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La cognizione del dolore di Die Walküre

La cognizione del dolore di Die Walküre
Fermata Spettacolo

“L’opera è lì, la vediamo ma non riusciamo a raggiungerla”. È Giulio Paolini che parla dell’arte sua, dell’eroe artista, del gesto creativo, dunque, inteso come eroico, dell’impossibilità, per l’artista e per chiunque, di afferrare, alla fine, il senso più profondo e intimo dell’opera d’arte. Siamo a Napoli, al Teatro San Carlo, sulla scena – creata dal genio concettuale di Paolini – di Die Walküre, l’opera wagneriana del Ring forse più amata in Italia, vuoi per certo suo spirito italico d’umanità ribelle ad ogni lacciolo, che si riverbera, come ovvio per Wagner, nella musica, vuoi per quel tanto sentir più vicino e paragonabile all’opera italiana, alla forma chiusa, al canto più disteso rispetto al recitato musicale che è perfetto linguaggio musicale e drammaturgico dell’autore di Oper und Drama, il “libro dei libri sulla musica”, come lo definiva Richard Strauss.

La regia di un grande uomo di teatro come Federico Tiezzi – che, tra l’altro, sempre, nei suoi allestimenti, pone al centro l’aspetto visivo o visionario che dir si voglia, e specificamente pittorico – insieme ai sontuosi – nella loro stupefacente e disarmante semplicità – costumi firmati da Giovanna Buzzi, e alle citate scene di Paolini, portarono questo allestimento sancarliano, dell’ormai lontano 2006, al Premio Abbiati. E, certo, se la regia di Tiezzi altro non è se non riflessione sul linguaggio del teatro, in parallelo alla riflessione wagneriana sul linguaggio della musica, dove l’azione non s’invera nel “tempo reale” ma diventa invece memoria, (ri)vissuta, di tragedia atavica, di brennend Weh’, bruciante dolore che si rinnova, la scena di Paolini, per contro, chiara e tersa come una perduta innocenza, si veste dei colori dell’aurora e del crepuscolo – solo alla fine s’affocherà d’uno scarlatto che sa di sangue più che di fuoco – per ospitare segni che, da sempre, sono le viventi stigmate dell’artista genovese: ripensare, da un lato la prospettiva del Rinascimento bramantesco, dall’altro la forma classica, improvvisa manifestazione della cognizione del presente.

Cos’è, infatti, l’enorme struttura d’acciaio che sepimenta lo spazio del palcoscenico per tutta l’opera, se non l’insieme di linee di fuga che consentono all’artista di costruire la figura nello spazio? Uno scheletro prospettico, potremmo chiamarlo, che nella sua complessa essenza, con almeno tre stratificati livelli d’apprendimento e possibile conoscenza, crea al suo interno la possibilità di generare immagini, e dunque il mondo, utero gigantesco e in ogni istante gravido, ma, al tempo stesso, nell’atto stesso di metterle al mondo, quelle immagini, le rende visibili ma del tutto inafferrabili, concettualmente incomprensibili, se non attraverso una sofferta pedagogia e cognizione del dolore, in tutto simile a quella dei protagonisti della tragedia del Ring, redenti solo attraverso la conoscenza del dolore. Così, Nel Primo Atto, piatte strutture bidimensionali evocano l’arte visiva prima, la pittura, come forme semplici che abitano il primo, e più prossimo alla platea, dei livelli: diventa così, la gigantesca prospettiva, la casa sul frassino di Hunding e Sieglinde, protettiva ma segregante, sicurezza in cambio di libertà, al centro la rappresentazione pittorica – e dunque bidimensionale – del frassino, forma elegante e sinuosa che, al tempo stesso, evoca anche la fiamma – immobile e fredda, come l’amor coniugale che qui abita – del focolare domestico.

Al suo centro, una cornice di mogano, sbilenca, vuota, con il vetro rotto, nel suo apparente infelice disordine indica tuttavia qualcosa: Notung, spada del dolore e della hybris, è lì, in bella vista e nondimeno invisibile all’occhio che non sappia coglierne significato e senso, opera d’arte e d’arme impossibile da raggiungere se non con un gesto estremo come un atto d’amore, incomprensibile alla logica umana, eroico come un gesto artistico che sfidi le convenzioni e le paure del mondo oscuro di Hunding, impresa che sappia creare il futuro piuttosto che ripetere il passato.

E dunque, se le figure dei famigli di Hunding, sullo sfondo, si agitano nell’ombra come violenti fantasmi dell’odio, se tavolo e sedie ostentano, con la loro immacolata imbottitura e la splendente doratura il farisaico decoro borghese, der Gottheit nichtigen Glanz, il vuoto splendore della divinità che, nauseato, Wotan lascerà in eredità al figlio del Nibelungo, Wonnemond, la luna voluttuosa, vincerà, alla fine, le bufere invernali, diventando opaco riflesso bianco sul cielo grigio che lentamente trascolora in nero, la primavera irromperà sulla scena e nella musica mentre i gemelli valsidi conosceranno l’amore per la prima volta.

Poi, nel secondo atto, lo scheletro prospettico genera, al secondo livello, un gigantesco cippo classico – epifania della conoscenza del presente – ma lo spazio è oberato, occupato, in qualche modo minacciato da gigantesche rocce oscure: se queste, in qualche modo, descrivono meramente la scena, rispondendo alla precisissima didascalia wagneriana, che fa avvenire la prima parte dell’atto su Wildes Felsengebirge, una montagna rocciosa e selvaggia, non sfugge a nessuno il significato allegorico che mostrano: la guerra che incombe, la rovina finale della stirpe degli dei, il fallimento della capacità creativa di Wotan, esplicitata significativamente da camerieri in livrea che portano in mani enormi specchi in cui si ripete all’infinito l’immagine del dio, capace di generare solo servi, null’altro che vuoti riflessi del loro creatore; tutto indica che Sigmund non è l’eroe aspettato, i piani di Wotan vanno in fumo.

Nel terzo atto, infine, lacerti di opere classiche abitano la struttura, inserite in enormi cornici: della scultura ci parla dunque il secondo livello, di brandelli di corpi smembrati degli eroi che si ricomporranno nei morti viventi del Walhalla, la reggia di Wotan sempre evocata e mai mostrata in tutta la Tetralogia, luogo indefinito dell’irrappresentabile e dell’invisibile. Sono naturalmente le Walkirie che si occupano del lavoro sporco, un corpo è su un tavolo al centro, altri vengono trascinati, aria di sala settoria, manca l’odore acre di formalina, etere e putrefazione, la scena combatte l’idea della morte con la perfetta asepsi del bianco assoluto, dello splendore dei costumi delle Walkirie, della musica eroica. Alla fine, quel tavolo diventa un’ara sulla quale si stende Brünnhilde: il terzo livello è l’architettura, che costruisce cattedrali impalpabili di luce, nel bianco assoluto di due classiche scale gemelle, evocazione delle ali del Pergamon, che chiudono la scena, poco prima dell’invocazione di Loge e dell’arrossarsi, radioso e terribile, dell’aria e della luce del tramonto.

Se questa è la scena, se questa è la regia, splendidamente servite dalle luci di Gianni Pollini, la musica occupa tuttavia, come ovvio, il posto centrale: Juraj Valčuna sceglie con grande oculatezza i tempi lunghi e distesi dell’intima tragedia, a tratti addirittura il tono pastello dell’impalpabile elegia, più che quelli, ampollosi e ridondanti, di molta falsa tradizione, lavorando per sottrazione, scarnificando il discorso musicale, rendendolo alla complessità e densità che lo caratterizzano, togliendolo definitivamente dall’ipotesi, propria della facile vulgata, di musica aggressiva ed eccessiva. Più volte l’abbiamo colto, ieri sera, nel gesto ansioso di trattenere, di chetare, di abbassare toni e livelli di suono: il risultato è eccellente sotto molti punti di vista, pur se si son notate imprecisioni e sgranature, a volte, soprattutto in certe sezioni, come ottoni e percussioni, e non desta meraviglia, essendo queste, al di là della indubbia professionalità dei musicisti, lo snodo attraverso cui passano certe possibili intemperanze, dove è obiettivamente più complicato mantenere il controllo, tenere a freno il palpito, il ritmo, la passione che urge.

Per contro, si fanno senz’altro notare certi passaggi, soprattutto affidati al singolo strumento, di chiara bellezza e d’invidiabile e inequivocabile nitore, come per esempio, la voce struggente del violoncello nel primo atto, il tema dei Valsidi, oppure il breve squarcio orchestrale tra la seconda e la lunga e conclusiva terza scena del terzo atto, il tema del malcontento di Wotan che s’intreccia a quello della giustificazione di Brünnhilde, di notevolissimo effetto musicale e psicologico, come anche l’annuncio, per la prima volta, dello squillante tema di Siegfried sulla consegna dei frammenti della spada a Sieglinde da parte di Brünnhilde, che avrà ulteriore sviluppo nel Siegfried, e, sulla risposta di Sieglinde, il tema della redenzione d’amore che riudremo, completamente trasfigurato ed esaltato, alla fine estrema del Ring, a chiuder la scena ultima del Götterdämmerung, l’irrevocabile sacrificio di Brünnhilde che riscatta il mondo e la storia: momenti di puro teatro, di intensa, ineguagliata bellezza che tuttavia si reggono, come spesso accade, sull’estrema semplicità espressiva per chi li sa cogliere ed eseguire.

Coinvolge la prestazione di Robert Dean Smith, heldentenor di lunga esperienza nel repertorio wagneriano: colpisce la voce chiara, l’emissione fluida e senza sforzo apparente, la riserva di fiato che dimostra di avere con la lunghissima invocazione a Wälse, più un vezzo che vera virtù, per verità, debolezza che si fa comunque ampiamente perdonare con un’interpretazione, anche drammaturgica e scenica, sostanzialmente corretta. Una superba Manuela Uhl ci è sembrata incarnare la perfetta Sieglinde, sia dal punto di vista musicale, grazie alla voce assolutamente robusta e adeguata, luminosissima e chiara e un assoluto controllo durante tutta la performance, ma anche dal punto di vista scenico, dando sicura prova di intensa espressività, riuscendo alla fine a delineare, pressoché a perfezione, un personaggio molto più complicato di quanto superficialmente possa sembrare. Anche Liang Li riesce a centrare il personaggio, con potenza e convinzione, donando al personaggio di Hunding, come nella tradizione dei “cattivi” wagneriani, il timbro bello e oscuro, la dizione incisiva e imponenza scenica.

Perfetta anche la Fricka di Ekaterina Gubanova, che caratterizza la breve scena con questo personaggio, nel colloquio con Wotan decisivo per l’evoluzione dell’intero Ring, usando con appropriatezza gli strumenti migliori a sua disposizione, la considerevole voce e le sue non comuni capacità recitative. Egils Silins ha voce ampia, d’indubbia e notevole presenza scenica e, sebbene non abbia il portamento imperiale di alcuni Wotan, scava tuttavia nelle pieghe del personaggio, che non sono poche, restituendoci un’interpretazione a tutto tondo, di un Wotan consapevole più dei suoi limiti che della sua indiscussa potenza, più carico e dolente d’ombre e rimpianti che di divine, incrollabili certezze; riesce dunque a dare, alla fine, un notevole contributo all’approfondimento del personaggio, riuscendo nell’impresa di farcelo sembrare, nonostante sia, di fatto, il vero protagonista dell’intero Ring, insieme a Brünnhilde, e dunque avviluppato nella spirale senza fine della tragedia, nostro contemporaneo, incrociando e intercettando più volte i dubbi e le debolezze, i rischi e le incertezze dell’uomo quotidiano.

Brünnhilde, appunto, l’altra grande protagonista del complesso mondo wagneriano, ha il solidissimo strumento, la voce bella e importante, e contemporaneamente flessuosa e convincente di Irene Theorin. Ormai diventata, nei panni di questo personaggio, non solo in Walküre, ma anche in Siegfried e soprattutto in Götterdämmerung, protagonista per eccellenza nei più importanti teatri d’Europa, il soprano svedese dà sicura prova d’emissione e registro adeguato, che si avvale anche d’indubbie doti attoriali e notevole espressività, anche se occorre registrare un certo affanno sulla terribile sfilza di do del suo primo apparire in scena, forzando e stridendo un po’ il grido di battaglia Hojotoho! Heiaha! delle Walkirie, che non inficia, tuttavia, per nulla, una prova nel complesso più che convincente.

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