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Titaniche armonie per vincere paure e melanconie

Titaniche armonie per vincere paure e melanconie
Fermata Spettacolo

Il 27 settembre è una data importante, per Napoli, non sempre adeguatamente ricordata, la prima della Quattro giornate che liberarono la città dall’occupazione Nazifascista, prima in Europa, con la sola forza dei liberi cittadini. Non so se la data della singolarissima ripresa di questa infelice Stagione, quest’anno, qui al Teatro San Carlo, sia stata scelta a caso, ma certo, se così non fosse, sarebbe ben bizzarra coincidenza: riapre i suoi antichi cancelli, il gran Teatro qui a Napoli, dopo la lunga clausura cui è stato costretto, come il Mondo e la Storia, dal virus: cercando di darsi una ragione della vita che deve riprendere il suo corso, accoglie stasera il suo pubblico per la Prima Sinfonia di Gustav Mahler, eseguita dall’Orchestra del nostro Teatro diretta da Juraj Valčuha, con tutto ciò che discernimento, prudenza e oculata prevenzione suggeriscono alla ragione.

Scelta quanto mai eloquente, questa del brano di Mahler, non esistendo a parer mio, nel panorama della musica di tutti i tempi, partitura contemporaneamente più di rottura e, insieme – sorprendente e unico esempio di essenziale e splendida contraddizione – di continuità con il passato e di tensione verso il futuro: di questi tempi difficili è fatta la nostra Storia, di qui occorre ripartire per vivere in consapevolezza il presente e assicurarci un futuro migliore. Riuscirci o meno fa parte della grande scommessa del vivere e in fondo qui risiede, a ben pensarci, il significato ultimo e più profondo di questa Prima che rinnova la tremenda bellezza e difficoltà della vita, pensando anche alla sua tormentosissima gestazione sia filosofica sia musicale.

Di solito si parla delle prime quattro Sinfonie di Mahler come Wunderhorn, per la sostanza emotiva e tematica che queste composizioni legano ai Lieder dell’antologia di poesie popolari tedesche Des Knaben Wunderhorn, anche se, a rigor di termini, la Prima Sinfonia non soddisfa un criterio di piena inclusione con il Wunderhorn perché suggestioni concettuali e sentimentali l’apparentano piuttosto al primo ciclo di canzoni di Mahler, Lieder Eines Fahrenden Gesellen, liriche dell’amore e del rifiuto, della morte e della rinascita.

In ogni caso, l’ascolto attento della Prima molto ci dice del mondo di Mahler all’epoca della composizione, ricca com’è degli stilemi che saranno tipici del mondo mahleriano, visti attraverso la lente inconfondibile di questo sorgivo, primo mondo creativo, passando dall’atmosfera dell’aurora in piena estate del primo movimento alla danza contadina del secondo che anticipa la ricorrenza di questa tematica nella storia musicale dell’Autore, per arrivare al più famoso passaggio di questa prima fatica sinfonica, l’ossessivo canone di  Frère Jacques che s’alterna ad una una volgarotta musica per banda, epitome di ciò che sarà, a ben pensarci, cifra inconfondibile del musicista, per approdare all’ultimo movimento, musica intenta a superare se stessa in un trionfo fragoroso che esplode con spavalderia giovanile.

Certo, anche la storia di questo brano è accidentata, tortuosa, come tutto ciò, in fondo, che già appartiene al secolo breve, scissa in se stessa, riflettendo le incertezze e i trasporti dell’Autore, tra le infinite revisioni e ripensamenti, i tagli e le aggiunte e l’ampliamento dell’organico che, anche in questo caso, segna indubbiamente il passaggio dal sicuro e in fondo perfetto approccio dell’orchestra romantica a quella sorta di gigantismo sinfonico che poi sarà, per l’appunto, detto mahleriano, e che tutto sommato giustifica perfino il titolo di Titan, come il musicista battezzò la seconda versione, per poi, successivamente, pentirsene.

Soprattutto, l’incertezza dell’autore è evidente – e ancor più tenendo conto delle straordinarie dimensioni della partitura, riflesso evidente d’una eccezionale ambizione – sulla strada da intraprendere impegnando, in qualche modo, il futuro, suo personale e della Musica in generale: la scelta, fondamentale, era tra la musica “pura” ed astratta di Brahms e il poema sinfonico di Liszt e del suo diretto erede – e contemporaneo dell’Autore – Richard Strauss, tra indipendenza della musica e suggestioni wagneriane di musica totale, tra melodia infinita e colori netti e puri. Per amor di verità Mahler, alla fine, pur tra infiniti ripensamenti e pentimenti non scelse, e questo, lungi da ogni idea d’insipido compromesso, ci lasciò invece in dote, a noi che non abitiamo più quei tempi e quelle nobili disfide, l’esatto resoconto di ciò che avveniva in quella temperie, (im)perfetto documento che, come Giano per gli antichi, intento a fissare senza strabismi il passato ed il futuro, chiude un’epoca e contestualmente ne apre un’altra, come, per alcuni grandi capolavori, avviene a volte, per nostra consolazione.

Come dice Adorno, che di Mahler fu esegeta e quasi profetica voce, vista l’urgenza che sembra sottesa a certe pagine di Eine musikalische Physiognomik, l’irrisolto dilemma è “come un’estetica che voglia sapere se in quella forma l’attimo è compiuto o solo suggerito, mentre per lui quella frattura interiore è sostanziale ed esso si ribella all’apparenza dell’opera compiuta”. E qui siamo proprio al centro della preziosissima e originale interpretazione mahleriana che Juraj Valčuha va inseguendo già da diversi anni: veder applicata a Mahler la sua gestualità severa e misurata, in assoluto contrasto all’agitarsi spesso incongruo di certi direttori tutti intenti a sottolineare i pieni dell’orchestra in un crescendo d’enfasi ed abbandoni tardoromantici, è, in certi frangenti, d’assoluto godimento, sapendo ritrovare, nella sobrietà ritmica e sonora del direttore slovacco, la più autentica radice dell’alternanza continua tra “irruzione” e “sospensione”, che sono le polarità espressive dell’universo mahleriano, non conoscendo altro destino se non questo ininterrotto moto perpetuo che è, insieme, salvezza e condanna.

Così, le suggestioni sospese del primo iniziar dell’alba – il rincorrersi sommesso dell’interrogarsi di due note (la-mi), che ben presto si trasformano nel beffardo grido del cuculo, la sommessa fanfara che lumeggia sapiente sullo sfondo, in campo lungo, il romantico movimento dei corni che evoca un medioevo germanico non di maniera – discendono, dalle mani di Valčuha, direttamente all’orchestra e riescono ad evocare, cesellando suono da suono, altre albe, altri mattini del mondo, come il primo risvegliarsi di Wotan e Fricka sul Walhall appena compiuto, gloria e trastullo dell’universo ma inizio, insieme, d’ogni sventura, mentre il ritmo festoso dei violoncelli, che riprendono il secondo dei  Lieder eines fahrenden Gesellen, canto della disillusione e dell’amore incompreso e non corrisposto, ci trasporta in una dimensione aliena di festa pastorale, fino alla assorta sospensione.

Stride, infine, la luce, che irrompe col suono dissonante come non mai delle trombe violente e trionfanti, che tuttavia mandano in pezzi l’atmosfera cupa e ansiosa: sole che vince le nebbie e le incertezze. Ma se il primo movimento è reminiscenza e rielaborazione del passato utilizzato come termine di paragone per la conoscenza del presente e premonizione del futuro, il secondo, di quel passato, ne fa maschera deformante o inquietante: lo Scherzo della sinfonia classica qui muore e risorge nell’estrema trasmutazione affettiva del ricordo.

La danza morava dai ritmi rudi e vivamente sbalzati è certamente connessa a ricordi d’infanzia del musicista e s’intreccia col frenetico ritmo di valzer del presente viennese: la citazione – e l’autocitazione – diventa affermazione della propria storia e della propria individualità, ma, soprattutto, attesta, grazie a illuminati e illuminanti interpreti come Valčuha, l’assoluta modernità – stavo per dire attualità – linguistica di Mahler, quell’ineffatibile brivido che ti prende ogni volta che, con lui, ti lasci trasportare nell’esplorazione inesausta di suggerimenti e suggestioni, tensioni e pause: ha le inconfondibili morbide ariosità di un ballabile ciaikovskiano il momento centrale di sospensione, tristezza vitale, in fondo, sotto forma di levità ed eleganza – Mahler conobbe il compositore russo proprio nel 1888, data della prima stesura di Titan – ben al di là di un semplice omaggio formale.

Ma certamente è il terzo movimento il cuore oscuro della composizione e Valčuha riesce a rendere a perfezione il senso insieme ironico e spettrale, parodistico e ossessivo che sempre suscita in noi l’ascolto di questo brano. La sobrietà del gesto trasmuta in ironia ma, al tempo stesso suggerisce tragedia, le interiezioni musicali dell’Orchestra risaltano e si stagliano perfette, la tiritera lunare del Frère Jacques è tanto tanto vicina alla filastrocca originale dei bambini, riportandoci al Fra Martino della nostra infanzia e ai suoi fantasmi e alle sue allettanti magie, attraversata com’è dalla brahmsiana ventata di sapore ungherese, dosata alla perfezione, mentre l’intermezzo lirico del Lieder eines fahrenden Gesellen ha veramente l’effetto e la funzione dell’occhio del ciclone, assoluta pausa dal dolore e dalla passione che tuttavia ti accorgi divenire essa stessa specie diversa di dolore, opaca luce in questo inferno della metamorfosi ultima del mezzo musicale.

A fronte della ripresa del Frère Jacques, attonito e desolato, e dell’esangue e sinistra dissolvenza con cui termina, Valčuha riesce a conferire all’incipit dell’ultimo movimento il carattere procelloso e pugnace che l’Autore intendeva attribuirgli, in perfetta antitesi, ancora una volta, col sognante e sospeso motivo che segue, ricco com’è di echi ciaikovskiani. Il gigantesco movimento, vera ultima metamorfosi della forma sonata, s’avvia verso il suo centro, e la sua fragorosa chiusura, transizione verso un sognato Paradiso, tra citazioni lisztiane e, ancora una volta, dell’ultimo Wagner. L’Orchestra asseconda, in stato di particolare grazia, il gesto sempre misurato e senza sbavature del Direttore, noi nella dimezzata platea e nei palchi sparuti altro non possiamo che apprezzare lo spessore del suono, dell’acquisita maestria, dei tempi perfetti, fino a sciogliere tensioni e affetti in un lungo e liberatorio applauso.

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