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Boheme, la città e le stelle

Boheme, la città e le stelle
Fermata Spettacolo

Si ricomincia da Giacomo Puccini, si ricomincia da Bohème, dove e quando in fondo ci eravamo lasciati, un po’ come Rodolfo e Mimì, alla stagione dei fiori d’un anno e mezzo fa; così, in questo principio d’autunno ancora incerto se diventar gelido inverno o continuare sulla strada della bella estate appena finita, ci ritroviamo in tanti a celebrare, insieme – e già questo ci sembra inusitato e singolare – la speranza (per ora ancora solo questo, come Elpìs in fondo in fondo al capiente vaso dei guai di Pandora) che il gran dolore volga a fine e di qui si ricominci per non fermarci più. Bene ha fatto, dunque, Stéphane Lissner, sovrintendente del mio bel San Carlo, a prevedere, per quest’anno eccezionale, una premier théâtre in due momenti, gesto di per sé unico e inconsueto nella sua singolarità.

Così, prima della prima di quest’anno – l’Otello della ritrovata giovinezza verdiana – ci ritroviamo in platea per celebrare l’opera per antonomasia dedicata alla giovinezza amata e definitivamente perduta, alla necessaria morte dei sogni perché cominci, finalmente, la vita: ci viene regalata La Bohème che si affida alla consolidata direzione di Juraj Valčuha, ormai purtroppo al termine del suo fruttuoso mandato di direttore artistico, e la regia di Emma Dante, la Bohème che doveva aprire la passata, maligna stagione della Covid e la cui messa in scena fu poi annullata per necessità. Naturalmente non poteva mancare il coro degli interessati melomani sempre in cerca della più zeffirellica pedanteria da ricercare in ogni rappresentazione come la fenice del pedissequo rispetto del… libretto (!!!): a costoro il solo nome d’una prestigiosissima regista (donna per di più!) come Emma Dante ha fatto venir l’itterizia con buon anticipo, presagendo, con la complicità di qualche giornalista poco avvezzo a lirica e affini, disastri e rivoltamenti vari nelle tombe dove, sereni, riposano i padri.

Ma tant’è, credo alla fine che quei figuri si siano tenuti ben lontani dal teatro, in questi giorni, almeno a giudicare dai pienoni e dagli applausi: a meno d’una tardiva conversione dell’ultim’ora sull’onda emotiva che dona il vederlo sul serio, questo prezioso allestimento. Perché poi, alla fine, la regia della Dante altro non fa che metter sulla scena, (ri)creando ogni sera il compiersi del gesto teatrale, un giocattolo già perfetto, smontarlo ed aprirlo non conviene, la storia d’amore e morte funziona già benissimo così; se mai, occorre magari dar corpo a suggestioni ispirate dalla partitura stessa e dalle emozioni che suscita, attimi di perduto e bambinesco incanto di fronte all’ineluttabilità delle cose, la miseria e il freddo, l’inverno e la neve a fiocchi che trasmuta nel turbinìo variopinto di petali di finti fior aspettando il sole e la morte, gli alberelli d’un Natale sognato da un bambino che scendono dal cielo come le figurelle del signore in bombetta di Magritte, i gendarmi come i crociati delle illustrazioni dei libri di lettura, un mondo di (sur)realtà che alcuni, anche in sala, fanno in fretta – per paura o per noia o per pigrizia – a scambiar per tradizione acquosa e stinta, laddove invece la potenza del sogno imperversa e rugge, se pure con immensa tenerezza e rispetto.

La scena sempre borderline tra asprezza della realtà e levigatezza del sogno, uscita dalla matita di Carmine Maringola, in uno coi costumi sgargianti e commoventi di Vanessa Sannino, ci restituiscono un mondo che, superata l’apparenza degli anni trenta francesi del Secolo Romantico, della rivoluzione di luglio e del re cittadino, affermata con forza e subito parimenti negata, scava nel profondo e attraversa trasversalmente i secoli in una sempiterna apparenza di realtà fanciulla: tanto somiglia a una casa delle bambole, quella in cui vivono i bohémienne, un mondo colorato e terso, reso più semplice e diretto da una miriade di personaggi che abita con loro, a metà tra vissuto e fantasia, occhieggia dalle finestre, sale e scende antiche scale, s’affaccia sul fumo dei mille comignoli, vive il mondo trasecolato e vario d’una città.

Perché è Parigi – la città degli uomini, centro e fulcro della vita loro, delle loro gioie e dolori, speranze e rimpianti – la vera protagonista di Bohème, nel rispetto intimo e vero di ciò che sempre dovrebbe tener bene a mente chi voglia metterla in scena: “la bohème ha un parlare suo speciale, un gergo… Il suo vocabolario è l’inferno della retorica e il paradiso del neologismo…”. Così Henry Mürger, nella prefazione alle Scènes de la vie de bohème che Giacosa e Illica vollero come prefazione pure al libretto loro: vale senza dubbio, dunque, come intento programmatico, esteso in tutta evidenza pure al compositore, anzi, probabilmente “l’inferno della retorica e il paradiso del neologismo” è da intendersi soprattutto e in primo luogo per la musica, che Puccini volle adatta a “trattare il quotidiano”, rispecchiando la vita di tutti i giorni, ma, al tempo stesso, capace di metaforicamente comunicare l’idea del tempus fugit, della giovinezza che passa: ottenne questo rifuggendo la retorica dell’afflato romantico, guardando anche ai momenti più poetici con una punta d’ironico disincanto, e gli esempi in partitura sarebbero tantissimi.

Tutto questo, in definitiva, per dire che se c’è una cosa da cui occorre guardarsi interpretando Bohème è proprio la facile retorica romantica della lacrima sempre pronta sul ciglio: l’emozione, se c’è – e noi pensiamo che ci sia – deve scaturire proprio dal nudo accostamento tra vita e aspettative, riflessione sulle piccole cose che compongono la quotidianità, il freddo, la fame, un bicchiere di vino, un fiore finto, uno scherzo tra amici, un vivo desiderio di luce e di calore, reale prima ancora che metaforico, che fa desiderare il primo bacio dell’aprile, figura d’una primavera troppo breve.

Nella città, dunque, in questa città – abitata da poetiche icone chagalliane in procinto di librarsi in volo, un attimo dopo aver donato redingote e cilindro, velo e bouquet ai nuovi innamorati, perché possano anch’essi volare, dove puoi scorgere dietro le finestre inquiete figure che occhieggiano da dietro i vetri o avanzano in lunghe file, come nere prefiche nunzie di morte come le antiche valchirie, allegorie che ritrovi pari pari anche in altre regie della Dante, perché fanno parte del suo immaginario onirico – si va dipanando la piccola storia bohèmienne, non solo nei due quadri “pubblici” del Caffè Momus e della barriera d’Enfer, volutamente agli antipodi nel sottile e reciproco gioco degli equilibri che genera la perfezione sintattica di Bohème, ma pure nel primo e nell’ultimo, abitualmente vissuti nell’intima claustrofobia della soffitta povera e buia, la regista ha voluto che la città irrompesse, che accompagnasse i giovani protagonisti nella delicatissima fase della definitiva perdita dell’innocenza.

Così i dipinti di Toulouse-Lautrec lasciano cornice e tela per diventare – significativamente – murales, corpo unico con la città, street art, in qualche modo ad essa necessari come i mattoni e le tegole e i comignoli, da una parte due diversi ritratti tutto vezzi e tutto frode di Yvette Guilbert ossessione e musa ispiratrice come Musetta, dall’altra le Due donne seminude tragica testimonianza dello squallore del bordello: diventa graffito perfino, nell’Atto ultimo, il ritratto di Musetta uscito involontariamente dal pennello nostalgico di Marcello, significativamente il solipsista attimo d’intimità di Sola. Ma c’è anche, al centro della scena, la Cometa del Presepe a Betlemme di Banksy, breccia nel muro che divide la città, i buoni da una parte i cattivi dall’altra, i ricchi e i poveri, i sani e i malati, che diventa luce e annuncio di pace: altissimo momento di poesia che rimette insieme vari e sparsi brandelli d’umanità nella ritrovata unità donata dalla morte di Mimì, negli innumeri lumini accesi a simular la stelle, un cielo in terra, un cielo acquisito dalla città, Mimì che muore rende più luminosa la cometa sulla terra, perché la chiamano Mimì, ma il suo nome è Lucia, luce che torna luce, pensavate fosse un caso?

L’altissima poesia di questa Bohème aveva bisogno di una direzione musicale pressoché perfetta e di un cast all’altezza ed ora che, giù in platea, abbiamo ancora una volta pianto le nostre oneste lacrime, possiamo dire che gli interpreti giusti c’erano tutti: a cominciare, naturalmente dalla bacchetta di Juraj Valčuha, che scrive qui a Napoli un ulteriore capitolo della sua – per noi troppo – breve avventura partenopea. Non saremo mai abbastanza grati al Maestro per l’immenso compito che si è assunto in questi anni, dell’incessante e silenzioso lavorìo di lima per render sempre più perfetto il sound della nostra Orchestra, per uscire sempre più da provincialismi e pressapochismi: anche in questo caso, ha agito con la sobrietà che lo contraddistingue, sapendo trovare il giusto tono anche in una partitura che concede pochissimo spazio al sinfonismo, lavorando di cesello, sui particolari impressionistici, sull’immenso patchwork che è spesso l’opera picciniana, dove il sapore dei particolari, se giustamente dosato, dona grazia all’intero lavoro.

Veder applicata a Puccini la sua gestualità severa e misurata, in assoluto contrasto all’agitarsi spesso incongruo di certi direttori tutti intenti a sottolineare i pieni dell’orchestra in un crescendo d’enfasi ed abbandoni tardoromantici, è, in certi frangenti, d’assoluto godimento, sapendo ritrovare, nella sobrietà ritmica e sonora del direttore slovacco, la più autentica radice del sinfonismo pucciniano: Juraj Valčuha guida tranquillamente ma implacabilmente l’Orchestra del Teatro San Carlo – che con docilità lo asseconda – in una lettura raffinata ed elegante quanto coloristicamente, per quanto possibile, sgargiante, rappresentando al meglio quel sentire che rinvia ad un universo nativo e schietto di segni e malìe che spontaneamente si traducono nel fluire naturale della musica, conquistando un grado non comune di brillantezza e gradevolezza.

Così è pure per il Coro, diretto dalla sensibilità di José Luis Basso, e per il Coro di Voci bianche, diretto con professionale perizia da Stefania Rinaldi: il perfetto tempismo del grande atto di Momus, se da un lato è severissimo banco di prova per qualunque regia e direzione orchestrale – perché gli Autori sono andati di molto oltre i tempi loro, consegnandoci una scena in tutto e per tutto “cinematografica”, con primi piani e sequenze che si succedono ininterrottamente, rischiando, in mani inesperte, il semplice caos – esso deve trovare, com’è ovvio, la sua soluzione nella compiutezza dei tempi e dei gesti del cast e degli artisti dei Cori in particolare, dal punto di vista drammaturgico e, soprattutto, musicale; ebbene, la scena è andata via tranquilla ed oliata a perfezione, non una nota storta, non un tono inadeguato, non un movimento sbagliato: per far funzionare il giocattolo pucciniano come si deve ci vogliono, in tutta evidenza, veri talenti e ieri sera li ho visti.

Così è anche per il cast di cantanti, tutti giovani: Selene Zanetti è una diligente Mimì dal bel fraseggio, la voce ha un timbro spesso bello e pieno, pur se necessita di un ulteriore tempo per la piena maturazione, la sua recitazione è misurata e sfrondata d’ogni superflua captatio emotiva di cui non c’è alcun bisogno; un po’ sottotono il Rodolfo di Stephen Costello, tenore americano che forse ha sofferto più del dovuto l’infortunio, avvenuto nel periodo delle prove, che ha comportato la frattura del braccio destro, costringendolo all’uso di un tutore che ne limitava un po’ il gesto ma, soprattutto, apportando qualche problema di respirazione: di fatto la voce è apparsa spesso sottotono, dal timbro spento e opaco e d’incerta proiezione. Meglio la seconda coppia: se la giovanissima Benedetta Torre ci restituisce una Musetta esattamente come te l’aspetti, che incanta in virtù di un bel timbro dolce ma che sa esser pure franco e robusto al tempo giusto, screziato da un affascinante chiaroscuro malinconico, carisma e notevole presenza scenica, il personaggio di Marcello trova in Andrzej Filonczyk un interprete d’innegabile comunicativa, dalla voce molto gradevole e piena, irruente e aperto.

Complessivamente buoni anche i comprimari, il vivace Schaunard di Pietro Di Bianco e Alessandro Spina che incarna un disincantato ma non cinico Colline, applaudita la sua Vecchia zimarra. Il cast era completato da Matteo Peirone nei panni farseschi di Benoit e di Alcindoro, Daniele Lettieri di Parpignol alla guida questa volta di un agguerrito insieme di “giocattoli” che hanno animato anche, a sipario chiuso, il primo cambio di scena, e poi, ancora, il Venditore ambulante di Mario Thomas, il Sergente dei doganieri di Sergio Valentino, il Doganiere di Giacomo Mercaldo; un cenno particolare agli attori che sempre seguono Emma Dante nella sua avventura: Samuel Salomone, Yannick Lomboto, Davide Celona, Daniele Savarino, Roberto Galbo e Angelica Dipace.

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