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Madama Butterfly la sposa turca di mare e d’ombra

Madama Butterfly la sposa turca di Mare e d’ombra
Fermata Spettacolo

Ti siedi nel gran Teatro di San Carlo, a Napoli, in una sera di questo maggio così ancora umbratile e invernale da sembrar fuori posto venir qui a vedere il paese del mandorlo in fiore, accecato dal sole e ubriaco di profumi (troppa luce è di fuor, e troppa primavera dirà Butterfly alla fine, chiudendo la porta per sempre all’aria e alla vita) e ti sembra, forse per questo, ancor più irritante la voce del mare che la regia ha deciso di far ascoltare potentissima, quasi ouverture dell’opera firmata Ferzan Ozpetek. Il mare, potentissimo simbolo e icona nel mondo della nostra contemporaneità, ha una sua voce inconfondibile che si mischia, in questo caso, al gracidio del pubblico che, lento, prende posto, al saluto degli amici, agli accordi degli orchestrali che giù in buca provano gli strumenti e i motivi. Ci pensi: il mare non manca certo, in Butterfly, Pinkerton è marinaio, paragona se stesso e il proprio esistere ad una nave, la stessa protagonista raffronta il suo amore alla tenerezza sfiorante e pur profonda come il ciel, come l’onda lieve e forte del mare; e tuttavia dista molto, la casa in collina di Butterfly, dal mare, visto di lì credo diventi solo una striscia azzurra su cui scorgere un fil di fumo, uno speranzoso e futile pensiero d’attraversarlo per andare in quel gran paese del suo sposo, ti sembra un po’ fuori luogo tutto quell’odore e quel sapor salmastro in un’opera fondamentalmente terricola, non ti va un rimaneggiamento che si potrebbe rivelar rischioso per la concezione stessa di questo capolavoro, un po’ come lo stesso Ozpetek fece con Traviata, grande operazione visionaria ma che tradiva, alla fin fine, la concezione verdiana. E Puccini, non è forse addirittura più esposto, più fraintendibile di Verdi, con le sue creaturine dalla fragile apparenza, dalla spesso inesplorata forza, che più si prestano ad un abuso superficiale e strumentale?

Certo, è opera, Butterfly, senz’altro di gran richiamo popolare, lo è sempre stata, fin da subito dopo il disastroso esordio, anche (soprattutto?) fra i non melomani: popolarità che sfiora la popolanità nell’accento sentimentale e commovente che, sicuro, è parte del bagaglio fascinoso e vago del Puccini della prima sua maturità, anzi chiude, l’opera del japonisme asimmetrico e impressionista, quel fecondissimo fortunato periodo delle Manon, delle Mimì e delle Tosche, ma che qui si scopre – con attonito stupore – l’essenza sua intessuta di stoffa più pucciniana di Puccini, ed è strano destino, per una partitura invece rigorosissima e misuratissima, ad ascoltarla senza messa in scena, nell’uso sapientissimo dei leitmotiv che si compongono e scompongono con wagneriano artifizio e nell’abilissimo metamorfico riciclo (documentatissimo Puccini come sempre) di temi popolari giapponesi e nordamericani insieme ad altri che, invece, riconosci pucciniani lontano un miglio. E il Maestro pone questa scrittura densa, rigorosa ed elegantissima interamente a servizio dell’ordito teatrale, della suggestione emotiva che questo lavorar di bulino può nella compiutezza suscitar nell’utilizzatore finale, lo spettatore, cioè, che, indifeso, siede in sala e si commuove.

No, non ha bisogno d’altro, questo melodramma, per viver la vita sua autonoma, che della sua musica, dei suoi versi, della sua drammaturgia, tantomeno di potenti icone come il mare, che rischierebbero, per un eccesso di malinteso romanticismo patinato, di mangiarsi la fondamentale concezione che sta alla base di quest’opera, la diversità, cioè, la (quasi) impossibile comprensibilità e compenetrazione di diverse visioni del mondo e delle cose. Regia (basta, in questo caso, il nome per immaginarla ancor più cinemà di quanto già non sia) e direzione musicale (garantisce la gran professione e l’arte di Gabriele Ferro) non hanno (non dovrebbero aver) altro compito, se non d’assecondare il Maestro nei suoi intenti, lasciandolo fare come lui sa fare. Quando, alla fine, il sipario s’alza, in questa prova d’assieme, noti prima di tutto due cose: la prima è il grigiore d’ombra della scena, magistralmente disegnata, certo, dalle matite di Sergio Tramonti, ma piuttosto buia, le giudiziose luci di Pasquale Mari non illuminano più del necessario a distinguer decentemente l’ambiente, la casa di legno e carta di riso ha le travi oscurate dal tempo come quelle d’un’antica cattedrale, sembra più la polverosa baracca di Minnie che il fiorito asil del paese del sol levante, un’aria fosca sembra spirare su case e abitanti del villaggio, vestiti da Alessandro Lai di colori spenti e uniformi, tanto da far sembrare un colpo nell’occhio la candida divisa di Pinkerton.

La seconda cosa che noti è – naturalmente – il mare. Il mare è una immane parete d’acqua oscura e in tempesta, che, a partire dalla linea di fondo del palcoscenico, dove la teatrale macchina a rulli del mare ne simula lo sciabordìo a riva alla maniera antica, sale sale incrociando onde e marosi schiumosi su su fino a infrangersi in buie scogliere, che non contrastano affatto col cielo, tempestoso e nuvoloso, che le opprime, piuttosto che illuminarle, confermandole nella luce livida d’un’eterna penombra. No, non ha proprio nulla di festoso, questo mare e questo villaggio costruito sulle sue rive, nulla di felice e vivo hai l’impressione possa accadervi, forse perché, e sarebbe da chiedersene ragione, il regista ha deciso di spostare l’azione d’una cinquantina d’anni in avanti, lasciando così gli anni speranzosi del secolo che si apre, per piombare in quelli asfittici e chiusi che inaugurano, invece, la seconda parte del Secolo breve, capitando a Nagasaki – e proprio a Nagasaki – pochi anni dopo l’unico conflitto nucleare che la storia dell’uomo abbia finora conosciuto. Non credo sia casuale, questa scelta, non può evidentemente esserlo, così importante è quel luogo in quel tempo per la storia umana, tuttavia, se questo dà indubbiamente ragione del cinereo e bigio ambiente, del sapore di morte che infetta uomini e cose, del tono plumbeo e opaco che assume l’intera scena, trovo che questo faccia singolare contrasto con la musica di Butterfly, opera che, meglio e più di tante altre coeve, è riuscita a cogliere in pieno quella deriva dell’impressionismo visivo e musicale che da noi si chiama Liberty, ma che altrove prende nomi ch’evocano la gioventù e il continuo rinnovarsi, come Jugendstil e Art Nouveau.

Voglio dire, se questa ambientazione dichiaratamente in bianco e nero accentua i toni tragici ed espressionisti della vicenda, toglie tuttavia spessore artistico e psicologico all’opera, ne semplifica i contorni accentuandone i contrasti, compie un’operazione del tutto simile ad una riduzione cinematografica, in cui i protagonisti stessi, nonostante la grande professionalità degli interpreti, e su questo torneremo, son ridotti a puri stereotipi, figure da paravento che non riescono a staccarsi dal lucido fondo di lacca in cui sono immersi; e pazienza per Pinkerton, che è stato concepito esattamente così, per Sharpless e Suzuki, che lo sono in gran parte, ma certo è un peccato per Cio-Cio-San, che meriterebbe ben altro, e questo al netto della prestazione musicale e drammatica offerta dai cantanti dei rispettivi ruoli che, anzi, è anche risultata spesso sopra la media.

Così Cio-Cio-San, prigioniera d’un goffo costume e velo rosso alla turca, omaggio evidente, come nella Traviata mediorientale, alle origini del regista, viene (falsamente) denudata in una scena d’amore molto televisiva, più che altro perché se ne parli, e dello stesso tipo son pure le altre trovate e trovatine, dalle belle ragazze in kimono rosso che girano in sala, a quella, sempre di scarlatto vestita, che sale sull’alta scala a scrutar l’orizzonte quando l’Abramo Lincoln entra in porto, il filmato della Cio-Cio-San che si abbandona al mare (ancora!) durante il Coro a bocca chiusa, le intemperanze ambigue di Goro, quelle meno smaniose di Suzuki, fino all’ormai trito e abusato grido finale del protagonista dalla platea, una fitta serie di elementi di distrazione di massa costruiti apposta per far chiacchiera vuota, non certo per lo scandalo, visto che oggi di questo son pieni i teatri d’opera e prosa del mondo, ma per provocare la reazione di qualche voce tra le più tradizionaliste, che grida (giustamente) allo scandalo, ma per il motivo sbagliato, o per lo sfizio di ravvivare un po’ la tristezza vitale della scena, che non s’illumina nemmeno negli atti successivi, ambientati all’interno della casa di Butterfly, più o meno aperta sul mare oscuro e tempestoso del fondo: il senso d’oppressione e d’angoscia si accentua ancor più, se possibile, con l’evolvere e lo stringere della tragedia, le pareti s’alzano altissime e ferrigne impedendo ogni spiraglio di vitalità e ogni barlume di approfondimento psicologico.

Certo, non mancano momenti di grande visionarietà e potenza non comune, le pareti della casa di carta s’ispessiscono opache in formidabili mura, fortilizio inespugnabile, figura della stessa padrona di casa, che non perde mai, fino alla fine, la propria fede; o l’ombra mattutina dell’idolo di pietra che viene proiettata sulle pareti dal primo sole dell’aurora, all’inizio del giorno più lungo della vita di Cio-Cio-San: attimi di pura poesia, che tuttavia, proprio perché così commoventi, nella verità che riescono a esprimere, fanno risultare ancor più monocromatico il resto, appiattito sul solo registro tragico, derubando Puccini della multiforme ricchezza d’infinite sfumature della sua tavolozza.

Non che la direzione di Gabriele Ferro molto si differenzi, s’intende, offrendo, anche musicalmente, un’interpretazione essenzialmente corretta, certo, ma grigia e polverosa quanto la scena, forse perché influenzata dallo spirito di quella, senza guizzi, senza luce, nemmeno nei momenti in cui dovrebbe animarsi e dare il brivido allo spettatore, come la vivida attesa che precede la scoperta dell’identità della nave americana che entra in porto e che si scioglie nella gioia e nel trionfo leggendone il nome. La musica si limita dappertutto ad accompagnare in modo alquanto didascalico la vicenda, coinvolgendo anche gli artisti del Coro, diretti da Gea Garatti Ansini, che si vedono rubato il clou della loro prestazione, il Coro a bocca chiusa, ridotto a far da colonna sonora al filmato girato per l’occasione che, in tutta evidenza, nella concezione di Ozpetek, è più importante della partitura. Tutto ciò, lungi da esser utile alla comprensione della musica, che dovrebbe essere il compito primo della regia, ci restituisce alla fine un Puccini incredibilmente asettico, monodimensionalmente tragico, ignorando il continuo rimescolarsi della musica del Maestro, quello sì, come il mare, che possiede però intero lo spettro dei colori possibili, lasciandoci immaginare anche quelli impossibili, riaffermando, di fatto, lo scontato topos del Puccini abbandonato (e condannato) al sentimento e all’emozione, il che non aiuta di certo il cast dei protagonisti.

Nonostante questo, e nonostante soffra, il personaggio suo, di congenito, intenzionale squallore, Ivan Magrì riesce ad chiudere positivamente la sua performance, offrendo al capitano Pinkerton le doti naturali che gli sono proprie, la bella voce dal timbro lirico e dotato d’acuto svettante e brillante, che molto lo aiutano soprattutto nel lungo duetto d’amore del primo atto; dal punto di vista della recitazione abbiamo notato un certo salutare, ironico distacco dal personaggio, sempre nel primo atto, che non può far che bene a certi toni imbalsamati tipici di certo recitar cantando. Più avanti, nel finale in cui ricompare in scena, tuttavia, è da segnalare un lieve calo di tensione e il già ipocrita e incolore Addio fiorito asil riesce inespressivo quanto basta alla misura del personaggio. Claudio Sgura offre al suo Sharpless meditato e preoccupato la grande professionalità sua, che gli fa superare brillantemente la prova; il personaggio non presenta, è vero, particolari difficoltà vocali – che comunque non fornirebbero certo motivo di preoccupazione per il baritono pugliese – ma, sul piano drammaturgico, finisce spesso per oscillare tra buonismo e cinismo, disincanto e affettazione. I toni del diplomatico in principe di Galles sono invece parsi sempre quelli giusti, nell’interpretazione di Sgura, di paterno affanno per il giovane incosciente e la giovanissima ragazza, accomunato in questo con una Suzuki iperprotettiva e inquieta. Anna Malavasi interpreta la cameriera personale di Cio-Cio-San con densità e profondità pari alla sua bella voce scura e vellutata, che fa uscire Suzuki dalla convenzione, non certo aiutata in questo – vale anche il per Goro di Massimiliano Chiarolla, che offre un’ottima caratterizzazione del personaggio, ambiguo e perverso come di dovere – dalla trovata registica adottata per questo personaggio, cui già abbiamo accennato: l’accenno di un bacio con la protagonista, nel momento di massima intimità tra le due donne, fa il paio con il mai abbastanza deprecato gesto della giarrettiera agitata da Giorgio Germont nella Traviata dello stesso Ozpetek, gesti inutili all’economia drammatica dell’opera, che, anzi, portano del tutto fuori strada, rivelando solo spiccatissimo senso della bottega da parte di chi lo architetta e lo pensa.

Soffre, infine la Cio-Cio-San di Evgenia Muraveva dell’oscura cortina tragica che il regista ha innalzato attorno a lei, risultando, in tutta evidenza non per colpa dell’interprete, la sua Butterfly un personaggio monco, amputato orrendamente di tutta la sfaccettatura di tinte e sfumature, d’ingenuità e durezza che fa unico il personaggio: la cantante russa ha sicuramente il temperamento drammatico che serve alla regia e poi elegante tecnica vocale, ottima presenza scenica, la tensione è crescente con il progredire della tragedia, che trova, evidentemente, in lei l’interprete ideale, tuttavia, per esempio, il suo Un bel dì vedremo risulta, a ben vedere, chiuso ad ogni sottile ma palpabile sfumatura di gioia repressa, d’attesa febbrile, d’umiliazione e d’isolamento, d’incomprensione, di pianto trattenuto, tragicamente monocorde come tutta la rappresentazione. Da risentire in altra occasione.

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