistico sfondo alle confidenze col grande amico Nietzsche sulla necessità di comporre un dramma ispirato alla fede cristiana: la “conversione” segnerà la fine di quella lunga amicizia e l’avvio della composizione dell’ultimo capolavoro, quel Parsifal su cui lavorerà a Villa Doria D’Angri, sulla collina di Posillipo, che ancora una volta tenne fede alla sua natura di pausa dai mali di questo mondo. E, per quanto riguarda il presente, è la quattordicesima volta che Tristan und Isolde viene rappresentata al San Carlo, le prime tredici dal 1907 al 2015, anno che segnò anche il “debutto”, per in nostro teatro, di Zubin Mehta che strepitosamente la diresse nello stesso allestimento che conclude la Stagione in questi giorni.

Segnarono, gli anni di composizione di Tristan und Isolde, un punto di svolta per il compositore e, diremmo, per la musica del nostro Occidente, che risolse, come spesso accade, una crisi creativa: languiva, Sigfried, incompiuto, spento, la vena inaridita del suo Autore non consentiva al töriger Hort di lasciare il tiglio sotto cui s’era rifugiato dopo la lotta con Fafner, incapace, nel prossimo incontro con Brünnhild, di perdere tutto – di perdere se stesso – nell’annullamento totalizzante dell’amore. Fu allora che l’eroe fu lasciato nel tempo sospeso, potenzialmente infinito, dell’indefinitezza: occorreva prima comprendere l’amore, e il desiderio, e come questo si conciliasse con la vita e la morte, perché Brünnhild potesse poi insegnarlo al suo liberatore, bisognava immergersi pienamente, totalmente, nel grande liquido primordiale del mare dell’amore e dell’eros, apprenderne i tempi, il respiro, l’inesplicabile ritmo sempre uguale e sempre diverso, come il mare.

Fu allora che cominciò a scrivere Tristan und Isolde, il 20 agosto 1857, nell’Asilo della villa dei Wesendonck, a Zurigo, entrando in sempre maggiore intimità con Matilde: “Un anno fa, oggi, terminai il poema del Tristan e ti portai l’ultimo atto. Tu mi abbracciasti e mi dicesti: ora non ho più desideri! In quel momento, io rinacqui una seconda volta. Mi ero andato sempre più staccando dal mondo con dolore. Tutto in me era diventato negazione, rifiuto e desiderio di opporre un’affermazione. Una donna dolce si è gettata in un mare di sofferenze per offrirmi quell’istante adorabile e per dirmi che mi ama…”.  Lo scandalo esplose, improvviso e distruttivo: Wagner dovette lasciare Zurigo e rifugiarsi a Venezia, al Danieli, dove continuò la stesura di Tristan: “In una notte di insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristan e forse mi suggerirono i suoni strascicati del corno inglese al principio del terzo atto”.

Quel dramma si ripresenta oggi a Napoli, dunque, nella veste creata dalla regia di Lluìs Pasqual ripresa da Caroline Lang, le scene di Ezio Frigerio, i costumi di Franca Squarciapino e le luci di Cesare Accetta, allestimento originale del 2004, proprietà del Teatro di San Carlo, dove all’epoca inaugurò la stagione. Abbandona dichiaratamente, il regista, l’astrattismo che per tanti decenni è stato il comune denominatore di tutti gli approcci all’opera wagneriana: utilissima e benedetta per uscire dalla palude della paccottiglia dei fondali dipinti e degli elmi con le corna, questa chiave interpretativa mostra indubbiamente la corda dell’usura. Riguadagna così, la regia, un realismo che tuttavia porta in sé lo stigma di una avvenuta e rinnovata comprensione, in cui ogni singolo elemento, al di là del mero riferimento al concreto, rinvia ad una realtà “altra” e costantemente riferita alla musica.

La metafora del mare, presente nel primo atto durante il viaggio per nave di Tristan, ma che pure è così pregnante nella descrizione che lo stesso Autore fa della sua musica, diventa allora il motivo dominante e unificante della messinscena, una sorta di passepartout che possa meglio aiutarci ad entrare nel mistero della musica e del dramma wagneriano, provvidenziale trait d’union, presente in ogni scena sullo sfondo, sempre cangiante e sempre uguale a se stesso, simbolo stesso della musica del Tristan, sostanziale incarnazione della melodia ascensionale infinita e irrisolta che lo caratterizza.

Così, quando s’alza la tela, a bordo ti ritrovi della norrena nave di Tristan, enorme prora di dragone che solca un mare gelido e inquieto sotto un cielo annuvolato e procelloso: l’ambientazione cambia ad ogni atto, quasi ad accompagnarci in un ideale percorso attraverso i luoghi e i tempi spirituali della composizione, incrociando una storia e una geografia che variano insieme ai mutamenti emotivi che sono alla base dell’ispirazione dell’opera. Il disegno registico non poteva che partire di qui, dal medioevo epico e leggendario e primitivo dei filtri e delle misture, del sangue e delle teste mozzate che fornisce la chiave di lettura del primo atto: navighiamo letteralmente sulla nave, come in un dipinto di Waterhouse.

Come sempre nel mito wagneriano il viaggio per mare diventa espressione di una redenzione perennemente cercata ed eternamente perduta oppure ritrovata in diversa forma e sostanza. Perché quel mare azzurro e increspato che vediamo confondersi laggiù all’orizzonte con un cielo via via più tempestoso lampeggiando dell’ira d’Isolde, altro non è che personificazione ultima e prima del desiderio, incondizionata e suprema brama che di continuo risorge e altro non vuole che se stesso, movimento impetuoso delle onde che non si infrangeranno mai sulla riva ma creeranno un vortice incessante, smania della passione: “se quel mare s’agita dal fondo degli abissi, se la causa prima del suo elemento genera la causa del suo movimento, allora il suo movimento sarà infinito, senza tregua, eternamente avido e in continua, rinnovellata agitazione”.

Sono parole dello stesso Wagner che sembrano fatte apposta per decrittare la sua stessa musica e la scena che vediamo sotto i nostri occhi, che perfetta l’incarna: son tratte da Opera d’arte dell’avvenire, del 1849, qualche anno prima, segno di come già da tempo il mare, con il suo moto incessante, fosse al centro della riflessione poetica dell’Autore. E il mare fa da sfondo pure al second’atto, scena d’amore e notte, la più lunga della storia dell’opera: la qualità stessa della musica wagneriana, la sensazione di processo inarrestabile che provoca, la melodia infinita che continuamente riproduce se stessa, non possono che suscitare in chi ascolta un enigmatico sentimento dell’insolubile, come dice Adorno, in cui nulla è univoco, e così questa scena, la grande notte del trionfo obliquo dell’ambivalenza tra ascesi e sessualità, trova ideali tempo e spazio in una intatta foresta che sembra un dipinto di Friedrich nel pieno del secolo romantico, coi personaggi in divisa blu prussia.

Forte è la suggestione che decisamente rinvia all’Asilo della villa dei Wesendonck, a Matilde e all’amore adulterino, all’infinito perdersi e ritrovarsi “sciolti dall’errore torturante, sfuggiti alle catene dello spazio e del tempo”. Il Mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, che l’amico Georg Herweg gli aveva suggerito di leggere nel 1854 e che d’ora in poi influenzerà potentemente la musica wagneriana, ben viene rappresentato in questo contesto d’amore romantico interamente teso al desiderio d’eternità. Ma, scrive ancora Wagner, gli uomini “finché tenevano la bussola ben stretta in mano, il loro desiderio era l’infinita vita celeste, ma disperando di raggiungere l’orizzonte, gettarono la bussola, così che il loro desiderio divenne cieco, un desiderare fine a se stesso. Così anelarono infine di liberarsi da tale implacabile brama invocando la morte, l’annichilimento”.

Il terzo atto, dunque, non può che essere ambientato in un ospedale di una modernità senza e fuori dal tempo, somiglia molto alla petrosa Itaca d’Ulisse, questa Kareol fondata sulla roccia ma dalle pareti trasparenti, sì che una luce fredda e implacabile possa perennemente penetrare uomini e cose, mondo disperato e solipsistico che ricorda le atmosfere sospese e alienate di Hopper, dove l’insanabile ferita che Tristan s’è procurato mai verrà a guarigione: nel mondo di Wagner coloro che non rinunziano, Tannhäuser, Tristan, Amfortas, sono ogni volta “infermi”. Malattia e desiderio si confondono nell’intuizione che la conservazione della “vita” possa compiutamente avvenire solo mediante la morte, occorre che il desiderio d’eternità, disperando ormai di essere appagato, trasmuti infine il desiderio di morte in infinito movimento di andare e venire, di protrarsi e ritrarsi, di eterno ritorno in se stesso, come il mare. Si spezza qui la musica, diventa frammento doloroso, si dissolve anche la scena, scarna ed essenziale, che non offre appiglio alcuno ad una conosciuta storia, ad una cosciente geografia, per sciogliersi, infine, nel liquido infinito del nulla, “libero dall’inganno e dal dolore, nobile, indolore spegnimento, beatissimo affondare nell’immisurabile”.

Alla bellezza e alla perfetta aderenza delle scene alla musica e al dramma, si è unito in quest’occasione il cast, composto da stelle di prima grandezza, probabilmente quanto di meglio si può oggi mettere insieme rappresentando Wagner e Tristan in particolare, e di questo occorre dare atto a Stéphane Lissner e a Juraj Valčuha che questo allestimento hanno fortemente voluto. Nato nel 1975, Constantin Trinks, al suo debutto con l’Orchestra del Teatro San Carlo, ama spesso dirigere Wagner e Richard Strauss, tanto da venir paragonato, dalla stampa tedesca, a Carlos Kleiber per le sue interpretazioni delle opere di Strauss. La sua esecuzione della monumentale partitura di Wagner, circa quattro ore di musica, ci è rimasta nel cuore per chiarezza e ricchezza straordinariamente bilanciate, nitore e intensità, intelligenza e impetuosità, lasciando che il linguaggio armonico di Wagner, il suo cromatismo audace e radicale, emergesse per virtù propria, esprimendosi in un suono orchestrale ricco e corposo.

Merito, certo, anche della nostra Orchestra, che ha saputo rendere a perfezione la lentezza indugiante e tormentosa della partitura, le sue pause inquiete e prolungate, voci solitarie ed erranti nella notte, sommesse ed ansiose domande. Magia di pianissimi struggenti, di potenti respiri, suono di corni persi in lontananza, misteriose atmosfere create dal clarinetto basso, tutto parte e torna al gesto ampio e preciso del Direttore che guida la sua orchestra senza alcuna apparente perdita di tensione, sostenendo i cantanti in ogni momento, grande prova ed enorme piacere per ogni wagneriano seduto in sala. Inappuntabile, come sempre, il Coro maschile del Teatro San Carlo, diretto da José Luis Basso con la perizia e la sapienza che abbiamo imparato a conoscere in questi anni: non è molto lo spazio riservato al Coro in quest’opera, tuttavia è importante perché segna, potremmo dire, la “riconquista” di questa forma musicale e drammatica da parte dell’Autore.

Se, infatti, Wagner ha scritto grandi pagine per Coro nelle sue prime opere, basti pensare a Lohengrin o, soprattutto, a Tannhäuser, negli anni di composizione del Ring questa modalità espressiva fu abbandonata dal musicista, che si affidò, per la funzione di commento che nel modello tragico antico spettava al coro, all’orchestra e ai Leitmotiv: Tristan segna dunque il momento del ritorno al Coro, che di lì in poi riconquisterà il posto che gli spetta nel complesso mondo wagneriano, lo ritroveremo infatti, a pieno titolo, nel Götterdämmerung.

Alla sua prima volta al San Carlo è anche il tenore australiano Stuart Skelton, un dei più richiesti holdentenor in circolazione, secondo alcuni al momento, anzi, il miglior tenore wagneriano tout court, acclamato dalla critica per la sua eccezionale musicalità, bellezza della voce e interpretazioni intensamente drammatiche: ha debuttato nel ruolo di Tristan nella produzione al Baden-Baden Festspiel con la Filarmonica di Berlino diretta da Sir Simon Rattle, e proprio nei panni di questo personaggio raggiunge eccelsi livelli, come ha confermato anche questa sera, disegnando un Tristan dalla voce eccezionalmente, e in pari grado, tenera e forte, senza forzature, dal tono gradevolissimo, oltre che dimostrando d’esser dotato d’impeccabile fraseggio. E non è possibile passar sotto silenzio la sua interpretazione della croce e delizia d’ogni Tristan, il lungo, complesso, difficile monologo del terz’atto, purissimo topos wagneriano, che il tenore ha affrontato e risolto con eccelsa partecipazione vocale, espressiva ed emotiva, vincendo anche la prova drammaturgica.

Anche René Pape è “debuttante” al San Carlo, ma non ha certo bisogno di presentazioni: a proposito del suo ruolo di re Marke, Anthony Tommasini scrisse sul New York Times qualche anno fa che pochi cantanti hanno trasmesso i sentimenti di tradimento di Marke da parte del suo amato nipote Tristan con tale nobile angoscia. Il migliore dei bass-baritone wagneriani ha dato anche qui da noi, nel nostro vetusto San Carlo, una dimostrazione di quante perle si possano trovare in questo ruolo da marito tradito, così tipico, in fondo, nell’opera lirica fino a sfociare in un’apparenza di maniera, posto che si possa parlare di maniera a proposito di Wagner, dove nulla è stereotipo, tutto riveste un suo particolare, individuale valore e senso.

Anche Brangäne e Kurwenal sono interpretati da due debuttanti qui al Real Teatro, Okka von der Damerau, ancella, confidente, amica sa esser sempre intensa nei suoi toni naturali di morbido mezzosoprano, accompagnando sempre la voce con vigoroso fervore e sensibilità drammatica, mentre Brian Mulligan ha voce ricca, sicura, davvero potente, rendendo credibile il suo personaggio così legato al mondo epico ed eroico di Tristan. Fin dal 2003, quando debuttò in questo ruolo, Nina Stemme è l’interprete di riferimento per Isolde, di cui ha vestito i panni in tanti teatri. Tuttavia all’inizio ci è stata comunicata l’indisposizione della cantante che ha provocato un fremito di delusione nel pubblico.

Ma occorre dire, con gran piacere, che lo stesso pubblico e anche chi scrive, alla fine, non è stato affatto scontento dal cambio con Camilla Nylund, che ha volato apposta da Londra per essere presente, anch’essa famosissima interprete wagneriana che ha impersonato le sue eroine nei maggiori teatri del mondo. A Napoli abbiamo dunque ascoltato una voce dall’enorme potenza che sa raggiungere splendidamente la sua pienezza senza alcuna forzatura apparente: così è stato quando ha interpretato, di volta in volta, rabbia, paura, furia, desiderio, disperazione, emozioni che riesce a rendere con perfette variazioni di colore del suono, dall’acciaio scintillante al calor bianco alla tenerezza inquieta, oltre che con perfetta fedeltà ritmica e nitida dizione.

Alla fine ci è apparsa bellissima, di lato rispetto al centro della scena, rifulgere di luce in un mondo altrimenti in penombra, trasfigurarsi mentre innalza il suo Liebestod: la sua voce procede spedita certa della sua forza tranquilla, simile alla chiglia tagliente di una nave fende le onde che l’orchestra intorno sa creare, dapprima timide e incerte, via via sempre più alte e impetuose, le rompe, le penetra, le feconda procedendo sicura fino al climax, per poi acquetarsi nella calma apparente del gran mare del desiderio ormai appagato; lassù, intanto, il cielo finalmente sereno di una bella serata d’estate si colora dei riverberi della gloria del sole morente, mentre ancora più in alto, dove l’azzurro cupo rapidamente s’imbruna, già s’accendono, timide, fredde, irridenti, le prime stelle.

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