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L’orlo visionario de I Giganti della Montagna

L’orlo visionario de I Giganti della Montagna
Fermata Spettacolo

“Su un carretto di fieno, una donna nuda; coi seni all’aria e i capelli rossi sparsi come un sangue di tragedia”, nuda come la verità, ma anche come la poesia, perché “se non si spaventano, vuol dire che sono dei nostri e sarà facile intenderci”, e poi “quando s’è pazzi, tutto è possibile. Forse son loro”. Qui al Teatro Mercadante di Napoli va in scena I Giganti della Montagna, ultimo lascito di Luigi Pirandello, nella lucida e fervida visione di Gabriele Lavia, spettacolo che fu rivelazione della scorsa Stagione teatrale, adesso finalmente giunto anche a Napoli: e fin da subito, prima ancora che le luci si spengano in sala, nel confuso chiacchiericcio del pubblico che precede la rappresentazione, ti appaiono chiare le intenzioni del mattatore della serata, attore e regista insieme – regista e metaregista, si potrebbe dire, nei panni di quel regista ante litteram che è Cotrone – palese l’accento che intenderà mettere alla sua personale interpretazione del capolavoro incompiuto di Pirandello.

Prima di tutto il Teatro, certo, e te ne accorgi dallo sbrindellato, consunto velluto rosso violaceo del sipario, nelle quinte ormai marcite, tenute assieme alla bell’e meglio dallo spago che, ancora per un po’, confida di resistere alle sollecitazioni della messa in scena, il teatro che diventa, posto sul palcoscenico del Teatro, atto primo di una non scontata metateatralità, che se è vero essere un dei compiuti sigilli pirandelliani dello svelarsi della verità è, pure, segno e sacramento, potremmo dire, di una rivendicazione estrema del travaglio dell’atto creativo. Disegna così sulla scena, Lavia, con la complicità attenta e sagace della matita di Alessandro Camera, al sollevarsi di quel deserto e logoro velario, una cavea teatrale del tutto simile a quella in cui sei seduto tu, se non fosse che quella che osservi sulla scena, seduto sulla tua poltrona, è diroccata, come colpita da un terremoto antico e devastante, crollati in parte i palchi, ridotti a maschere vuote, divorate le colonne e i pilastri che ancora si reggono in piedi, distrutte e perdute molte delle poltrone della platea, consegnate alla polvere grigia e afosa e agli affanni del tempo le rade rimanenti: se da una parte l’impressione è quella d’un teatro ormai in rovina – “per i topi, era sempre chiuso. Anche se fosse aperto non ci andrebbe nessuno… pensano d’abbatterlo… per farci un piccolo stadio… no, no, ho sentito che ci vogliono fare uffici” – dall’altra non riesci ad evitare la metafora dello specchio in cui si riflette inevitabilmente il teatro nella realtà, presagio sconcertato d’un futuro incerto – “ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo faccia a faccia” – e, insieme, visionaria rivelazione dell’autentica sostanza delle cose, al di là delle apparenze consolatorie e rassicuranti.

E tuttavia in questo ambiente così particolare, la festosa esplosione di coloratissima vitalità degli abitanti della Villa Scalogna segna, crediamo, un punto di non ritorno rispetto alle messe in scena precedenti, lontanissimo sia dalla problematica contemporaneità ascetica, astratta e iconica di Strehler, sia dal realismo metafisico e mediterraneo, passionale e lirico di Bolognini; sottolinea, Lavia, con i colorati costumi dei giovani interpreti degli Scalognati, ideati da Andrea Viotti, la loro fantasmatica origine, puramente spirituale, che riguarda pure i personaggio suo, Cotrone, sorta di mezzosangue, avatar dello stesso Pirandello, mezzo uomo e mezzo spirito: “noi facciamo al contrario: dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo ugualmente vivere. I fantasmi… non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi”.

Rende in tal modo esplicito, Lavia, il travaglio creativo che ha accompagnato la complessa origine del testo, scritto in più riprese da Pirandello, riflettendo dunque diversi stati d’animo e dissimili situazioni di vita: in particolare il primo atto, pubblicato già nel 1931 con il titolo I fantasmi e che l’Autore riprenderà in mano qualche anno dopo, già malato e consapevole della morte imminente, scrivendo il secondo atto di quello che prenderà, per l’appunto, il titolo de I Giganti della Montagna. Così, accanto alla riflessione sull’atto creativo dell’arte e del teatro in particolare, sul suo diffuso e oscuro malessere, sulla sua profonda e irrimediabile inutilità in un mondo sordo e cieco, si aggiunge l’attenzione metafisica agli “altri esseri di cui nello stato normale noi uomini non possiamo aver percezione, ma solo per difetto nostro, dei cinque nostri limitatissimi sensi”.

La realtà, come la verità, è possibile (ri)crearla dal nulla – perché è fatta di nulla – cercando di ritornare i bambini che eravamo un tempo e che sono imprigionati dentro di noi, oppure vecchi, come la Sgricia (Matilde Piana) che evoca lo spirito della novella de Lo storno e l’Angelo Centuno, disperazioni, voci, grida, “ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere”, un mondo invisibile di cui Lavia riesce suggestivamente a ricreare essenza e atmosfera, tutt’uno con il potentissimo inno d’amore per la vita, scritto dal Poeta nascosto dietro ogni parola del testo densissimo, tanto più alto e forte quanto più vicino alla fine, che fortemente s’imbeve e s’ubriaca di forza vitale e che l’attore con puntiglio esegetico sa tirar fuori con maieutico e provvidenziale puntiglio, in “una continua sborniatura celeste”, respirando “aria favolosa”, perché “tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi”.

Si comprende meglio, allora, in questa luce, l’arrivo de “gli ultimi resti”, giunti come i Magi alla grotta di Betlemme, curiosi ma ignari, stanchi perché ancora gravati dai limiti, dalle meschinità, dalla disperazione degli attori, sacerdoti dell’arte che però avvertono ancora tutto il gravame che il sangue e la carne portano con sé: la Contessa spoglia (Federica Di Martino), il Conte “senza più contea né più contanti” (Clemente Pernarella), Battaglia (Gianni De Lellis) generico-donna “svagato piuttosto, per la stanchezza e la fame”, sono espressione dell’eterno conflitto pirandelliano tra l’assoluto del poeta e della sua fantasia e incommensurabile pochezza della rappresentazione, che si serve della carne dell’attore per riecheggiare, se pure in modo imperfetto, l’eterna vita del personaggio. Non si tenta nemmeno una conciliazione, ma, nonostante le apparenze, c’è modo di riconoscersi vicendevolmente come fatti della stessa pasta, dello stesso tessuto: come nota Quaquèo (Ludovica Apollonj Ghetti), i nuovi venuti sono simili a loro, gli scalognati abitanti della villa Scalogna, “tant’è vero che anche a loro, la nostra, è parsa rappresentazione”, ma Cotrone placa subito gli entusiasmi: “spiego tanto ai miei, quanto a voi. Siamo tutti in errore, signori miei”.

L’apparizione della Contessa, “che giace sul verde di quel fieno coi capelli sparsi, color di rame caldo, l’abito dimesso e doloroso, di velo violaceo, scollato, un po’ logoro, dalle maniche ampie e lunghe, che facilmente ritraendosi le lasciano scoperte le braccia”, è come improvviso rivelarsi del bene e del male dei primi uomini, epifania del dolore e della comprensione insieme e mostra d’un tratto, inaspettata, la pacificazione dell’insoluto, fino a quel momento, dualismo dell’animo di Pirandello, diventa agnizione della presenza della poesia, attraverso il mito, nell’arte della commedia, il reciproco e impensato riconoscersi, improvviso e ansioso, figli dello stesso padre. Lavia, anche attraverso l’uso dell’accento siciliano, della canzone siciliana, della musica evocativa di quella terra, scritta da Antonio Di Pofi, e alla sapienza delle luci di Michelangelo Vitullo, ci riporta a “quella notte di giugno” in cui, come ci fa sapere Pirandello in un frammento ritrovato tra le sue carte dopo la morte, scritto non si sa quando, “caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altopiano d’argille azzurre sul mare africano”.

È qui, dunque, in questa Sicilia patria comune che Lavia situa senza dubbio “gli orli della vita”, dove (ri)scopre il senso estremo dell’opera ultima – e incompiuta – di Pirandello, portandoci per mano, attraverso l’interposto personaggio di Cotrone, immediatamente immergendoci nell’acqua salsa e fantasmatica del Mito, che diventa, allora, l’unica possibile chiave di lettura per decodificare la realtà, insieme fondendo veglia e sogno, teatro e poesia, epica e favola, apparenza e sostanza, in un continuum fatto di fantasmi, evocazioni, suggestioni, sussurri. La realtà – la verità – in tal modo integrata, la realtà dispercepita, ma pienamente accolta e integrata ad un superiore livello, la (sur)realtà che il mondo e le cose, per un paradosso spinto all’ennesima potenza, fa cogliere più immediatamente al nostro sentire, può allora con più facilità mostrarsi agli uomini, a noi che sediamo giù in platea, un po’ Giganti e un po’ fantasmi, senza timore d’esser respinta.

E di questo fantastico tessuto, fatto della stessa stoffa dei sogni, alcune immagini le porteremo per sempre dentro di noi, per l’inaudita forza visionaria che posseggono: così l’incantesimo della luna, così l’apparizione di Maddalena (Beatrice Ceccherini), rossa eruzione della forza procace e incrollabile della vita, così l’improvvisa evocazione delle Donne durante la rappresentazione de La favola del figlio cambiato, così il gruppo dei Fantocci, in cui la perfezione del gesto mimico evoca e allude ad una surrealtà che trova altrove le sue radici, fino alla saggia scelta di Lavia di chiudere la rappresentazione nel punto esatto dove Pirandello l’ha lasciata, tralasciando l’epilogo raccontato dal figlio del poeta, raccolto in punto di morte. La cavalcata dei Giganti, che non vediamo, ma di cui udiamo, fortissimo, l’ansioso energico galoppo intorno a noi, evoca estreme possibilità, lascia libera la nostra fantasia, chiude la rappresentazione e la vita del Poeta nel modo da lui stesso immaginato e descritto, nel frammento di cui prima si diceva: “Appena liberato d’ogni illusione dei sensi, sarò come quell’inavvertibile spruzzo improvviso in cui s’estingue una bolla di sapone. Luce e colori, movimento; tutto sarà come nulla. E silenzio”.

L’orlo visionario de I Giganti della Montagna
Fermata Spettacolo



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