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Donne, gatti e vecchi film: Les Enfants du paradis e Manon

Donne, gatti e vecchi film: Les Enfants du paradis e Manon
Fermata Spettacolo

Quando l’Opéra-Comique di Parigi, nel gennaio 1884, mise in scena per prima volta Manon, per Jules Massenet, che aveva allora 42 anni, fu un successo prodigioso, seguito da rappresentazioni nei maggiori teatri d’opera in Europa e negli Stati Uniti. Opera emblematica del periodo in cui vide la luce, è tuttavia ancor oggi tra le più rappresentate in tutto il mondo: ho scelto di vedere e di recensire questo allestimento, ripreso il mese scorso e diffuso a partire dal 12 febbraio e fino al 12 marzo, prodotto dallo Saatsoper di Amburgo, per la regia di David Bösch e la direzione di Sébastien Rouland, concepito tenendo conto delle precauzioni imposte dal Covid e si vede, anche se, alla fine, il risultato è rimarchevole proprio per questo, mettendo in evidenza, tra l’altro, proprio ciò che, secondo me, sono le caratteristiche che consentono a Manon di esser messa ancor oggi in cartellone senza problemi, la chiave, in fondo, della sua modernità che dice ancora qualcosa a chi si aggiri per la contemporaneità.

Quando Antoine-François Prévost scrisse questa famosa histoire, aveva certamente un intento morale: Manon è una donna peccatrice che cerca di redimersi con un amore “onesto” per un ragazzo di buona famiglia, ma invece l’unione dei due giovani non porterà a nulla di buono, deportati nelle lontane Americhe, lei morirà di stenti poco dopo e lui, rientrato in patria, si redimerà abbracciando il sacerdozio. Massenet recupera la storia nella sua opera ma aggiornandola secondo la moda del momento: era giunto il tempo in cui si poteva osare di metter sulla scena la storia d’amore tra una prostituta ed un giovane aristocratico ma, utilizzando la musica per analizzare i motivi che si agitano dietro il comportamento delle persone, arrivare ad una verità etica che, spesso, è ben diversa da quella dell’Abate e del secolo suo, utilizzando gli strumenti dell’introspezione propri del naturalismo.

Massenet, insomma, ribalta il ragionamento e il senso della storia: la protagonista non è più una cortigiana ma una ragazza ingenua in cui si risveglia il gusto per il lusso e la vita mondana, la sua morte non è più il riscatto per la vita dissoluta che ha condotto, ma addirittura può esser visto come la conseguenza tragica di una società troppo rigida che non consente trasgressione; fa, soprattutto, questo, Massenet, utilizzando lo strumento dell’opéra-comique, che ritiene, non a torto, più adatto ad un’operazione di questo genere, servendosi con maggiore elasticità di passaggi repentini di stile, creando anche una vocalità nuova molto più adatta alla lingua parlata, rendendo allora i protagonisti più vicini a chi siede in platea, e soprattutto non giudicando mai i personaggi e il loro agire, utilizzando, anche, in modo del tutto diverso da Wagner, la tecnica dei leitmotiv, creandone un gruppo per descrivere la “rigidità” della società, un altro ben distinto per la passione irrazionale; non creandone nessuno, soprattutto, invece, per la protagonista, proprio perché è la musica che occorra si adatti al personaggio e non il contrario: l’agire della protagonista, sphinx étonnant, è pienamente libero, del tutto svincolato da ogni possibile dettame precostituito, è tratto mutevole e cangiante, estetica dell’irrazionale, del frammento.

Il frammento, allora, cifra del secolo breve, la fugacità che si traduce in impressione, immediatezza autobiografica, folgorazione lirica dei sensi, già potentissima chiave del successo eterno che Massenet ottenne con Manon, diventa, fuori di ogni disegno e struttura, di ogni ordine logico di rapporti, grimaldello per David Bösch per una messa in scena che, per sua dichiarata natura, sfugge le definizioni immutabili e certe, nella patente impossibilità di oggettivazione delle proprie impressioni, tra pensiero e poesia: il gatto invisibile a tutti – invisibile a noi che, oggettivamente guardiamo dal di fuori, non a chi sta dietro la quarta parete – e che è motivo unificante in tutta l’opera, “presente” in ogni scena, diventa allora, secondo me, l’esatta e percettibile – ma, al tempo stesso, inafferrabile – metafora di tutto questo allestimento. Perché sfuggente è Manon, concepibile, benché ancora incomprensibile, solo attraverso il farsi del suo vivere, tra errori e fortune, miserie e folgorazioni, indefinibile come la poesia, che non può essere che a luoghi, a tratti e, appunto, a frammenti, e perché il teatro stesso, in questo momento, altro non può essere che sfuggente e immateriale come Manon, invisibile a tutti, virtuale e, per tanti, indicibile nella sua stessa essenza.

Immerge, allora, Bösch, la vicenda contrastata dei due giovani in un mondo del tutto virtuale, che del reale possiede inevitabilmente alcuni caratteri, ma che è sempre ben al di là e ben al di sopra – o al di sotto – d’ogni possibile realismo, una (sur)realtà ben evidente a chi guarda: il luogo dell’azione è certamente la Francia, tuttavia, al di là di certi simboli che inevitabilmente ce la ricordano – la Tour Eiffel, lontano sullo sfondo o gadget sul pavimento – risulta più che altro la Francia raccontata dai grandi film della più felice stagione del cinema francese. Non è certo un caso la simulazione di proiezione cinematografica di una vecchia pellicola che ci viene mostrata prima di ogni quadro: la Parigi grigia e romantica dei film di Marcel Carné somiglia come una goccia d’acqua a questo allestimento, con l’aggiunta, naturalmente, di alcuni richiami al tempo presente che la rendono più affine al presente, più decifrabile al quotidiano: lo spray al peperoncino, le pizze da asporto, l’accendino monouso, sono elementi straniati della nostra quotidianità in un contesto alieno che definisce perfettamente il surrealismo di certi accorgimenti.

Sono, in particolare, i film che Carnè girò con Prevert, a far da sfondo costante, sui temi che erano cari alla poetica surrealista dell’epoca e che ritroviamo pari pari in questo allestimento: l’amor fou e l’erotismo come fermento della sovversione sociale di Quai des brumes, il potere del sogno e il fascino della morte – della morte suicida – di Le Jour se lève, il rigetto delle istituzioni (l’esercito, la chiesa, l’arte “rispettabile”) e il gusto per il melodramma popolare e il feuilleton di Les Enfants du paradis. Proprio nell’insistita metateatralità di Les Enfants du paradis può trovar centro, in fondo, e senso compiuto questa operazione, al di là di ogni nostalgia che possa, in fondo, solleticare l’ambientazione anni ’40 rivisti e corretti: suscita domande sul teatro dell’oggi e sulle sue rigide prescrizioni, destinate a prepotentemente far entrare la vita, quella vera, nella rappresentazione, sull’apparenza che entra nella realtà e viceversa, sul loggione cui siamo costretti, lo streaming che ci tiene lontani, nonostante la passione, il paradiso di noi enfants che amiamo giocare coi nostri evoluti giocattoli.

Come sarebbe stato questo allestimento senza il Covid e le sue restrizioni nessuno può dirlo, non possiamo sapere come avremmo colto ciò che abbiamo visto senza quell’impercettibile distanziarsi sulla scena degli attori, che impedisce qualsiasi effusione – e che può consentire tuttavia un diverso erotismo – quell’allure composta delle scene così inevitabilmente attrattiva se paragonata al debosciato malcostume dell’oggi, quello star sospesi come sulle nuvolette dei palchi di parte dell’orchestra e di tutto il coro: una condizione di inevitabile restrizione che trasmuta magicamente in poesia o, quantomeno, in qualcosa che può favorire una nostra emozione, un nostro possibile coinvolgimento al di là dell’inevitabile freddezza del mezzo: una profondità che può esser finalmente ritrovata. Così, s’incontrano Manon e Des Grieux sulla scena cupa e semplice del primo atto, uno squallido non luogo come solo può esserlo una contemporanea locanda di stazione, e Manon è un’apparizione di giovinezza e semplicità, Des Grieux ha i caratteri della predestinazione a diventarne l’altra metà della mela, in un gioco estremo di citazioni potrebbero ricordare i fidanzatini di Peynet, ne sappiamo intuire sentimenti e pensieri, tanto ci sembrano contemporanei.

La soffitta sui tetti di Parigi è, per l’appunto, esattamente ciò che possiamo immaginare con la locuzione “due cuori e una capanna”, la scena di sfrontata seduzione di Manon cui ci hanno abituato tante moderne interpretazioni, primo segno d’un cambiamento nella natura della ragazza, viene qui contraddetto: Covid o intenzione del regista, qui l’erotismo di Manon è decisamente più sottile, direi perfino più casto e semplice, giocato tutto sui toni dell’innocenza di due giovani che mangiano sul pavimento una pizza da asporto; la scelta tra un futuro concreto e ricco e un altro povero e ideale s’incarna nell’opzione tra un collier e un modellino di Tour Eiffel, perennemente ed emblematicamente in bilico tra la giovinezza dell’amore e la maturità delle rispettabili ipocrisie. Il collier finirà buttato dalla gran finestra sul fondo ma les charmes de l’avenir son più forti, alla fine, dei rêves effacés. E vediamo subito dopo, gli incanti dell’avvenire di Manon concretizzarsi: diventa una popstar internazionale, a lei sono dedicate le copertine dei principali Magazine, a mezza strada tra Jean Harlow e Madonna, icona bionda del secolo che fu: può sembrare una sfumatura da poco, ma racchiude grandi significati.

Perché Manon in questo modo non è più l’archetipo di donna infedele che preferisce gli agi e i lussi della mantenuta ad una vita d’amore e miseria: è una donna emancipata, una donna che lavora, un’artista che si afferma grazie al suo lavoro e alle sue doti, non più disposta a vivere all’ombra dell’uomo. E gli errori, certo ci sono, fanno parte del gioco appassionante della vita, follie, ivresses folles… ma c’est la vie! Ou du moins… C’est celle que je veux! Così la parabola si compie: dalla prostituta redenta di Prévost alla giovane traviata di Massenet il cammino di emancipazione della donna trova in questa nuova interpretazione un ulteriore tassello: la morte di entrambi i protagonisti, alla fine, come in un vecchio film di Carnè, non sarà altro che profondo atto di accusa ad una società non ancora pronta ad accettare pienamente una diversità di stili di vita. E quel morire insieme – ma drammaticamente soli – dà la misura esatta e tragica, in fondo, anche del dramma che stiamo vivendo.

Che dire dei due interpreti, se non che sono pressoché perfetti in questo ruolo? Elsa Dreisig è una giovane promessa della lirica che, quasi del tutto sconosciuta in Italia, ha già interpretato ruoli da protagonista all’Opera di Stato di Berlino, all’Opera di Zurigo, all’Opéra de Paris, alla Royal Opera House. La prima cosa che si nota, nel primo atto, è la sua toccante fragilità; poi viene la convincente caratterizzazione delle altre infinite facce di Manon, sempre con una eccellente dizione francese, davvero nitida, con una bella “r” gutturale e la voce rugiadosa e leggera. Davvero una Manon diversa da quelle cui ci hanno abituato questi ultimi anni, in cui molto si insisteva, invece, sull’aspetto da femme fatale: ogni gesto, ogni espressione facciale della sua Manon si riverbera perfettamente e senza apparente sforzo nella voce, il risultato è eccellente sotto ogni punto di vista.

Se Elsa Dreising ha vinto Operalia nel 2016, Ioan Hotea ha vinto lo stesso concorso internazionale l’anno precedente, nel 2015, e questo dà in qualche modo la misura esatta delle doti, in qualche modo parallele, dei due cantanti, oltre, naturalmente, a un evidente dato anagrafico. Anche lui si è distinto da protagonista sui palcoscenici della Royal Opera House Covent Garden, Wiener Staatsoper, Zurich Opera, Opera de Paris, Frankfurt Opera, Opera de Monte-Carlo e Choregies d’Orange, e anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una interpretazione di Chevalier Des Grieux piuttosto inusuale, insistendo molto sulla giovanile inesperienza del personaggio che, in qualche modo, ne fa l’anello debole della coppia, nonostante i clamorosi errori di Manon. La sua voce di tenore leggero è potente quanto sicura affrontando i toni alti, ma risulta del tutto convincente anche nella zona centrale, la sua grande aria nel terzo atto viene eseguita con grande enfasi e splendore. Due grandi protagonisti delle scene liriche di domani, dunque, che attendiamo con ansia di ascoltare dal vivo e di applaudire anche in Italia.

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