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Tre rotture, opinioni d’un teatrante della surrealtà

Tre rotture, opinioni d’un teatrante della surrealtà
Fermata Spettacolo

Ha l’andamento d’una partitura musicale, potremmo dirlo Concerto per Soli in Coppia in tre movimenti, questo Trois ruptures, Tre rotture di Rémi De Vos, messo in scena ieri ed oggi qui al Napoli Teatro Festival: è il Cortile delle Carrozze di Palazzo Reale che materialmente ospita la pièce, grazie al fiorentino Teatro di Rifredi e al regista Angelo Savelli che già nel recente passato han portato in Italia un altro testo di quest’autore francese ancora poco noto qui da noi ma già tradotto, invece, in quindici paesi, Alpenstock, dedicato ai problemi della xenofobia. Della coppia e dei suoi problemi si parla invece in Tre rotture, tre coppie di coniugi che si lasciano, testo asprigno in salsa humor freddo che si articola in tre movimenti, come si trattasse, appunto dello sviluppo, logico e sintetico, d’un tema di fondo che si struttura variamente e coerentemente arrivando ad una conclusione che può essere anche lontana dalle mosse di partenza.

Osservazioni d’entomologo sulla “coppia moderna”, di fatto descrizione accurata che s’avvale talentuosamente, provvidamente, efficacemente, dei canoni e delle stigmate proprie – e contemporanee – della tragedia violenta e della sagace commedia umoristica: l’Autore parla esplicitamente di violenza sociale che, riflettendosi all’interno della famiglia, come in uno specchio, risolve la tensione in risata, mentre la coppia, i corpi stessi della moglie e del marito, trasmutano in avatar di qualcosa che, in effetti, risiede altrove ma che qui, nell’ambiente quotidiano della famiglia, ha la possibilità di essere rappresentato. All’umorismo l’Autore non assegna il compito di attenuare o cancellare la violenza, ma di essere il medium attraverso cui l’aggressività può essere rappresentata senza cadere nell’indicibilità dell’orrore: via di mezzo tra sentimento del contrario, epifania improvvisa della verità, e tristezza ilare e malinconica insieme d’una rappresentazione della realtà che non ne è fotocopia ma invece specchio, riflessione, (ri)pensamento.

Così, la rappresentazione, in fondo semplice e lineare, delle tre coppie, interpretate dagli stessi attori, è organizzata in tre distinte sequenze di durata pressappoco uguale: le coppie vengono colte nel momento acuto della crisi, in situazioni che sono emblematiche di alcune problematiche della società odierna, in qualche modo legate al maschile e al femminile, declinate in tutte le possibili gradazioni e tonalità, dal machismo alla ricerca di un ruolo per la donna, alla confusione di genere, per arrivare infine al bambino e alle incognite che si legano alla sua nascita, il tutto secondo il punto di vista della rottura: da quella della relazione sessuale, passando attraverso quella parentale, per arrivare infine a quella sociale.

In verità, la scelta di far interpretare agli stessi attori le tre crisi, finisce inevitabilmente – e l’effetto credo sia in gran parte previsto e voluto – per far da collante, per idealmente unificare le vicende: insomma, più che una dislocazione spaziale, con tre famiglie diverse colte in tre diversi luoghi, c’è una dislocazione temporale, come se il racconto sia fondamentalmente uno, anche se articolato in tre momenti, in tre “tempi”, appunto. A questo contribuisce anche la scena, disegnata da Federico Biancalani e costruita come una scatola scenica centrale – surrogato della casa, certo, ma pure matafora d’un metateatrale palcoscenico – su cui si aprono tre ambienti, normalmente chiusi da grandi veneziane. Di volta in volta un figurante in camice bianco apre una delle tapparelle dietro cui si celano oggetti sempre diversi e specifici per quel particolare segmento di storia e i due attori, in abiti ogni volta di differente foggia e colore; due manichini sono poi su un lato della scena, icone del matrimonio, inconfondibili abiti da cerimonia nuziale.

All’inizio del secondo segmento, tuttavia, l’uomo in camice toglierà gli abiti ai due manichini, che si riveleranno, allora, come torsi anatomici, su cui sono dipinti gli organi, quasi a sottolineare come, attraverso l’esperienza sempre più catastrofica di queste coppie, si arrivi ad un progressivo “spolpamento” dei protagonisti: via la pelle dopo il primo episodio, il secondo si porterà via qualche muscolo e qualche organo – viene portato in scena un autentico torso anatomico già scarnificato per metà – e alla fine la pièce si concluderà con l’arrivo di uno scheletro, quasi a mostrar ciò che rimane di noi dopo la “cura”. E la cura del matrimonio ci vien mostrata, allora, di volta in volta, attraverso un diverso colore degli abiti, uno specifico oggetto, un quadro particolare; in tutte le situazioni, poi, “qualcosa” o “qualcuno”, intervenendo dall’esterno, determina la rottura del precario equilibrio coniugale.

Nel primo episodio, infatti, che si svolge intorno ad un tavolo, per un’ultima cena prima dell’addio, il motivo del contendere è la cagna del padrone di casa, di cui lei è particolarmente gelosa: la violenza della situazione, con lei legata sulla sedia costretta a mangiare il cibo per cani in un esasperato quanto paradossale contrappasso, illustra perfettamente lo spirito di quest’autore, che riesce a raccontare l’inenarrabile violenza dell’oggi facendocelo digerire ricorrendo ad un’ironica surrealtà, che allo stesso tempo inquieta e rassicura, grazie alle luci crude – di Roberto Cafaggini – che scandagliano gli abiti – neri, in questo caso, come lo spirito distruttivo – dei protagonisti, mentre il gran quadro degli Amanti di Magritte, appeso alle spalle dei due, se nella velatura dei volti degli amanti dà la misura dell’impossibilità di comunicare, di spiegarsi, dall’altro indica una realtà invisibile agli occhi e alle percezioni, tuttavia reale e comprensibile oltre l’apparenza delle cose.

Il nero del primo quadro s’accende del rosso fuoco della passione sessuale nel secondo: intorno ad un letto rosso, i due coniugi, in vestaglia rossa e parrucche – ovvio – rosse, discutono del problema che li porterà alla rottura: lui, pur non riconoscendosi omosessuale, si è innamorato di un pompiere. Al paradosso della situazione, che evolve anche qui nella sopita, mistificata violenza delle minacce di morte quando lei decide di por fine al matrimonio, e alla sua sconcertante comicità, fa da terribile contrasto il quadro scelto per far da sintesi, il pannello centrale dei Tre studi per una crocifissione di Francis Bacon , il corpo accartocciato e dilaniato sul letto al centro d’una stanza rossa dalle finestre nere come orbite vuote.

Violenza che è presente anche nel terzo segmento della pièce, due coniugi in pigiama alle prese con un dispotico bambino di cinque anni, caricatura ma non troppo di certi pargoli odierni; in questo caso la veneziana si alza quel tanto che basta per far entrare in scena l’oggetto di turno, una copertina-tappetino con i giocattoli del bambino, non c’è un quadro, ma piuttosto mi è sembrato di vedere, nelle parole e nella situazione, un riferimento a Opinioni di un clown, il libro di Heinrich Böll cui è legata la mia giovinezza, al rapporto ossessivo e totalizzante tra i due coniugi Hans e Maria, costretti anche lì dalle circostanze alla separazione forzata, anzi alla rinuncia all’amore, ad assistere impotenti alla sua mutazione nel suo deforme opposto.

Ma a colpire è soprattutto la scrittura stessa della pièce, così elegantemente e perfettamente costruita come si trattasse d’un’opera in musica, e non in prosa, in cui il perfetto rigore dei tempi, matematicamente calcolati, restituisce, invece, e sorprendentemente, una indicibile sensazione di libertà all’interno di un universo altrimenti asfittico e anancastico, frutto delle nevrosi del vivere. E poi ci sono gli attori, Monica Bauco e Riccardo Naldini, attraverso i cui corpi si rappresenta questa tragedia umoristica musicale, attenti a continuamente entrare e uscire dal sottile sentiero costruito dall’Autore, perennemente in bilico tra realtà e fantasia, fumetto e dramma borghese, in una ragnatela di riferimenti che è fatta di sguardi, inflessioni, tempi precisi come orologi. A loro, e al regista, va il lungo e sentito applauso del pubblico.

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