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Bohème al termine della notte

Bohème al termine della notte
Fermata Spettacolo

“…È una città, e un cielo azzurro – come solo in certe giornate invernali dall’aria tersa e sottile – s’allarga finalmente a coprire tutta la parte alta della scena. Parigi? Sì, certo, all’orizzonte laggiù, dove il cielo immagini tocchi la terra, un sentore d’Eiffel inconfondibile s’innalza prepotente e unico a giustificare Parigi. Tuttavia, come non pensare – io l’ho pensato – che se al posto di quell’aguzza icona avesse lo scenografo disegnato ambo le gobbe del Vesevo, nulla ci sarebbe stato di male”.

Così scrivevo nel 2015, quando, per il San Carlo Opera Festival di quell’anno, vidi per la prima volta questo che ritengo tra i migliori allestimenti di Bohème cui abbia mai assistito, per la regia di Francesco Saponaro, le scene e i costumi di Lino Fiorito, le luci di Pasquale Mari, e che ritorna in questi giorni al San Carlo, qui a Napoli: evidentemente il tempo ha infuso coraggio alle scelte registiche, ed oggi il Vesuvio è lì, in fondo, sulla sinistra, come nella più oleografica delle immagini della città, ma non al posto dell’Eiffel, che sta, invece, ancora, aguzza come sempre al posto suo, ma insieme ad essa, a testimonianza del sogno, della fondamentale irrealtà dell’impianto scenico, che gioca tutta la sua validità proprio sulla coesistenza di delirio onirico e profonda istanza sociale, scommettendo su una feconda possibilità dell’arte d’incidere, nel profondo, sulla società.

Pare non sia piaciuta molto al pubblico, almeno da quel che si legge in giro, anche se, ovviamente, fan ben più rumore i fischi che gli applausi, e una stroncatura appare, a tanti, ben più vendibile d’un apprezzamento; non è riuscito, probabilmente, il regista – sia chiaro che, se il pubblico non comprende, è responsabilità di chi il teatro lo fa – a far comprendere a molti il suo punto di vista che è ben fuori da qualunque ottica realista. Per amor di verità la recita cui ho assistito, gremitissima come sempre per Bohéme, ha visto solo applausi e mi è sembrata convincere il pubblico, e pure alla prima, molti dicono di un pubblico diviso tra consenso e deploro; d’altra parte, che la lirica continui ad appassionar tanto da dare origine a discussioni, talvolta perfino faziose, è solo indice di grande vitalità.

Certo, ogni regia va inquadrata a partire dalle legittime scelte di partenza, di cui va poi verificata la coerenza interna: così, quel solaio su cui s’apre la scena all’inizio non sembra per nulla rifatta realtà, chiuso com’è tra i palazzi della città, a mezzo anch’esso tra stralunata Parigi che sembra frutto del vaneggiamento di Van Gogh e lastrico napoletano – mio nonno ne aveva uno a casa sua dove ho giocato bambino, lo ricordo uguale in tanti lavori di Edoardo – che si offre alla vista dello spettatore attraverso un piano inclinato, dono gratuito e insieme distorsione e sospensione quasi onirica.

Due quinte chiudono la scena a destra e a sinistra: porte praticabili si aprono dall’una e dall’altra parte, da una entrerà tra poco Colline, dall’altra Schaunard con la sua piccola processione trionfale, evidente citazione dell’ingresso delle vettovaglie nella povera casa di Miseria e nobiltà. Colline è Giorgio Giuseppini, che affronta e vince la prova con la consueta – ormai qui a Napoli è di casa – professionalità, pur nell’ambito di un ruolo che non offre enormi possibilità: la sua Vecchia zimarra esce tuttavia dalla routine, eccellendo soprattutto in credibilità; pure buono lo Schaunard di Enrico Maria Marabelli, che trova i suoi punti di forza nel perfetto fraseggio, nitida dizione, ottima interpretazione.

Mimì, invece, no, non entrerà di qui: tra cielo e terra c’è una scala a chiocciola di ferro, Mimì che abita sola soletta nell’alta cameretta, Mimì ch’esige il bacio dell’aprile facendo di necessità virtù, Mimì verrà per queste scale, come la luce di cui porta il nome – anche se tutti la chiamano Mimì senza saper perché – Mimì che noi sappiamo cara agli dei, verrà a noi scendendo da un imprecisato lassù di gran lunga più in alto d’ogni possibile immaginazione.

La particolare Mimì di stasera, incarnata da Karen Gardeazabal, mi è parsa dotata d’una voce potente e ben proiettata, accompagnata da un’insolita energia dell’interpretazione, mentre scenicamente efficace e dalla voce schiettamente tenorile, invece, è sembrato il Rodolfo di Giorgio Berrugi, di cui si nota l’ottimo controllo, probabilmente dovuto alla lunga frequentazione mozartiana; insieme, nel duetto del primo atto, riescono a compiere la magia pucciniana, traghettandoci tra desideri trattenuti e insolite timidezze, rompendo la quarta parete. E non sempre succede.

Quel che è certo è che lo spettatore che siede in platea e che s’aspettava veder la soffitta di Rodolfo aperta sui cieli bigi solcati dal fumo dei mille comignoli – lo spettator melomane amante della sana tradizione, che sempre amerebbe clonata la stessa identica messinscena fino all’esaurirsi dei secoli per consunzione – può placidamente, questo punto, entrare in crisi, crisi benevola e proficua, s’intende, anzi necessaria alla maggiore ed inesausta voglia d’entrar dentro la partitura e alla fondamentale tessitura teatrale: la patente irrealtà della situazione, la soffitta dei bohémienne trasferita en plein air, le quinte e i fondali dipinti e scopertamente teatrali, i costumi degli attori d’improbabili color pastello, son tutti evidenti segnali del nullo interesse che il regista ha per il realismo.

Come diceva Edoardo nei panni di Campese capocomico de L’arte della commedia, vere strade e piazze appartengono al cinematografo, agli spettatori del teatro può, deve bastare la parola del poeta, scene e fondali sono menzogna dichiarata, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna. A partire di qui, dunque, dalla scelta di non compiere alcun tentativo di (ri)costruzione della realtà, s’aprono per chi il teatro lo fa, da una parte del palcoscenico, e per chi ne fruisce, da quest’altra parte della quarta parete, indicibili e inesplorati spazi d’ineguagliate metafore, di gioco e trastulleria infinita – e d’infinito piacere – sul filo d’una metateatralità che è come un fiume carsico ch’appare e scompare per risorgere più oltre, sempre uguale eppure sempre diverso. In questa pazziella eterna e poetica, unica stella polare non può che essere la musica di Puccini, vero Virgilio di questa risalita verso una desiderata ricomprensione dell’opera, lontano dal gravame e dai laccioli del libretto – il che, evidentemente, non autorizza qualsiasi cervelleria perpetrata da lavoranti senza scrupolo – e che diventa, ritorna ad essere, il vero passe-partout dell’anima. Il resto è, semplicemente, chiacchiera.

Domina allora, nei due primi quadri l’elegia, il canto della giovinezza che tenta invano eternarsi nei colori tenui, nell’affollata caciarosa ammuina del quadro di Momus – di per sé notoriamente complesso, giocando il Maestro un dei suoi balocchi preferiti, il restringersi, cioè, e il fulmineo dilatarsi della scena e viceversa, un gioco da cinemà nella sapiente alternanza dei campi lunghi e corti, gioia e dolore d’ogni regista – in cui è decisivo soprattutto il ruolo dell’Orchestra, diretta da Alessandro Palumbo, la cui la direzione appare sostanzialmente corretta, ma priva talvolta del brio, della leggerezza, dello slancio che una partitura come questa pretende, pagando, probabilmente, anch’egli, come gli sfortunati bohémienne, lo scotto dell’età; bella figura, invece, fa il Coro, diretto da Gea Garatti, che ha modo d’esibire in lungo e in largo la perfetta padronanza della partitura, e certo non sfigura anche il Coro delle voci bianche, diretto da Stefania Rinaldi.

Opera, nella seconda parte, invece, il regista, una cesura netta: il tempo della gioia è terminato, la giovinezza sta per finire, il sogno dell’avvenire cede il passo e arrivano già i ricordi, i rimpianti, i comeravamo, le malinconie di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato; anche questo, ovviamente, è tutto nella musica, ma non ne darei così scontata la realizzazione: pure le luci, vivide nei primi due quadri, si vanno affievolendo lentamente fino alla tenebra dell’ultimo quadro, come vedremo.

E la barriera d’Enfer bianca e grigia e nera serrata nella morsa del freddo e della neve dell’ora antelucana non è mai stata tanto solida e cupa, tradendo l’origine di questa Bohème, nata nel 2012 nei laboratori artistici di Vigliena, diventando quella periferia urbana assoluto simbolo, disegnata come avrebbe fatto Mario Sironi, della condizione umana che racconta la nostra preziosa e dolorosa contemporaneità, di marginalità che non conoscono piacevolezze e progresso ma, invece, persistenza opprimente e tragica della materia – metafora dell’esistenza, perché non è la periferia a essere dura, ma la vita – che spazza via d’un sol colpo la speranza di vita migliore evocata dalla prima parte, più vicina alla natura, quasi espressione stessa del soprannaturale; di tutto questo è genuina espressione il doppio duetto: l’elegantissimo Marcello di Simone Alberghini, perfetto nell’emissione e nel fraseggio, scenicamente inappuntabile, stilisticamente convincente, trova in Hasmik Torosyan una degna compagna, la Musetta bella e spiritosa, dall’acuto sicuro e sfrontato della tradizione.

Così, la povertà lieta del primo quadro inesorabilmente precipita verso la disperata miseria della fine ultima, e non c’è in questo alcuna intenzione rivendicativa e verghiana e verista, in Puccini come in Saponaro, semplicemente la constatazione di un fatto, di una cultura dello scarto che inevitabilmente produce guasti e malattie e miasmi, come uscissero dalla lunga ciminiera sul fondo, sinistro presentimento di ciò che avverrà nell’ultimo quadro, a partire dall’allegria ridanciana dei protagonisti che, da sempre, sa volutamente di forzato, di falso, di depressione che si finge spensierata, in quei salti da funambolo triste, nel gioco en travesti, nel duello rusticano; Saponaro sceglie di scoprire il gioco con decisione fin dall’inizio: la metà destra del palco, la parte finora occupata dal fondo cielo, è adesso completamente al buio, e così tutta la quinta di destra; a sinistra le luci del lastrico e della costruzione sul fondo sono abbassate e un enorme velario nero occupa tre quarti della scena, a mo’ di sipario che nasconde in parte la scena e che ne accentua il carattere metatreatrale.

Le tenebre scendono sulla terra e i giovani incoscienti non se ne accorgono, o, almeno, non ne danno segno esterno; quando la situazione precipita con l’entrata in scena di Musetta e Mimì, perfino le fioche luci che rimanevano sullo sfondo si spengono e il buio completo è intorno ai protagonisti. Mimì, tornata al nido cinguetta e canta l’amor suo grande come il mare profondo, e mentre canta le mezze luci dei palchi s’accendono: si riappropria del suo nome vero, Lucia, per compiere l’ultimo miracolo definitivamente infrangendo la quarta parete, per donare anche a noi, al mondo reale – posto che così sia – la luce che fra poco regalerà anche al mondo intero, con la sua morte: perché è così che il regista decide di chiudere la rappresentazione: dietro il buio velario s’accendono, alla morte di Mimì, fioche luci che poi si rivelano appartenere a persone di popolo che prendono il corpo della protagonista e lo portano in processione – in dono – verso la città che nelle livide luci dell’alba ora appare di nuovo sullo sfondo, vincendo le tenebre. Ora sì, splendono le stelle, al termine della notte.

Bohème al termine della notte
Fermata Spettacolo



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